Firenze, la città in cui sei nato, dove vivi e dove lavori. Una città d’arte, uno storico dell’arte. La tua storia della fotografia comincia durante l’università, cosa ha acceso il tuo interesse per questa forma di comunicazione e quali sono stati i tuoi primi passi?
Un interesse per la fotografia esiste fin da bambino ma l’amore è nato da un giorno all’altro, grazie a mio cugino. Un pomeriggio mi portò nella camera oscura che aveva allestito in uno scantinato a sviluppare un rotolino in bianco e nero che avevo scattato qualche giorno prima. Le operazioni di sviluppo, gli acidi, gli attrezzi, il buio, e dopo le ancor più magiche operazioni di stampa con la carta fotografica e le vasche di sviluppo e fissaggio mi conquistarono.
Qualche giorno dopo recuperavamo con i miei due più cari amici, subito coinvolti, un vecchio ingranditore e gli attrezzi indispensabili, acquistammo liquidi, tank e pinzette e partimmo con i primi esperimenti, tutti regolarmente notturni, in una tavernetta di campagna vicino Firenze. Quelle notti in compagnia durante l’Università, con un costante sottofondo di Thelonious Monk o John Coltrane, sono ricordi indelebili. Piano piano imparammo a gestire ogni fase, dai tempi di sviluppo delle amate kodak tmax 3200 e Fuji mp4 e hp5 alle mascherature in fase di stampa. Questa prima “sbornia” culminò con una mostra a tre autofinanziata, in una casa del popolo di Firenze.
Quali sono i libri, le letture in generale, i fotografi, che ti hanno ispirato e che un certo senso ti hanno guidato?
Sono tantissimi e se provo a elencarli rischio di lasciarne fuori molti. I primi anni, quelli legati alla pellicola e alla camera oscura, sono stati segnati, come per molti, da un innamoramento per il reportage, per l’istante decisivo di Cartier Bresson. Poi l’istante, con il tempo, è diventato sempre meno decisivo, lo sguardo si è dilatato dal ritratto ambientato all’ambiente stesso. E’ iniziata una lunga fase di studio attraverso i libri e piano piano ho definito sempre più gusti e interessi. Sono passato dalla pellicola bianco e nero al digitale a colori, dalla street al paesaggio contemporaneo. Per rispondere alla domanda sui fotografi che mi hanno ispirato direi tantissimi, ma su tutti: Eugene Atget, Walker Evans, Joel Sternfeld, Alexander Gronsky e Mark Power. Tra gli italiani Gabriele Basilico e Guido Guidi.
Il nostro magazine ospita una rubrica chiamata: La storia dello scatto. Puoi raccontarci la storia di quella fotografia che ti ha fatto sentire “fotografo”?
Ero in un sobborgo della piana di Prato, un’area in cui torno spesso. Un gruppo di casette, qualche vecchia fabbrica e una chiesa di cemento armato, costruita negli anni settanta. Avevo piazzato treppiede, macchina, inquadrato, decentrato, diaframmato, insomma la solita trafila… aspettavo che la luce calasse un po’ e diminuisse i riflessi sulla vetrata. Una delle lunghe attese che capitano. Passò accanto a me, nel vuoto di quella sera, un signore anziano che rincasava. Dapprima mi guardò in cagnesco, poi curioso. Si fermò e mi chiese cosa stavo fotografando, stupito che ci fosse qualcosa da vedere nei dintorni. Mi raccontò che anche lui aveva un grande treppiede a casa e lo usava per tenerci un telescopio con il quale, nelle sere d’estate, guardava la luna e le stelle. E che la luna e le stelle da quando era ragazzo erano la sua passione, le studiava da lontano. Anche ora sarebbe andato a farlo, in silenzio, da solo, in pace. Come me.

Essere uno storico dell’arte ha inciso o continua a incidere sul tuo modo di fare fotografia?
Immagino di sì, anche se è difficile dirlo. Sicuramente la cultura visiva sviluppata durante l’Università ha contribuito a educare uno sguardo, un modo di vedere. La possibilità anche di godere dal vivo certi capolavori mi ha appassionato ad un periodo molto legato a Firenze, il Quattrocento e ad artisti come Piero della Francesca e Beato Angelico, al loro uso di una luce chiara che misura lo spazio.
“Ventennio. Un viaggio attraverso il paesaggio contemporaneo italiano e l’architettura del periodo fascista, dopo quasi un secolo”. Questo è uno dei due progetti che si possono vedere sul tuo sito. Cosa ti ha spinto a documentare l’architettura fascista e quella attuale?
E’ un progetto nato a mia insaputa, dopo che avevo iniziato a lavorare all’altro “Il ricordo del presente”. Nel senso che, senza nessuna pianificazione, ma semplicemente procedendo a piccoli passi, iniziando a girare il territorio toscano e a studiare le sue stratificazioni mi sono accorto di una cosa. C’era una tipologia di edifici che tornava spesso nelle foto: le costruzioni degli anni venti e trenta, in pieno regime fascista, e ancora presenti più o meno ovunque, dalle metropoli ai piccoli borghi. Presenti ma quasi invisibili al tempo stesso perché confuse con moltissime altre tipologie edilizie successive. Queste architetture, legate a un periodo molto triste della nostra storia, hanno attratto il mio sguardo. Così è nato il progetto, come una costola dell’altro, e che ho però voluto estendere a tutta l’Italia senza avere la pretesa di fare un censimento, un archivio né tanto meno una rivalutazione storica, ma semplicemente con l’idea di documentare quanto ancora queste architetture così simboliche siano presenti in tutto il paese, quanto abbiano contribuito a definirne l’aspetto attuale e quanto siano state inglobate e circondate da quello che è venuto dopo.
L’obiettivo è di guardare a un periodo buio della nostra storia senza tabù, in modo diretto attraverso quello che resta, documentando l’enorme patrimonio edilizio che ancora rimane e che ogni giorno ognuno di noi può incontrare sui propri passi. Gli edifici fotografati non sono volutamente localizzati ma si possono trovare praticamente in tutte le regioni: quelli presenti attualmente sul mio sito si trovano in Lazio, Toscana, Emilia Romagna, Piemonte, Trentino Alto Adige e Veneto.
Quanto delle aspettative politiche e sociali di quell’epoca, affidate alle linee degli edifici, sono ancora presenti a tuo giudizio?
Non saprei, il mio non è tanto un discorso a tinte socio-politiche quanto un tentativo di guardare senza tabù quello che resta di un pezzo di storia molto triste, che per decenni abbiamo voluto, anche giustamente, accantonare. Anche questo in fondo è un lavoro che ha a che fare con la memoria.
Gabriele Basilico o il bravissimo Pino Musi. Ti sei mai sentito nelle corde del loro modo di ritrarre l’architettura e gli spazi urbani?
Sono due “mostri sacri”: personalmente mi sento più affine al primo, al suo sguardo e al suo metodo di lavoro.
“Il ricordo del presente. Studio sul paesaggio toscano contemporaneo”. L’altro tuo progetto che arricchisce il tuo sito. Anche in questo caso, come nasce il progetto e quale percorso stai seguendo?
Nasce circa un paio di anni fa, nel 2018, da una constatazione: la Toscana dell’oggi non mi sembrava sufficientemente documentata. Non avevo idee chiare su cosa impostare il lavoro, quelle sono venute facendolo. Il nostro immaginario, fortemente radicato dentro di noi, ci parla di un territorio quasi puro, perennemente verdeggiante, fatto da dolci colline e filari di cipressi o di città turrite, imbalsamate nel tempo e piene di turisti. Non voglio dire che tutto questo non esista, anzi, ma la Toscana, forse per la stragrande percentuale del suo territorio, è anche molto diversa. L’idea è di far riaffiorare agli occhi e alla mente il paesaggio quotidiano, quello che tutti i giorni attraversiamo ma che tendiamo a rimuovere. In questo tipo di paesaggio siamo immersi per la maggior parte del tempo, un tempo in cui disattiviamo il nostro sguardo. È un territorio di architetture anonime, strade provinciali, capannoni industriali, pali della luce, case basse, argini di torrenti e confini labili tra città e campagna, dove la città non ha più una vera fine e la campagna un vero inizio. Una grande provincia, fatta di centri minori non identificabili ma familiari, a volte di una inquietante tranquillità, che reclamano il nostro sguardo.
Spesso mi piace pensare che forse quasi nessun fotografo ha poggiato il suo treppiede dove decido di fermarmi, è una sensazione piacevole, che sa di scoperta, di indagine, che mi fa sentire una sorta di archeologo del futuro.
Questo progetto è lontano dalla Toscana che tutti siamo abituati a vedere o comunque, attraversando la regione, non veniamo comunque distratti dal alcune architetture discutibili. La bellezza rimane ancora in primo piano. Quanto è necessario documentare questo genere di paesaggio diversamente urbano e che racconta una Toscana diversa?
E’ un progetto a lungo termine, sia documentario che concettuale: da una parte cerco di raccontare, sospendendo ogni giudizio, il paesaggio quotidiano, in modo piano, senza imporre come diceva Ghirri un editing visivo alle immagini. Dall’altra cerco di lavorare sulla memoria, quella sepolta in qualche angolo, per provare a farla riaffiorare, come delle madeleine che diventano ricordi di qualcosa che si crede di aver visto. Si tratta di paesaggi e architetture che qualunque toscano incontra ogni giorno, magari andando a lavoro. Anche per questo non inserisco le didascalie, per aiutare la sensazione di déjà vu e creare una fiction, anche se basata sui fatti.
Nei progetti, così come nella sezione “Destinazioni”, come prepari gli scatti, come scegli il taglio, l’orario, le condizioni meteo?
In generale non amo improvvisare o uscire di casa confidando nell’ispirazione. Credo invece in un lavoro quotidiano, metodico, nella pianificazione. Sarà che non ho molto tempo e cerco di sfruttarlo al meglio. Quando esco so già dove andrò e che tipo di foto mi aspettano, anche se l’imprevisto e’ un amico prezioso. Non amo i contrasti accentuati e la luce drammatica, cerco di fotografare con una luce morbida. Quando c’è questo tipo di luce è poi indifferente che ci sia il sole o meno.
Questa intervista arriva in quella che viene definita dal governo italiano “Fase 2”. È il momento di allentare le restrizioni dovute all’epidemia di Covid-19. Questi due mesi circa di spostamenti limitati, pensi possano contribuire a modificare il tuo approccio alla fotografia, la tua fotografia?
Come per tutti noi questi due mesi hanno portato molte privazioni, la possibilità di uscire per foto è stata per me una delle più dure.
Spero che adesso, nella speranza di un progressivo miglioramento della situazione nazionale, la vita possa tornare a una sua normalità e che ognuno possa riconquistare i propri spazi.
Ho comunque sfruttato questi due mesi per analizzare il lavoro fin qui fatto per “Il ricordo del presente”: non ero soddisfatto della fase di editing. Negli ultimi mesi avevo prodotto molto ma avevo abbandonato un metodo “democratico”. Analizzando le immagini mi sono accorto che c’erano province ancora poco documentate, così ho ripianificato e capito di avere ancora un altro paio d’anni di brevi viaggi davanti… virus permettendo.







Intervista a cura Federico Emmi