Il Giappone fotografico: Yuji Hamada

Chi dovesse essersi recato in Giappone negli ultimi anni sarà sicuramente incappato in uno di quei ristoranti in cui è facile conoscere in anticipo la forma del piatto che ci sarà servito; i Sanpuru sono ineccepibili modelli tridimensionali in resina di tazze ricolme di ramen, sushi, spaghetti al pomodoro, pizze, fette di torta, che fanno bella mostra di sé nelle vetrine e neanche un occhio molto attento saprebbe riconoscere il vero dal falso, se non si conoscesse la rapida deperibilità di certi alimenti.

La riproduzione minuziosa di oggetti, anche viventi nel caso del Bonsai, accompagna la tradizione nipponica e in un certo senso la vita di ciascun giapponese, un piccolo mondo privato che si cerca di custodire, quando non onorare, attraverso piccoli oggetti che somigliano in tutto e per tutto all’originale, dai personaggi dei fumetti ai giardini di sabbia e pietra. E il senso che se ne dà non è in alcun modo legato al concetto di falso o di ornamento fine a sé stesso, bensì di forma che riassume le caratteristiche della controparte reale, che concentra in sé le emozioni provate al momento in cui se ne è fatta l’esperienza, ed in questa accezione possono ricadere anche le migliaia di fotografie scattate dai turisti giapponesi, oggetto di scherno bonario da parte di noi occidentali.

Fotografo giapponese il cui motto è “giocosità e scherzi”, Yuji Hamada è nato ad Osaka nel 1979 ed è appassionato di fotografia da quando suo padre gli ha regalato una fotocamera in adolescenza. Si è laureato al Dipartimento di Fotografia della Nihon University College of Art nel 2003. Dopo aver lavorato presso una casa editrice come fotografo e assistente di studio, dal 2006 lavora come fotografo freelance.

È stato insignito del Forward Emerging Photographer Award nel 2011 e nel 2013.
Ha partecipato a Foam Magazine, al British Journal of Photography e alla rivista IMA. Il suo libro Photograph è stato nominato da Aperture / Paris Photo First Photo Book Award nel 2014.

Come nel caso di Takehito Miyatake, l’idea della sua serie di fotografie più famosa  Primal Mountain è arrivata in seguito al Grande Terremoto del Giappone orientale, il più grave che abbia mai colpito il Giappone, trasformato in uno tsunami che alla fine ha causato la fusione dei reattori nucleari di Fukushima. Vivendo a Tokyo, a 375 km dall’epicentro, Hamada era al sicuro, ma non risparmiato da forti scosse e panico in tutta la città. “In seguito, la vita quotidiana ha tremato nelle informazioni inaffidabili che venivano rilasciate”, dice Hamada. “Le informazioni che sono state trasmesse dai media, le informazioni che abbiamo ricevuto, non corrispondono alla realtà che era davanti ai nostri occhi”. Non molto tempo dopo che Hamada è restato disilluso dai media giapponesi, un amico gli ha inviato una cartolina dalle montagne svizzere molto pittoresca, più a lungo la guardava e più irreale diventava. Di fronte quindi a questo secondo caso di collisione tra falso e reale, Hamada decise di creare una serie che catturasse la sensazione di dubbio.

Utilizzando singoli pezzi di foglio di alluminio, ha formato piccole montagne tra i 15 e i 30 cm di altezza. Con la sua Mamiya RZ2 medio formato al seguito, ha portato i suoi modelli sui tetti di Tokyo, perdendone uno o due quando la brezza si è alzata, e li ha fotografati contro il cielo. “Lo scopo delle riprese sotto un cielo reale non era quello di spacciare qualcosa di falso come reale. Piuttosto, volevo fare qualcosa che mostrasse reale e falso come due concetti concordi e non contrapposti”.

Hamada ha incanalato in queste fotografie il concetto di base dei sumi-e, i tradizionali dipinti a inchiostro ed acqua dell’Asia orientale, dove l’obiettivo non è solo quello di creare una somiglianza del soggetto, ma di catturarne lo spirito. È forse per questo motivo che il progetto gli ha richiesto più di due anni di lavoro. “Con questo lavoro, la cosa più importante è l’immagine di una montagna nella mente dello spettatore. La maggior parte delle persone li riconosce come vere montagne. Solo dopo l’impressione iniziale si accorgono che sono false”.

Grafismo, attenzione al dettaglio, contrapposizione semantica e leggerezza dei toni accompagnano tutti i suoi lavori successivi, da C/M/Y/K, in cui le foto risaltano i colori primari della stampa, a Branch, in cui rami secchi che spuntano appena in un letto di neve disegnano esili figure, a Broken Chord, serie di fotografie composite che rappresentano scorci urbani e naturalistici affiancati nel medesimo scatto.

Ancora una volta un tipo di fotografia che porta a non fermarsi alla semplice visione, che stimola la riflessione partendo da un paradosso o da una geometria delle forme non banale, che si fonde con la pittura trascendendo dal mezzo usato. Yuji Hamada ci fa capire che forse non è poi così importante se ciò che guardiamo sia reale o irreale, purché si viva a fondo l’esperienza del concetto racchiuso nel rettangolo di una fotografia.

Silvio Villa