Nella Teoria generale del montaggio (1937) Sergej Ėjzenštejn giunse ad una conclusione che egli stesso definì “sconcertante”. Infatti nel descrivere la terza fase del montaggio che riguardava più propriamente gli audiovisivi, il regista affermò che, nel rapporto tra rappresentazione e immagine, il piano della raffigurazione visiva era dato dalla combinazione delle inquadrature mentre quello delle immagini era determinato dal suono, in particolare dalla musica. Paradossalmente Ėjzenštejn teorizzava che, nella fase più avanzata e articolata del montaggio audiovisivo, il significato di un film non proveniva dalle immagini o dalla dimensione visiva ma dal suono. In effetti se provassimo a svolgere un semplice esperimento, sostituendo la musica di un breve filmato, magari da allegra a triste, ci accorgeremmo che cambierà completamente anche il significato dello stesso video. Ėjzenštejn aveva ben compreso che le immagini e il suono dovevano avere sempre una forte coerenza relazionale, perché altrimenti si sarebbe perso il senso dell’audiovisivo. Il regista baltico non pubblicò mai la sua Teoria generale del montaggio, probabilmenteanche a causa delle conclusioni a cui era giunto, tuttavia oggi possiamo affermare che un film come “La zona d’interesse” (J. Glazer, 2024) conferma ampiamente la terza fase del montaggio teorizzata da Sergej Ėjzenštejn.

Il film “La zona d’interesse” è tratto dall’omonimo romanzo di Martin Amis e documenta il periodo che Rudolf Hoss trascorse con la sua famiglia ad Auschwitz in qualità di comandante del campo di sterminio. Molti dei fatti narrati nel film sono stati estrapolati dagli stessi diari che Hoss scrisse, raccolti poi nel volume “Comandante ad Auschwitz. Memoriale autobiografico di Rudolf Hoss ” (1956). Il memoriale non contiene grandi rivelazioni storiche perché si presenta come una continua autocommiserazione per la difficoltà del compito che gli era stato assegnato e per la mancanza di riconoscimento per il lavoro svolto, nei diari non c’è nessun segno di pentimento o ravvedimento, paradossalmente nonostante egli abbia contribuito in maniera attiva allo sterminio di tre milioni di persone, nei suoi scritti Hoss si descrive come una vittima, oberato di preoccupazioni e tutto preso a far vivere alla moglie e ai figli un soggiorno spensierato e felice. Scrive Hoss: «La mia famiglia stava bene ad Auschwitz. Ogni desiderio di mia moglie o dei bambini era esaudito. I bambini vivevano liberi e all’aperto, e mia moglie aveva il lusso di un giardino fiorito che era un vero paradiso. (…) D’estate, sguazzavano nella vasca del giardino, o nella Sola (il fiume che scorre nei pressi del campo di sterminio – n.d.r.). Ma la loro gioia più grande era di poter avere con sé al bagno il paparino». Ed è proprio nel contrasto che intercorre tra la serenità della famiglia di Hoss e le atrocità commesse nel campo di sterminio che Glazer struttura “La zona d’interesse”, film che si snoda come un ossimoro tra le immagini e il suono, tra ciò che vediamo sullo schermo e ciò che ascoltiamo. Infatti il vero senso del film viene “espulso”, come avrebbe detto Ėjzenštejn, fuori dalle immagini per poi concretizzarsi come narrazione nelle grida di dolore e di paura dei detenuti, negli spari e nelle urla atroci provenienti dal di là del muro che separava l’orrore dall’abitazione idilliaca degli Hoss.

Il regista ci informa immediatamente delle sue intenzioni già all’inizio del film quando, dallo schermo grigio e senza immagini, veniamo inondati per diversi, interminabili minuti con la musica di Mica Levi, autrice delle liriche in cui è racchiusa la vera narrazione. Il brano estremamente duro e incalzante esprime proprio la lacerazione umana tra l’indifferenza colpevole dei carnefici e l’agonia delle vittime. Il compito di raccontare una vicenda che si svolge apparentemente nella quotidianità di un menage famigliare, in cui si alternano scene spensierate e drammi famigliari, viene così affidato ai suoni e ai rumori di sottofondo che non sovrastano mai le immagini né sembrano interferire con i desideri piccolo borghesi della moglie di Hoss, tutta intenta ad accudire il suo giardino e i suoi giovani figli. In questa cornice di estremo cinismo si manifesta la banalità del male con cui Hoss e la sua famiglia si impossessano dei beni appartenuti ai deportati e discutono su come ideare nuovi e più potenti strumenti per uccidere quanti più individui possibili. Il film evita di mostrare l’abominio dei massacri nazisti, proprio perché il regista è più interessato ad attualizzare lo sterminio degli ebrei, rom, omosessuali, disabili, Testimoni di Geova e altri ancora, accaduto durante la Seconda Guerra mondiale, spostando in questo modo la nostra attenzione su atteggiamenti quali l’indifferenza, l’odio, gli eccidi e la violenza che insistono ancora oggi in tante parti del mondo.

Tuttavia “La zona d’interesse” ci indica anche un aspetto salvifico introducendo una vicenda realmente accaduta ad Auschwitz e che ha avuto come protagonista Alexandria Bystroń-Kołodziejczyk, una giovanissima partigiana polacca che usciva di notte in segreto, sfidando i militari tedeschi, per nascondere mele nella terra affinché i prigionieri potessero cibarsi. Glazer sceglie di girare le scene utilizzando la tecnica della termografia, per cui le immagini si formano grazie alla temperatura del corpo, sottolineando in questo modo il fatto che l’unica luce, sinonimo di salvezza e di speranza, è quella che portiamo con noi, quasi a dire che ci possiamo salvare solamente se riusciamo a trovare quel calore umano, quella luce nelle tenebre che pure splende dentro di noi.
Rossano Baronciani