Il desiderio è una ferita della realtà, un taglio netto che divide e determina un’apertura tra due mondi distinti, che possono essere attigui ma sempre separati. Il desiderio permette di compiere un salto su un diverso piano della nostra coscienza, un livello apparentemente alterato finanche inquietante perché non consente un ritorno indietro, un tornare sui propri passi. Non esiste dialogo tra il desiderio e la realtà, solo antinomie, poiché il desiderare cancella ogni abitudine e impone la propria legge. Ogni volta che il desiderio irrompe nelle nostre vite assume la forma della rivelazione, rendendo visibile l’invisibile.
Solitamente quando pensiamo al desiderio intendiamo desiderio di qualcosa o di qualcuno, Jacques Lacan affermava che il desiderio è sempre desiderio dell’altro, perché desideriamo ciò che non ci appartiene e che solamente l’altro può restituirci in quanto ‘proprietario’ della misura del nostro desiderare. Per questo il desiderio non coincide con la liberazione e l’appagamento dell’impulso, con il mettere fine a un bisogno primario, tutt’altro, il desiderio è un motore profondamente intimo che determina l’ordine e le coordinate del nostro sguardo, ricostruendo senso e significato a una realtà che, altrimenti, risulterebbe orribile, banalmente ripetitiva. Esistono altresì desideri meschini e inconsistenti, ma nella radice più profonda il desiderio è il punto di osservazione che scegliamo per comprendere quello che ci accade, è la gabbia prospettica dentro cui poniamo la scena, la forma della rappresentazione che utilizziamo per descrivere la nostra modalità di vedere e interpretare il mondo. Perché in verità quando desideriamo costruiamo un ordine simbolico dentro cui una persona o un oggetto si trasformano e ci trasformano, rendendoci diversi e plasmando di noi stessi una nuova immagine del Sé.
Il film La forma dell’acqua (Guillermo del Toro, 2017) di Guillermo del Toro racconta e descrive la trasformazione della realtà quando insorge la forza del desiderio, come una vera e propria mutazione che cambia ogni cosa e rende impossibile il compromesso con le vecchie consuetudini del passato. Nella vicenda Elisa, addetta alle pulizie in un centro segreto dell’esercito statunitense, viene in contatto con una creatura marina, metà uomo e metà pesce, definito “dio” dagli aborigeni del Sud America, con il quale intesse un dialogo che si trasforma presto in attrazione reciproca. Di fatto sono due reietti, un mostro e una trovatella messicana, muta per giunta; entrambi rappresentano la negazione di quella dignità, oggetto di un dialogo tra il generale e il capo del programma militare sulla creatura marina, di quella onorabilità negata dalla legge anche ai neri, negli Stati Uniti degli anni Cinquanta, cornice storica nella quale è ambientato il film.
La separazione, netta e distinta, tra un’umanità degna di vivere e comandare e un’altra indegna e inadeguata, è contrassegnata anche dall’opposizione tra i diversi piani di realtà inconciliabili che nel film si interscambiano continuamente: il telegiornale che trasmette le scene di violenza contro le manifestazioni degli afroamericani realmente accadute in quegli anni, si alternano ai balletti e alle canzoni degli spettacoli televisivi, oppure quando la famiglia del comandante, che sembra uscita da una réclame, si oppone fortemente all’amore del mostro con la donna delle pulizie; come a significare che non ci può essere mai un vero incontro quando non c’è una sincera volontà di confronto.
Sintesi che si evidenzia in un’immagine di perfetta didascalica bellezza quando la creatura, in fuga dall’appartamento, si ferma dentro ad un cinema vuoto che trasmette un film peplum e, a quel punto, il mostro marino guardando il film sembra quasi chiedersi come mai lui non si trovi dall’altra parte dello schermo, visto che il suo personaggio è stato creato proprio dall’immaginario cinematografico di quegli anni. E ancora non è un caso che l’abitazione della protagonista si trovi proprio sopra un cinema, di quelli a orario continuato che trasmettevano film di tutti i generi, realizzando così una perfetta metafora di un inconscio sotterraneo, di un Es nascosto ma legato indissolubilmente ad un immaginario filmico. Del resto cos’è il cinema se non il motore instancabile della nostra immaginazione, l’arte perversa per eccellenza in quanto non offre al nostro sguardo l’oggetto del desiderio, bensì ci insegna a desiderare, allestendoci la scena e fornendoci le coordinate del nostro vedere, visto che non si può certo immaginare e desiderare qualcosa che non si è visto almeno una volta attraverso i nostri occhi.
Il desiderio è la catena di senso del film: il desiderio dei protagonisti di comunicare, di conoscersi, quindi di stare insieme e amarsi, un’attrazione che nasce nell’immaginario e che si determina nella realtà, fino all’esito finale testimoniato anche dalla perdita della scarpa in acqua della protagonista, simbolo per eccellenza di cambiamento e di liberazione personale. Ed è il desiderio che compie il miracolo di unire ciò che apparentemente è distante e irrealizzabile, infatti nella storia tutto ciò che appare come inverosimile diviene realistico e accettabile, mentre i fatti che emergono dalla vita di tutti i giorni (il triste quadretto famigliare del comandante, la vicenda di spionaggio o il barista razzista di cui si era innamorato il coinquilino di Elisa) sembrano talmente gretti e meschini da essere quasi ininfluenti per la narrazione. La catena del desiderio eleva l’amore dei due protagonisti verso un piano di spiritualità che li rende belli e affascinanti nonostante la loro diversità e i loro limiti, contro il livello basso rivolto verso i beni materiali che il comandante e la sua famiglia collezionano avidamente.
Dunque la vicenda del ‘mostro’ e della donna delle pulizie ha un carattere proiettivo e finisce con il rispecchiarsi nella storia delle discriminazioni e del razzismo della società americana (drammaticamente ancora in essere), visto che entrambi i protagonisti sono veri e propri pària, persone indesiderate e respinte, e per questo immeritevoli di avere un posto nella società. In questa direzione ho ripensato immediatamente alla vicenda dei due innamorati de La forma dell’acqua in occasione della riproposta del progetto artistico di Nan Goldin, The ballad of sexual dependency in mostra al Moma e successivamente alla Triennale di Milano, allestito contemporaneamente all’uscita del film di Guillermo del Toro.
Negli scatti di Nan Goldin appare un’umanità consumata dall’alcool, dalla droga e dal sesso, e anche se la fotografa sembra continuamente cercare un punto di vista impersonale, al contrario emerge un punto di osservazione che partecipa di quelle scene e di quelle persone: non c’è giudizio nelle immagini di Goldin, ma la consapevolezza che il desiderio non consente compromessi né parzialità. Le foto ritraggono corpi che scelgono liberamente la condizione dionisiaca a cui si accede con la danza (non a caso la rassegna fotografica era accompagnata dalla stessa colonna sonora dei festini a cui l’artista partecipava con i suoi amici), ma anche con le droghe e con la sessualità vissuta nel suo aspetto più libero e ampio possibile. Ne emerge un’umanità colta in momenti di intimità e quindi di fragilità assoluta, negli stati alterati della coscienza prodotti dal desiderio che coincide con la dipendenza; sono persone abbandonate e perdute in piccoli appartamenti dei bassifondi di Boston e di New York, che vivono l’estasi tragica che circonda sempre la ricerca dell’oggetto del proprio desiderio.

The ballad of sexual dependency ritrae prevalentemente gli appartenenti alla comunità LGBT, ovvero i ‘mostri’ e i reietti della società americana degli anni a cavallo tra la fine dei Settanta e i primi Ottanta, su cui Nan Goldin indaga e ruba gli attimi delle loro vite, esistenze che oscillano continuamente tra realtà e desiderio, che è indefinibile esattamente come l’acqua che prende la forma del recipiente che la contiene. Il desiderio radicale e rivoluzionario fotografato nei volti e nei corpi degli emarginati di Goldin ha la stessa natura dell’abbraccio che si scambiano la creatura mostruosa e la ragazza muta in fondo all’acqua, perché è nella rivelazione radicale del desiderio che si afferma l’appartenenza comune alla stessa umanità. Ed è proprio nella dichiarazione d’amore del finale che emerge la forza unificatrice del desiderio, quando Elisa riconosce a se stessa e davanti al mondo che “incapace di percepire la forma di te, ti trovo tutto intorno a me. La tua presenza mi riempie gli occhi del tuo amore, umilia il mio cuore, perché tu sei ovunque ”.
Rossano Baronciani
Immagini tratte da Google Images