Enfance, innocence, aube de la vie,
puis de l’amour
les plus beaux jours…
Avvicinarsi oggi alla scrittura di Irène Némirovsky, a decenni dalla sua scomparsa e successiva riscoperta, comporta una duplice presa di coscienza: quella di una voce letteraria intensa e, parallelamente, quella per un percorso narrativo interrotto troppo presto dalla tragedia dell’Olocausto. La raccolta edita da Adelphi “Il Carnevale di Nizza e altri racconti”, conduce il lettore agli esordi di un talento già definito, dotato di uno sguardo a tratti impietoso.
I racconti rappresentano quasi un’indagine sull’animo umano, un percorso che muove dalla leggerezza dei bozzetti giovanili dedicati a Nonoche – figura di giovane parigina tanto civetta quanto calcolatrice – per giungere a narrazioni che presentano una profondità psicologica rara, soprattutto considerando che alcuni scritti risalgono a quando l’autrice aveva a malapena 18 anni. Chi, come il sottoscritto, si è lasciato letteralmente trascinare da “Suite Francese”, sa che la qualità della scrittura di Némirovsky risiede nella sua capacità di osservare. Il suo non è uno sguardo che giudica, ma che registra con precisione le incrinature dietro le facciate borghesi, le disillusioni celate sotto i sorrisi di circostanza, la disperata ricerca della felicità.
In questa direzione va il racconto che dà il titolo alla raccolta, “Il carnevale di Nizza”. La storia di Simone e Tony, e del loro amore mancato che riaffiora a distanza di anni, rappresenta un’analisi della crudeltà del tempo che passa. Némirovsky costruisce un contrappunto tra ricordo e disillusione, dove il carnevale non è solo una festa di maschere e coriandoli, ma il teatro di una vita che avrebbe potuto essere e non è stata. Il dialogo finale tra i due protagonisti, ormai invecchiati, condensa con efficacia il peso di un’intera esistenza e il sapore amaro delle occasioni perdute:
«Ti ho amata a lungo, Simone, lo sai?». Lei mormora con amarezza: «Se mi avessi amata, avresti messo da parte il tuo affetto e la tua riconoscenza per René… Avresti messo tutto da parte… Ma tu ti fai ancora beffe di me…».
La giovinezza dell’autrice, ripetiamolo, non si traduce in ingenuità, ma diviene uno strumento di analisi, uno sguardo privo di filtri che le consente di cogliere l’essenza dei suoi personaggi con una lucidità quasi chirurgica. Un esempio è quello de “La Njanja”, ritratto di una vecchia tata russa, figura sradicata e inconsolabile nella Parigi moderna. Il personaggio incarna la nostalgia per un mondo perduto con una forza toccante.
Soltanto la [vecchia] Njanja era inconsolabile. Non dimenticava niente e non era felice. […] Pensava alla sua malinconica contrada, alle foreste profonde, e alle pianure infinite. Per l’anima di quell’umile domestica, l’Europa impoverita era troppo piccola.
Qui si ritrova il dramma dell’esilio e la difficoltà di adattarsi, con un passato che diventa un peso. È lo sguardo di una scrittrice che, anche se molto giovane, ha già conosciuto la perdita e lo sradicamento (a 11 anni fugge con la famiglia dai pogrom del regime sovietico), e riesce a trasformare la sua esperienza personale in una storia che parla a tutti.
La stessa lucidità si applica alla critica del mondo borghese, come avviene nel racconto “Natale”, costruito con una tecnica quasi cinematografica. L’autrice smonta l’iconografia tradizionale della festa, contrapponendo la gioia infantile e l’ipocrisia degli adulti. Mentre i bambini sono intenti a giocare, la disperazione si consuma nelle stanze accanto. La giovane Claudine, abbandonata dall’amante e incinta, tenta il suicidio, e la sua angoscia si mescola alle voci infantili, creando un contrappunto di notevole efficacia:
Claudine chiude con cura le porte e apre il rubinetto del gas dello scaldabagno, sopra la vasca […]. Si sdraia sul letto. Le voci dei bambini che cantano nel salone ora si allontanano, attraversate dai rintocchi delle campane, ora si avvicinano, diventando stridenti e forti […] I bambini, urlando di gioia, fanno scoppiare i sacchetti di coriandoli, si mettono i cappellini di carta in testa, soffiano nelle trombette di cartone. «Il trenino! Il trenino!»
Altrove, come in “Una colazione in settembre”, l’analisi si fa più intima, concentrandosi sulle sfumature del non detto. L’incontro tra Thérèse e un amore di gioventù, Raymond, diventa l’occasione per un bilancio esistenziale. La tensione non è negli eventi, ma nel divario tra i pensieri della protagonista e la banalità della conversazione. Il pranzo raffinato, descritto con minuzia, fa da sfondo a un’angoscia silenziosa, quella per una vita che si percepisce ormai trascorsa.
«La mia giovinezza,» pensò Thérèse disperata «la mia breve, stupida, unica giovinezza! A che serve adesso sapere se mi ha amata? A che serve? Se anche mi dicesse: “Sì, ha indovinato, l’ho amata…”». Suo malgrado, con il cuore in gola, inclinò la testa come per ascoltare, pronunciate al suo orecchio, le parole «amare», «amore»…, che non avrebbe sentito mai più…
Una caratteristica che ho potuto apprezzare in questa edizione della Adelphi è la scelta di includere, nell’appendice dedicata al manoscritto incompiuto “I giardini di Tauride”, la trascrizione delle cancellazioni e delle sostituzioni operate da Irene Nemirovsky. Trovarsi di fronte a questi dettagli è un po’ come sbirciare alle spalle della scrittrice mentre è al lavoro, cogliendone i dubbi e le riflessioni.
“Il Carnevale di Nizza e altri racconti” va quindi oltre la semplice antologia di scritti giovanili. Rappresenta un’occasione per osservare la formazione di un talento narrativo di prim’ordine, permettendo di cogliere la genesi di uno sguardo capace di indagare con la medesima intensità la frivolezza di un ballo in maschera e le profondità dell’animo umano.
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