Cristian Chironi. Abitare l’immagine

Comprendere che l’immagine, e la fotografia in particolare, è una dimensione fluida, una superficie che può ospitarci e che tutto fa fuorché stabilire in modo netto la scansione del tempo è una scoperta di notevole portata. La cosa che vediamo appesa alle pareti o che compare sugli schermi è, in questo senso, un portale che, sebbene non ci porti al divino – non è un’icona nel senso ortodosso del termine – ci guida alla costante risignificazione del reale, plasmandolo in continuazione. L’immagine è una superficie che può ospitarci, e non una barriera contro cui si scontra soltanto il nostro sguardo. Questo aspetto, nella ricerca di Cristian Chironi, ha un rilievo notevole: attraverso il gesto performativo, infatti, l’io si fa agente e soggetto iconografico, entrando davvero nel tessuto della bidimensione e scavalcando, con questo gesto, le separazioni temporali che paiono ingabbiarci nel momento che viviamo. Il titolo della mostra che viene attualmente dedicata all’artista sardo nella project room di Camera, a Torino, fino al 1 febbraio 2026 e curata da Giangavino Pazzola, trova presto significato. “Abitare l’immagine” è ciò che fa Chironi, entrando nell’immagine e rendendola talvolta emanazione dell’architettura. Quando, in Offside (2007), si autoritrae di fronte alla fotografia in scala naturale della squadra di calcio in cui giocavano in gioventù suo padre e alcuni parenti, accovacciato come se anche lui fosse parte della rosa dei giocatori, vestito uguale, dov’è la separazione e quanto lungo è il tempo che separa Chironi dagli altri soggetti? Entrandoci, la fotografia non è più qualcosa d’altro da guardare; cessa l’estraneità che fa dell’osservatore sempre un forestiero di fronte all’immagine. Ora siamo dentro: anche noi immagine, anche noi laggiù, in quello stesso tempo.

Cristian Chironi, DK #7, 2008 © Cristian Chironi

Così come quando, in una tuta nera aderente da ladro, vediamo il performer dentro le sale del museo che contengono i capolavori di Canova avvicinarsi ai marmi (DK #7, 2008), profanarne l’aura, interrompere visivamente la continuità spaziale, chiarissima, che circonda le opere d’arte che le rende parte dell’ambiente in cui sono esposte. Qui il corpo, diventato segno oltre che gesto, lavora ancora una volta per incrinare l’impalcatura narrativa che siamo soliti attribuire al visibile. Al contrario di quanto fa l’artista cinese Liu Bolin, che attraverso il body painting si mimetizza all’interno degli spazi in cui si autoritrae, Chironi pare voler causare un trauma più evidente all’immagine, o perlomeno rendere palese ciò che lo causa.

Proprio l’idea di voler, o non voler, palesare l’elemento che manda in cortocircuito la percezione dell’immagine, sembra un secondo nodo nel discorso di Chironi. L’obiettivo non è la finzione, il perfetto camuffamento dell’artificio, la verosimiglianza: se fosse stato questo il fine, non dovremmo vedere il piedistallo trasparente su cui Chironi si accovaccia per entrare nell’immagine dei giocatori, né il gesto profanatore dell’aura canoviana dovrebbe essere così eclatante. Noi vediamo l’artificio: ed è lì, nello svelamento dell’impalcatura e del processo, che capiamo, tra le altre cose, che proprio nella sua falsificazione dichiarata la fotografia può ambire a quella verità che solitamente le sfugge proprio perché troppo abbagliata dalla sua sete di verosimiglianza. Ciò che vediamo è impossibile, irreale: Chironi non giocherà mai a calcio con Pasolini, né con la squadra di calcio di suo padre. Eppure la sfida è lanciata, e siamo oltre l’inganno: siamo nella convinzione di una possibilità data già in partenza per vana. Chironi è quel ragazzo accovacciato sul piedistallo trasparente, lì, non là.

Cristian Chironi, My house is a Le Corbusier (Studio Apartment), 2015, courtesy l’artista e Fondation Le Corbusier per il lavoro di Le Corbusier dietro le spalle dell’artista.

“Abitare l’immagine” è dunque un tentativo che riesce se ci si crede così come può essere il gesto inferto, la traccia del nostro passaggio. Le pagine intagliate col cutter dall’artista, quasi sminuzzate e trasformate, sovrapposte a ricreare volti inesistenti composti da più volti uno sull’altro (Gente di Kau, 2010), sono il modo in cui l’immagine può essere fatta propria, resa altro con le nostre mani. Ma è forse con la serie di lavori My house is a Le Corbusier (2020) che i concetti di immagine e abitazione si incontrano trasformando l’architettura in un fluido contenibile in una piccola scatola di plexiglass. Il noto architetto svizzero-francese, considerato tra i padri del movimento moderno, aveva un collaboratore, Costantino Nivola, originario dello stesso paese sardo di Chironi, Orani e che aveva fatto riportare da un suo nipote parte della propria collezione d’arte dall’appartamento di Long Island al paese nativo. Questo “trasloco” avvenne con la Fiat 127, altro mezzo simbolo e simbolico utilizzato da Chironi nel proprio lavoro, e di cui in mostra si vedono alcuni bozzetti. In un collegamento che vede questo modello di automobile affine alla città che ora ospita la mostra di Chironi (Torino), la Fiat 127 è anche l’ennesimo espediente mediante cui l’immagine – l’architettura, il paesaggio, la storia, le stesse opere d’arte trasportate nel viaggio del nipote di Nivola – si fa dimensione plurima e personale, in tutto attraversabile, fluida e in qualche modo ripiegabile.

Cristian Chironi, Frame da Torino Drive, 2024, courtesy Museo Nazionale dell’Automobile

Se l’immagine è qualsiasi cosa resa visibile, la realtà in cui viviamo e cosa scegliamo di vedere, Chironi ci racconta della possibilità di intervenire e collegare ogni dettaglio di questa enorme icona che chiamiamo mondo, nostra dimensione: di percorrerla e inventarla come si percorre il corridoio per andare in salotto, e come si inventa la storia della nostra permanenza tra le sue pareti.

Emblematico, dunque, il “divano” installato al centro della sala espositiva che permetterà al visitatore di vedere i video proiettati sulla parete di fronte: costruito a partire dagli elementi tubolari dei ponteggi, con le giunture sporgenti in ferro, le basi squadrate gialle e una tavola di legno come sedile, è rivestito dalle riproduzioni di un divano e due poltrone di Le Corbusier. Ancora una volta, l’obiettivo non è vedere come se, ma credere di: essere seduti su un divano Cassina nel salotto di Chironi.

L’immagine è questa finzione, questa verità. Essere seduti su una plancia di legno ma anche sul Cassina; essere su un piedistallo accovacciati ma anche con la squadra di calcio di nostro padre; vedere un volto ma anche quattro; essere di fronte al ladro e non fermarlo. In questo modo possiamo entrare dappertutto, abitare qualsiasi immagine; fare di ogni suo inganno casa nostra.

Carola Allemandi

Camera Torino fino al 1 febbraio 2026 – a cura di Giangavino Pazzola
Copertina: Cristian Chironi, Offside, 2007 ©Cristian Chironi

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