Foto di viaggio, viaggio fotografico o solo fotografie.

Fare il fotografo mentre si viaggia è faticoso. Il viaggiatore e il fotografo sono due mestieri diversi. Il viaggiatore si cala nella realtà che sta vivendo in mobilità o stando fermo cercando di vivere il momento tramite una esperienza diretta ed accetta che il tempo scorra cercando di registrare le sensazioni e le emozioni.

Il fotografo calato nella stessa realtà è alla ricerca dello scatto per catturare il momento perfetto e specifico in modo da congelarlo per poi potere condividere il tutto attraverso uno strumento a lui esterno: la macchina fotografica che ha propri sistemi di regolazione né emozionali né completamente automatici.

Vero è che i viaggiatori del periodo classico, non avendo strumenti moderni come la macchina fotografica per documentare i loro spostamenti, utilizzavano mezzi alternativi per ricordare, raccontare e tramandare le esperienze di viaggio, usavano la scrittura, il disegno, l’acquarello, la raccolta di oggetti e la narrazione orale per fissare i ricordi dei loro viaggi, trasformandoli spesso in opere d’arte o documenti di grande valore storico ed a volte artistico. Ma le citate attività hanno tempi ben diversi dallo scatto di una fotografia ancorché non sia una fotografia di posa, paesaggistica o di ritratto singolo o collettivo. Lo scatto richiede quello che H.C. Bresson diceva “Fotografare è riconoscere nello stesso istante e in una frazione di secondo un evento e la rigorosa organizzazione delle forme percepite visivamente che gli danno significato. È mettere sulla stessa linea di mira il cervello, l’occhio e il cuore.”

Usare il cervello e l’occhiosoprattutto attraverso il mirino della fotocamera prestando attenzione ai parametri di scatto richiede impegno e concentrazione, il muoversi per cercare il punto e la posizione migliore emotivamente per lo scatto richiede energia ed a volte fatica, se poi le condizioni ambientali non sono le migliori magari in una foresta o tra gli spintoni di una folla tutto richiede maggiore impegno e consumo della propria body battery monitorata dall’orologio al polso. C’è poi l’aspetto di prendere conoscenza e coscienza del luogo che si sta visitando e dei suoi contenuti animati e inanimati che siano. Questo aspetto lo tratto nel seguito.

Per misurare cosa accade viaggiando e fotografando in un recente viaggio in Guatemala durante la visita al sito archeologico di Tikal ho registrato gli spostamenti. Sono rimasto meravigliato da quelli compiuti nell’area dei due templi principali (vedi immagine n.01). Gli spostamenti li ho fatti nell’area della piazza alla ricerca della migliore posizione di scatto e del migliore momento magari con presenza umana ridotta al minimo.  Se poi il fotografo come nel mio caso è, come direbbe il commissario Montalbano: un settantino, si può arguire che la fatica c’è. Senza parlare dei pesi da trasportare anche perché gli obiettivi zoom non possono risolvere tutto ed almeno un super grandangolo occorre portarlo come è accaduto nelle foto che corredano questo articolo.

Immagine 1 – Traccia della visita al complesso archeologico di Tikal (Guatemala)

Ma torniamo a ciò che regola il connubio tra viaggiatore e fotografo. Premetto che sto usando il termine viaggiatore un po’ impropriamente per quanto definito da Galimberti [ L’etica del viandante  – https://www.feltrinellieditore.it/opera/letica-del-viandante/ ]  che evidenzia la differenza tra viaggiatore e viandante conferendo a quest’ultima figura quella calma e disponibilità alla osservazione finalizzata alla comprensione di quello che si sta vedendo ed accade attorno allo stare ed all’andare. Continuo ad usarlo mettendo in evidenza che comunque sia nel viaggio (anche se non fatto in gruppo dove la pressione del programma di visita è certamente maggiore) il fattore tempo e le varie spinte esterne a comprimerlo esistono e si fanno sentire. Occorrerebbe tornare al modo di spostarsi dei viaggiatori del Tour fermandosi nei posti tutto il tempo necessario a capire l’ambiente nel quale ci si trova per poterlo fruire, a vivere la realtà che si trovava e nella quale ci si immergeva instaurando rapporti con le persone locali. Anche questo si può fare oggi ma non ricade completamente sotto l’ombrello della foto di viaggio o del viaggio fotografico del quale sto parlando. Richiede un tempo allargato che non sempre si ha, una guida esperta e motivata a fare conoscere le caratteristiche (fisiche, paesaggistiche, meteorologiche, sociali, storiche ed artistiche) dell’ambiente nel quale ci si trova ed a facilitare il contatto con le persone del luogo. Cerco e trovo spesso guide di tal genere ben consapevole che a loro si deve il successo non solo del viaggio ma anche e soprattutto della fotografia. Del resto i grandi fotografi devono molto alle loro guide e facilitatori. Le fantastiche immagini di Salgado di Genesys e Trabalhadores non avrebbero potuto essere scattate senza guide locali alle quali affidarsi per accedere a zone impervie e stabilire un rapporto di fiducia con le comunità che ha fotografato.

È innegabile che questa pratica non solo lo ha aiutato a muoversi in sicurezza, ma gli ha anche permesso di comprendere meglio la cultura e il contesto delle persone ritratte, contribuendo alla profondità e autenticità delle immagini.

Anche McMurray ha usato guide e viene considerato come un fotografo che costruisce relazioni passando molto tempo con le persone, osservando e attendendo il momento giusto per lo scatto o l’incontro magico con il soggetto unico (vedi ad esempio il famoso ritratto di Shuba eseguito nel campo profughi).

Emerge quindi come fondamentale l’aspetto del tempo che si dedica a stare in un certo posto o a percorrere un certo tratto del viaggio. Più se ne ha, di tempo, e teoricamente meglio è. In realtà non è completamente vero perché molto dipende dalla facoltà di sintesi dell’artista (mi sembra corretto definirlo così per l’azione creativa che compie). Chiamo in aiuto Pasolini e la “Lunga strada di sabbia” perché sono poche le pagine di quel diario di viaggio, lungo la costa italiana da Ventimiglia a Trieste fatto in buona parte con Paolo Di Paolo fotografo, che non possano essere considerate esse stesse fotografie. Nella maggior parte delle località descritte Pasolini si soffermò poco ma mise a fuoco e descrisse scene e particolari che a ciascun fotografo piacerebbe potere avere registrato su pellicola. Sarebbe interessante analizzare quelle pagine in termini fotografici di profondità di campo e ipotizzare quale focale e quale apertura Pasolini abbia usato nella descrizione in funzione della singola scena. Ma non divaghiamo. Riboud teorizza e raccomanda un tempo adeguato di permanenza per capire quello che si va a fotografare.

[ https://magazine.discorsifotografici.it/china_marc_riboud_martin_parr/]. Sono d’accordo con lui ma ovviamente le variabili da considerare per quantizzare il tempo sono molte e diverse: omogeneità di culture tra fotografo e soggetto ripreso, facilità di comprensione di quello che si sta fotografando, tipo e caratteristiche del soggetto, esperienza di viaggio del fotografo e tanto altro.

Poiché viaggio per fotografare, i viaggi li preparo dal punto di vista fotografico. Nel viaggio in Guatemala e Honduras avevo deciso di fotografare le vestigia Maya in b/n [foto 1 – Piazza principale del complesso archeologico di Tikal – Guatemala) ed usare il colore per tutto il resto che comunque non era definito in dettaglio: sapevo che aquiloni (della festa dei morti), mercati e qualche paesaggio sarebbero certo stati fotografati a colori.

foto 1 – Piazza principale del complesso archeologico di Tikal – Guatemala

Ma poi si trova sempre qualche soggetto o aspetto inatteso quando si viaggia. Appena sceso dall’aereo a Città di Guatemala nel caotico traffico del trasferimento serale verso il primo hotel sono stato colpito dai colori e dall’aspetto dei così detti “chickenbus”: fantastiche trasformazioni di school-bus americani dismessi (quelli gialli) importati e completamente elaborati meccanicamente e nella carrozzeria dalle varie compagnie private di trasporto pubblico che operano negli altopiani del Guatemala. Dopo averli scoperti per metà del viaggio ho continuato a fotografarli soprattutto sulla strada mentre eravamo noi e loro in movimento raccogliendo una serie di fotografie pubblicata in un agile libretto disponibile su Amazon (https://amzn.eu/d/eqUIz7G).

foto 2 – Chickenbus su una strada degli altopiani del Guatemala

Gli eventi inaspettati quale l’impatto con gli autobus degli altopiani possono essere il pass par tout per capire meglio dove ci si trova e quanto il viaggio sta offrendo o addirittura fornire la linea rossa da seguire per scattare foto. Così mi è accaduto ho capito che i colori soprattutto quelli creatii dall’uomo dovevano essere il motivo dello scattare fotografie durante il viaggio.

Mi sono concentrato sul colore per sé a prescindere dal contesto nel quale appariva e a che cosa venisse applicato. Ho cercato i colori delle merci nei mercati [ foto 3 – Mercato della frutta a Chichicastenango – Guatemala]  dei murales [foto 5 e 6] nelle cittadine degli altopiani e del lago Atitlan, delle tombe del cimitero di Chichicastenango [ foto 7 ] e degli aquiloni [ foto 8] della celebrazione dei morti a Sumpango. Ne avevo abbastanza per tutto il viaggio.

Penso che ogni viaggio nel quale il viaggiatore non sia solo movimentato da più o meno professionali trasportatori abbia una componente strettamente legata al metafisico. Senza disturbare Chatwin con la sua idea di nomadismo compulsivo e caratteristico della specie umana, che pure caratterizza qualcuno di noi, ritengo più reale riferirsi al viaggio come esplorazione di mondi reali e immaginari, un modo per interrogarsi sulla natura di quello che si percorre finalmente viaggiando e che prima si era solo immaginato durante la sua preparazione. Il viaggio è spesso un percorso interiore, un’indagine sulla propria identità e sul significato dell’esperienza umana. Non è tanto importante la meta, quanto il processo stesso del viaggio e ciò che si scopre lungo il cammino. Non posso non ricordare che Calvino associa il viaggio a uno dei suoi concetti più celebri, la leggerezza. Il viaggio è un movimento fluido e libero, un mezzo per liberarsi dal peso delle convenzioni e della rigidità del pensiero.

Nel viaggio in Guatemala ho sentito la necessità di scattare in b/n la foto di un albero fantastico [foto 9] al centro di un sito archeologico, sono stato felice di gettare il cuore oltre quella cima alta, tanta la gioia non avevo notato che la luna era già sorta e solo sviluppando ho visto il regalo che mi era stato fatto.

foto 9 – Albero – Guatemala 2024

Esiste anche il viaggio fotografico, che spesso viene proposto da tour operator e fotografi/guide, per essere efficace, penso io,  deve essere tematico quale ad esempio quello naturalistico. I fotografi di fauna e di ambiente sono bravissimi a confezionare blitz fotografici dai quali tornano con qualche formidabile scatto, del resto molti dei concorsi fotografici con focus sulla natura ne sono pieni. 

Un tipo di fotografia molto difficile è la fotografia come diario di viaggio. Lo è per tutti anche per i maestri. Nella mostra di Franco Fontana. [https://www.arapacis.it/it/mostra-evento/franco-fontana-retrospective] in corso a Roma all’Ara Pacis fino al 31 agosto 2025, a mio parere,  la parte del  reportage di viaggio sulla Route 66 è piatta, non perché le foto non siano molto apprezzabili ma perché l’anima del fotografo si è fatta da parte privilegiando l’aspetto documentaristico obiettivamente difficile nella realtà della strada già ghost all’epoca degli scatti. 

Quando viaggiamo, viviamo esperienze che ci trasformano: un tramonto su una spiaggia deserta, il caos di un mercato, lo sguardo di un passante. Il tutto però si svolge dentro di noi e questo è il limite. La fotografia diventa il nostro diario, un linguaggio (che solo a volte diventa universale) capace di raccontare ciò che vediamo e sentiamo. Ogni scatto è una pagina che custodisce ricordi, atmosfere e dettagli, trasformando il viaggio in una narrazione visiva che possiamo rileggere ogni volta che vogliamo. La sfida è comunicare con tutti tramite la immagine, non solo con noi stessi.

Quello che va assolutamente evitato è che l’ossessione per l’immagine distragga dalla bellezza del viaggio o che, al contrario, un’immersione troppo totale lasci sfuggire la possibilità di raccontarlo a tutti. L’equilibrio va trovato anche se non è facile. In definitiva, il viaggiatore vive il momento; il fotografo lo conserva. Entrambi, a loro modo, esplorano e celebrano il mondo che esplorano e vivono, ma con linguaggi diversi: il primo con il cuore e il corpo archiviando sensazioni e immagini nel proprio cervello, il secondo, pure animato dal cuore, usando la luce e la tecnica della macchina fotografica archivia nel supporto informatico.  Paradossalmente quello che fa il fotografo usando sistemi digitali non lo può fare la AI (Artificial Intelligence), perché l’istante dello scatto è irripetibile, mentre essa (la AI) può creare una immagine dalle parole e dai ricordi del viaggiatore che sarà quanto più dettagliata e fedele al ricordo quante più saranno le parole ed i dettagli descritti.

Mauro Salvemini

Tutte le fotografie sono sono state scattate nel 2024 dall’autore e coperte da copyright della Culture2All – Mauro Salvemini ONLUS