Nato a Bolzano ma cresciuto tra Milano e Verona, Janusz (Jan) Daga unisce creatività a una profonda passione per l’antropologia culturale. Si è laureato in Comunicazione e Marketing a Milano e in seguito ha lavorato nei Paesi Bassi, in Austria e in Italia, prima di stabilirsi definitivamente a Bangkok, dove vive e lavora da oltre un decennio.
Negli ultimi dodici anni ha dedicato la sua vita alla fotografia professionale, pubblicando sei libri e lavorando nel reportage, nella pubblicità e nel cinema come fotografo di scena.
Jan si muove con naturalezza tra vari generi fotografici, alternando crude e provocatorie immagini in bianco e nero, che catturano l’energia viscerale della vita notturna thailandese e non lasciano nessuno indifferente, a fotografie finemente composte che celebrano il ricco patrimonio culturale del Sud-est asiatico, con molto altro nel mezzo. La sua fotografia di strada va oltre la semplice documentazione della vita quotidiana: diventa uno studio antropologico dell’esistenza urbana, dura, senza filtri e spietatamente onesto, evocando a tratti lo spirito sovversivo di Moriyama. Le immagini di Jan riflettono una profonda autenticità e, unite alla sua acuta percezione dell’ambiente circostante, si rivelano straordinariamente penetranti.



Da straniero, si è immerso nel tessuto della società thailandese pur rimanendo fedele alla propria arte. Sfogliare i suoi libri fotografici è come ricevere un invito a intraprendere un viaggio con lui — che sia attraverso la grazia di una danza Khon o il ritmo caotico di una metropoli asiatica. Il suo lavoro non si limita a catturare momenti: trascina lo spettatore nell’anima e nell’essenza di un luogo.
Oltre alla fotografia, Jan coltiva una profonda passione per i libri antichi e i videogiochi, che colleziona con meticolosa attenzione. La musica è un altro elemento fondamentale della sua vita: sperimenta con i sintetizzatori e condivide le sue composizioni su YouTube.



Come è iniziato il tuo percorso nella fotografia?
Da bambino soffrivo di uno stato ossessivo-compulsivo che mi portava ad avere incubi a occhi aperti. Orribili. Il mio corpo perdeva consistenza, si dilatava all’infinito, si dissolveva nello spazio. Non potevo controllarli. Non potevo uscirne.
Per imparare a gestirli, ho iniziato a disegnare. Volevo intrappolarli su una superficie fisica. Poi a otto anni ho scoperto la fotografia: per la prima comunione ho chiesto una macchina fotografica – credo fosse una Canon Snappy EZ -. Forse scattando foto, avrei potuto tenere sotto controllo i miei incubi.
Tutto è iniziato lì, con quella piccola macchina fotografica tascabile che mi portavo sempre dietro, facendo foto alle fidanzatine e agli amici. Grazie a questa mia ossessione, oggi ho ancora centinaia di immagini: avventure, viaggi, momenti, che altrimenti sarebbero svaniti nel nulla. Conservo ancora la Pentax che mia madre mi regalò per il 15 compleanno. Sembrava una macchina straordinaria, avveniristica (era la sua e aveva solo quella, ma decise di darla a me). Ho ancora tutto, scatoloni pieni di provini a contatto in B/N, diapositive e stampe da camera oscura – ricordo il mio primo sviluppo in acido: a parte le dita gialle e l’odore acre, fu magico. Piansi.
Più tardi, alla fine degli anni ‘90, mentre studiavo pubblicità e marketing, ho iniziato a lavorare come assistente dell’assistente – dell’assistente – nello studio di Sergio Tornaghi a Milano. Un passo naturale, in qualche modo. O forse solo un altro modo di dare un senso a quella mania di documentare tutto.


Sei impegnato nel campo della fotografia da molti anni, con esperienza sia in Europa che in Asia. Per cominciare, vorrei chiederti: pensi che esista un linguaggio visivo occidentale e uno asiatico? Se sì, in cosa si differenziano e quali sono le loro caratteristiche distintive?
L’Asia per me è un prisma di luce e ombre. A parte i pochi grandi giapponesi, nessuno ha davvero varcato gli oceani, quindi noi occidentali sappiamo poco o nulla dei fotografi asiatici. Eppure in Cina, Corea, Hong Kong, Taiwan, ci sono stati fotografi notevoli. Per noi occidentali la fotografia è un’emanazione diretta della pittura: cresciamo con musei, grandi maestri, luce, composizione. Ah! Caravaggio! Tutto questo si riflette anche nel nostro cinema che a sua volta filtra e gocciola nella fotografia. E viceversa. Ma in Asia il percorso del mezzo fotografico non è lo stesso, qui la fotografia e’ stata portata come mezzo documentale dagli occidentali alla meta’ del XIX secolo. Forse è per questo che autori come Araki o Moriyama ci hanno sorpreso così tanto: non sentendo quel peso, sono usciti da schemi che noi abbiamo interiorizzato per generazioni. Certo, anche in Italia ci sono stati sperimentatori fuori dagli schemi, ma noi tendiamo a giocare più con il mezzo che con la poetica dell’immagine. Vedi il lavoro di Maurizio Galimberti ad esempio, dove la fotografia si avvicina alla scultura.
La fotografia occidentale è monumentale, scultorea, epica. Il bianco e nero dei grandi reporter di guerra ha la solennità di un frontone del Partenone. Emozione, tragedia e commedia. Gli asiatici sono più osservazione e registrazione. Anche del brutto. Dello sporco e del mosso fuori campo. La loro è una pennellata più leggera, più lenta. Piu’ schiva e introspettiva.


Non c’è dubbio che oggi il ruolo del fotografo sia complesso e sfaccettato, influenzato da un panorama in continua evoluzione, dove tecnologia, social media e mercato dell’immagine ridefiniscono costantemente il modo in cui le fotografie vengono create, distribuite e percepite. Qual è secondo te la definizione di fotografo nel mondo contemporaneo? Cosa significa essere fotografo nel 2025?
Fare belle foto ormai è alla portata di tutti — lo vediamo ogni giorno, ovunque. Persino l’AI sa generare immagini che sembrano uscite da un set di moda o da un reportage di guerra. Ma la progettualità, la visione d’insieme, quella è un’altra cosa. Quella è solo – ancora – del professionista.
Un fotografo sa che dietro ogni scatto c’è un processo. Che sia un reportage, una campagna pubblicitaria o un editoriale di moda o anche solo una vacanza. Conosce la sua attrezzatura come un meccanico conosce il suono di un motore, sa parlare con clienti e produzione, sa cosa significa lavorare con scadenze e aspettative. Sa creare uno storyboard, gestire un assistente, scrivere un grant per un progetto fotografico, vendere un reportage a un magazine dopo averlo progettato e realizzato.


Scattare una bella foto è una cosa, costruire una storia per immagini è tutta un’altra cosa – il famoso Storytelling di cui tutti si riempiono la bocca -. Così come stare su un set pubblicitario, con il cliente e l’agenzia che controllano ogni singolo scatto, dove ogni dettaglio deve essere perfetto. O fotografare un matrimonio, dove se sbagli o perdi un momento cruciale, è finita. Essere fotografo è un modo di vivere, di osservare il mondo. È alzarsi la mattina e avere un progetto in testa, qualcosa da dire e da raccontare. Un po’ come uno scrittore che sente l’urgenza di mettere parole sulla pagina. Il fotografo sente l’urgenza di creare immagini. Non per i like, non per la vetrina — quelli, se arrivano, arrivano dopo. Molto dopo. O forse mai.
E poi c’è tutto il resto: restare aggiornati, imparare a usare nuove tecnologie, nuovi software, nuove fotocamere. Leggere libri, studiare i grandi fotografi, capire la loro lezione. Perché la fotografia è un linguaggio. E un linguaggio o lo impari o ripeti le stesse frasi che dicono tutti.

Vorrei ora soffermarmi sul tema dell’industria della fotografia. Ho spesso l’impressione che oggi la qualità più ricercata in un’immagine sia la sua appetibilità, nel senso di un lavoro che sia il più accessibile e consumabile possibile. Sembra che i fotografi, soprattutto quelli che aspirano a vivere del proprio lavoro, finiscano per confondersi in una massa indistinta, uniformandosi a una produzione sempre più standardizzata, condizionata dalle logiche del mercato. Questo processo porta ad una progressiva omologazione delle immagini, sacrificando l’unicità dello sguardo autoriale. Secondo te, stiamo perdendo l’autorialità e diventando i nostri stessi censori?
Più che censori io direi che oggi siamo tutti editori. Il punto è che ormai tutti i giorni pubblichiamo qualcosa su canali di comunicazione online per un ipotetico pubblico che è sempre lì, seduto in prima fila, con le palette dei voti pronte a giudicare. Immagina Picasso con un’intera platea che commenta ogni singola pennellata, ogni ceramica, ogni schizzo. Probabilmente avrebbe cambiato mestiere.
Essere editori significa aver assorbito la logica dell’editoria, che esiste da sempre: se una cosa piace alla gente, venderà. Se non piace, verrà scartata. Con questo ragionamento, interi capolavori del passato non sarebbero mai esistiti, pensiamo al cubismo e a come era stato accolto all’epoca. L’arte non può permettersi di dipendere da un algoritmo, eppure eccoci qui, a postare, valutare, cancellare, ri-postare, sempre con un occhio al pubblico e l’altro al risultato.
Poi c’è l’altro problema: i professionisti sepolti da una valanga di improvvisati. E le ragazze che con un profilo IG di foto super orrende – ma super sexy – hanno milioni di followers? La realtà è che, distorsioni a parte, quando serve lavorare, le aziende serie sanno benissimo a chi rivolgersi. Sanno distinguere. E sanno che il professionista non può permettersi di sbagliare. Non è una questione di saper usare Photoshop o di avere followers su Instagram – quelli sono altri ingaggi e li lasciamo al marketing -. Quando c’è da portare a casa il risultato esiste ancora un mondo di competenze che viene rispettato.
Hai dedicato molti anni a documentare i cambiamenti di Bangkok attraverso la fotografia. Non credo di esagerare nel dire che il tuo archivio conti migliaia di immagini, catturando scorci della città che oggi non esistono più. Raccontami di più su questo tuo lavoro, ancora inedito: cosa ti ha spinto a intraprenderlo e cosa significa per te osservare e immortalare l’evoluzione di una metropoli in continuo mutamento? Inoltre, quali sono i tuoi progetti futuri legati a questa ricerca visiva?


Hai ragione — Bangkok, Seoul e perfino Hong Kong, anche se lì sono arrivato troppo tardi. Ho sempre avuto una fissazione per l’architettura e il cinema, e quando metti insieme le due cose, finisci per sviluppare un’ossessione per quei luoghi che, senza alcun bisogno di illuminazione artificiale o scenografie costruite, sembrano già un set perfetto.
Certi posti, se ami la cultura, senti che andrebbero preservati. Se nessuno lo fa — persone, governi, chiunque dovrebbe occuparsene — per me l’unico modo per salvarli è documentarli il più possibile, fermarli in immagini prima che spariscano. È quello che hanno fatto Girard e Lambot con la Kowloon Walled City. Ancora oggi, dopo decenni, continuano a pubblicare libri, a organizzare mostre, a ricordare quel luogo assurdo e straordinario che non esiste più. E il paradosso? Hong Kong, la stessa città che l’ha demolito, oggi gli dedica esposizioni e musei. Se avessero capito prima quello che stavano distruggendo, magari lo avrebbero lasciato in piedi.
E ora, qui a Bangkok, sta succedendo la stessa cosa. Abbiamo l’ultima Chinatown autentica al mondo. Ma è a un passo dalla scomparsa. Tra qualche anno, di quei vicoli, delle insegne al neon, della vita che si muove tra le bancarelle e le case di legno, resteranno solo vecchie cartoline ingiallite. Forse noi italiani ce l’abbiamo nel sangue, questo istinto a conservare, ed è per questo che il Colosseo e San Pietro sono ancora lì dopo centinaia/migliaia di anni. Se fossero stati costruiti in Asia, probabilmente oggi non esisterebbero più —nemmeno come illustrazioni su una guida turistica.



Ti muovi con disinvoltura tra diversi generi fotografici, spaziando dal fotogiornalismo alla fotografia documentaria e di reportage, ambiti nei quali hai ottenuto prestigiosi premi e riconoscimenti. Hai lasciato il segno anche nel mondo della moda e della pubblicità, dimostrando una versatilità rara. Tuttavia, sarebbe impossibile parlare di Jan fotografo senza soffermarsi sulla tua vera passione: la ritrattistica. Raccontami di più su questo aspetto così centrale del tuo lavoro.
La fotografia di ritratto è probabilmente la cosa che mi lascia più libertà — una specie di deviazione poetica in un mio universo mentale complicato. Amo lavorare con le persone, provare a catturare qualcosa che va oltre il visibile, qualcosa che hanno dentro. Non chiedo mai pose. Non voglio che qualcuno “faccia” qualcosa per la macchina fotografica. Ogni mio ritratto è il risultato di un processo anche fisico che ho studiato, testato e affinato nel tempo, spesso difficile da spiegare a parole. Posso dirti pero’ che aver praticato Aikido c’entra qualcosa. Con la bellezza non puoi distrarti, non e’ la bella ragazza o il bel ragazzo a fare la bella foto. Devi avere un progetto in mente, costruire un portfolio solido. Anche questa è professionalità. Chiunque può mettere insieme una raccolta di ritratti con luci, obiettivi e ambientazioni diverse, ma pochi riescono a costruire un portfolio con una narrazione coerente.
Scatto sempre senza trucco. Zero. Niente abiti appariscenti. Il mio amato minimalismo giapponese si traduce in un semplice top nero, no make-up, nessuna acconciatura elaborata. Forse è per questo che sono sempre stato attratto dall’estetica giapponese e dalle contaminazioni industrial, da Comme des Garçons a Raf Simons, quell’avanguardia che poi Balenciaga ha portato all’estremo. Giusto per dire.



È da qualche tempo che stai esplorando l’uso dell’Intelligenza Artificiale nella creazione di immagini. Ci racconti la tua esperienza in questo campo e quali consigli daresti ai fotografi che vogliono avvicinarsi a questa tecnologia.
La uso costantemente per lavoro. Le banche di immagini stock spariranno — stessa cosa per i video stock. È solo questione di tempo. E chi non lo capisce ora, tra tre anni sarà tagliato fuori. Modelle e fotografi, tutti dovranno adattarsi se vorranno restare a galla.
La stampa è già finita, anche nella moda. I siti web non pagano. Il digitale non genera entrate. E la pubblicità? Sempre più dipendente dall’IA per packshot e video.
I fotografi, quelli che resisteranno, diventeranno più simili a direttori artistici, curatori visivi che selezionano e commissionano immagini ai loro agenti IA, usando la loro conoscenza tecnica e culturale come unico vero valore. Forse gli unici che continueranno a esistere saranno i reporter (forse) e i fotografi di matrimoni (un mestiere durissimo e assolutamente rispettabile, che ho sempre ammirato).


Chi sono stati i tuoi più grandi maestri nel campo della fotografia? Quali figure hanno influenzato maggiormente il tuo percorso e la tua visione artistica? E oggi, dove trovi ispirazione per il tuo lavoro?
Di sicuro tutti i grandi fotografi di guerra dagli anni ’50 agli anni ’70 — Margaret Bourke-White, W. Eugene Smith, Robert Capa. Ma anche l’ironia chirurgica di Elliott Erwitt, la solennità quasi scultorea di August Sander, la potenza visiva di Sebastião Salgado.
Poi, con il tempo, ho iniziato a seguire i movimenti che si intrecciavano con l’evoluzione del linguaggio della moda — Terry Richardson (ricordo ancora quei cataloghi Sisley nei negozi, pieni di immagini quasi pornografiche), la delicatezza cinematografica di Peter Lindbergh, la sensualità esplosiva di Ellen von Unwerth, il glamour plastificato di Mert & Marcus, la follia di Juergen Teller. Se non lo conoscete, Il suo lavoro fine ’90-inizio 2000 era una bomba. Oggi probabilmente anche lui ha bollette da pagare (ma continua comunque a scattare per Balenciaga, quindi direi che non se la passa male).
Oggi mi ispiro più all’arte e alla pittura. Non credo che Instagram possa essere considerato una fonte d’ispirazione — per me è un buco nero per la creatività, un loop infinito dove trovi sempre qualcuno più bravo di te o qualcuno che ha già realizzato esattamente quello che avevi in mente di fare. Non è sano se vuoi creare qualcosa di tuo, ogni tanto bisogna svuotare la mente se si vuole riempire con qualcosa di nuovo.
E naturalmente continuo a guardare ai fotografi giapponesi e coreani dei quali ho consumato letteralmente le pagine delle loro pubblicazioni.
Silvia Dona’
https://www.instagram.com/jan_daga_
Pubblicazioni:
2019 – Whisky Boom Boom
2019 – Seoul Nightshift
2021- Like. Behind the Scenes of Thai Popular Folk Theatre
2024- Love all the People
2025- Pattaya Mai Me Arai
2025- Seoul Lucky Love
Grazie mille per la bella intervista! È stato un vero piacere condividere.