Affrontiamo con Monica Pittaluga, medico e fotografa, alcuni temi delicati e poco presenti nella fotografia mainstream, che hanno a che vedere con gli ultimi momenti della vita delle persone, raccontati con consapevolezza, tatto e discrezione. Percorreremo insieme anche altri temi, legati all’arte, al linguaggio, alla potenza della fotografia come esigenza espressiva.

Come è iniziata e come si è sviluppata la tua personale storia della fotografia?
La mia passione per la fotografia è iniziata tardi, nel 2017, precisamente a luglio di quell’anno. In precedenza, ero solo un’ammiratrice delle foto scattate da altri e pensavo che la fotografia fosse molto difficile dal punto di vista tecnico. Tuttavia, con l’avvento degli smartphone, ho iniziato a scattare foto anch’io e la fotografia è diventata una parte importante della mia vita. Ho comprato un libro di tecnica fotografica, l’ho letto in una mattinata e ho deciso di acquistare una reflex per iniziare a fotografare seriamente. Da allora non ho mai smesso, ho frequentato corsi, master e workshop e ho scoperto che il mio approccio preferito è il reportage. Sto ancora cercando la mia voce all’interno di questo ambito, ma la fotografia è diventata il mio modo di esplorare il mondo e di comunicare con esso.
Il tuo lavoro affronta temi poco comuni legati alla tua attività professionale con particolare umanità fuori e senza cadere in banalità. Puoi raccontarci la genesi del progetto “Miei cari”, come ti è venuta l’idea e come hai affrontato questo tema delicato con cui hai deciso di confrontarti?
Il progetto fotografico di cui vi ho mandato un estratto è nato durante gli anni della mia formazione fotografica. Lavoro come medico con i malati terminali e mi occupo di cure palliative. Ho iniziato a documentare il lavoro che svolgevo nell’hospice e ho sentito il desiderio di far vedere al mondo ciò che accadeva in quelle stanze, fuori dal luogo comune del fine vita visto solo come sofferenza. Nel corso degli anni il progetto ha subito delle trasformazioni, poiché ho incontrato vari fotografi e sono maturata nel mio percorso. Ho sentito l’esigenza di raccontare non solo ciò che vivevo all’esterno, ma anche le emozioni che provavo in quelle situazioni, quindi il progetto ha preso una direzione più personale e si è scarnificato rispetto alla parte più documentaria sulle cure palliative.
Nella selezione di fotografie che ci hai inviato, la presenza delle persone non è molto evidente, ma è particolare e accentuata. Prendiamo ad esempio quella della sedia vuota in un parco, come hai scelto i soggetti e come li hai collegati alla tua esperienza emotiva?
Come dicevo, ho iniziato a fare fotografia per la necessità di raccontare momenti della vita degli altri, e poi mi sono ritrovata a esprimere le mie emozioni. Vivo quotidianamente con la morte e con tutto ciò che la precede, e la fotografia è diventata un modo per metabolizzare le mie emozioni. Ho concentrato il mio sguardo sugli oggetti più che sulle persone e sui dettagli piuttosto che sulla sofferenza rappresentata in modo iconografico e didascalico. Ho iniziato a fotografare in momenti in cui ero emotivamente coinvolta. È stato un percorso interiore. Le foto selezionate sono una selezione, poiché ne ho scelte solo 15 tra le circa novanta che costituiscono il corpo del lavoro. Sto cercando di trovare un modo per pubblicarle in un libro. Una delle foto più significative è quella della sedia al tramonto, che rappresenta per me l’immagine dell’assenza: ho visto la sedia vuota e ho “capito” il suo significato solo scattando la foto. Ho fatto molte foto in questo modo, vagando nelle stanze dell’hospice con una piccola macchina fotografica nella tasca della felpa. Tutto è stato però fatto nel contesto di un progetto autorizzato dall’Hospice Fondazione Antea, tanto che alcune foto della prima versione sono state utilizzate a livello promozionale . Quindi, anche se sono stati momenti intimi tra me e la realtà che fotografavo, non ho mai “rubato” alcuna foto.
Il tuo lavoro principale è quello del medico. Spesso si pensa che i medici siano distaccati dalle esperienze emotive dei pazienti, ma il tuo progetto dimostra il contrario, ovvero che c’è un forte senso di umanità nei medici che si dedicano alla cura dei pazienti.
Personalmente credo che chi si occupa di cure palliative appartenga a una categoria un po’ particolare: si deve affrontare il dolore e imparare a gestirlo per evitare il burnout. Per me, la fotografia è stata un mezzo straordinario per elaborare le mie sofferenze personali. Ho fatto un percorso che è durato tanto, e le mie foto iniziali erano più asettiche, mentre ora sono molto più emotive e coinvolgenti. La fotografia che amo mi fa esplorare cose che sono molto vicine al tipo di medicina che pratico. Sono molto attenta all’ascolto e alla narrazione, ma devo anche mantenere una lucidità operativa, che è fondamentale per essere utile ai pazienti. La fotografia mi aiuta a mantenere una distanza emotiva sana e a creare ricordi preziosi per i pazienti e i loro familiari. Tutti hanno capito il mio progetto e la finalità del mio lavoro.














Ci hai raccontato di essere una fotografa da soli 5-6 anni, ma hai già partecipato a diverse mostre e sei stata selezionata per esporre il tuo lavoro. Hai raggiunto un livello di riconoscimento molto rapidamente, considerando che fino al 2017 non avevi esperienza nel campo della fotografia. La tua passione per la fotografia è stata una sorta di esplosione, che ti ha permesso di superare alcuni gradini più rapidamente rispetto ad altri fotografi che partono da zero?
Mi sono sempre chiesta quale fosse stata la causa di questa mia intensa passione, di questa furia che mi spinge a dedicare tanto tempo alla fotografia, sia di fronte al computer che con la macchina fotografica in mano. Mi sono chiesta se questa urgenza di visibilità fosse legata alla realizzazione professionale o economica, ma non ho alcun interesse a vivere di fotografia. Tuttavia, la visibilità e la riconoscibilità sono importanti per me. Vorrei portare alla luce cose che non sono accessibili a tutti e lasciare una traccia visiva di me in questo mondo, raccontando storie che mi stanno a cuore. Ho tanti progetti in mente e ho scoperto una modalità espressiva che mi fa sentire veramente viva.
Credi che sia necessario investire in attrezzatura costosa per avere il massimo delle potenzialità espressive?
Mi sembra di aver capito che ci siano due tipi di fotografi: quelli che sono sempre alla ricerca dell’ultimo modello di macchina fotografica e quelli che invece sono più sobri e utilizzano qualsiasi tipo di macchina, indipendentemente dalla marca. Credo che la fotografia nasca dalla dimensione interiore, prima ancora che dallo sguardo. Si può scattare una foto con qualsiasi cosa e, anzi, meno si è attaccati alla tecnologia e meglio è. Dobbiamo imparare a essere parsimoniosi in questo senso. Personalmente, sono per la sobrietà e non credo che la tecnologia avanzata aggiunga realmente qualcosa alla fotografia. Tuttavia, dipende dal tipo di fotografia che si vuole fare: nel caso ad esempio di fotografia commerciale, moda o subacquea è necessario avere un certo equipaggiamento. Io per fare il lavoro che ho presentato ho usato la mia vecchia reflex e una semplice macchina fotografica Ricoh.. Non mi interessa avere una macchina fotografica sofisticata.
Una domanda provocatoria: in un famoso saggio di Susan Sontag sulla fotografia, l’autrice considera l’atto di fotografare come un atto predatorio: fotografare una persona equivale a violarla, poiché si la trasforma in un oggetto simbolicamente posseduto, che può essere visto in modi che lei stessa non può mai vedere. Guardando le tue foto e pensando al tuo reportage, sei d’accordo con questa affermazione?
Certamente, sì. Ho riflettuto profondamente su tale questione, in particolare con una paziente che è diventata anche un’amica di fatto. Il rapporto con la propria immagine è molto complesso, soprattutto quando viene danneggiato dalla malattia. Mi sono chiesta se fosse invasivo e pericoloso il mio interesse per l’immagine fisica del paziente. Mi sono anche chiesta fino a che punto fosse corretto chiedere se i soggetti volessero vedere le proprie fotografie. Alla fine, ho deciso di chiedere, ma ho ricevuto quasi sempre dei no. Quando mi hanno detto sì, ho avuto delle sorprese bellissime perché i soggetti hanno riconosciuto qualcosa di identitario che va al di là della pura immagine fotografica, cioè la persona in sé. Fotografare in modo esplicito un paziente per me non è mai stato un atto predatorio, c’è sempre stato un gioco di relazione e di colloquio, anche se c’è sempre una parte di foto che è mia e una parte che è sua. Non ho mai incontrato persone con un atteggiamento di rifiuto a essere fotografate, forse perché ero già in relazione positiva con loro come medico. Al di là della questione etica sollevata dalla Sontag, la relazione tra fotografo e fotografato è molto più sfaccettata di quanto possa sembrare.
Quali sono i progetti a cui stai lavorando attualmente?
Ho appena iniziato un bel progetto con un gruppo di ragazzi disabili mentali che fanno musica e partecipano a sedute di musicoterapia. Voglio creare un reportage che si concentri sull’identità, ovvero sul modo in cui questi ragazzi si vedono fisicamente e su come si riconoscono. Poiché spesso, a causa del ritardo mentale, ci si cristallizza in una fase specifica dello sviluppo dell’identità, mi chiedo come questi ragazzi si identifichino e se riescano a riconoscere la propria somiglianza con i membri della famiglia. Sono particolarmente interessata al fatto che alcuni ragazzi disabili tendano a somigliarsi tra di loro, anche se non sono legati da vincoli familiari. Ho deciso di realizzare un reportage fotografico in cui chiederò loro di posare con qualcosa che li rappresenti o con qualcuno con cui si identifichino. Questo progetto mi appassiona molto, così come un altro progetto che sto seguendo e che riguarda una famiglia arcobaleno composta da due donne e un bambino nato tramite inseminazione all’estero. Sto anche lavorando a un mio progetto personale di fotografia di pezzi di città e palazzi mentre vado da una casa all’altra nella mia attività di medico domiciliare in cura palliative. Potrebbero esserci altri progetti che mi appassionano nel breve futuro, ma per ora questi sono quelli che sto seguendo.
Nel tuo ruolo di medico e fotografa hai notato qualche similitudine tra i progetti fotografici sull’epidemia di Covid, soprattutto durante la fase iniziale in cui non avevamo gli strumenti per affrontarla, e i tuoi progetti fotografici? Hai notato dei punti di contatto tra i tuoi progetti fotografici e quelli, ad esempio, di Fabio Bucciarelli o di altri fotoreporter?
Devo dire che ho un’ammirazione sconfinata per lui. In particolare, ho seguito i suoi lavori, anche quelli riguardanti la guerra in Ucraina, e lo seguo su Instagram. La sua sensibilità è straordinaria, e il suo approccio alla fotografia non è quello asettico del fotogiornalismo, ma piuttosto di un occhio documentaristico che interpreta la realtà. Ma dopotutto la fotografia, anche quella che vuole essere pura documentazione, non restituisce mai la realtà con la R maiuscola. Riguardo al suo lavoro sul Covid non ho visto nulla che mi abbia fatto storcere il naso, anzi ne ho ammirato la bellezza e la profonda sensibilità. Ho notato invece una certa ricorsività di temi visivi tra i fotografi ai tempi del Covid, come ad esempio le mascherine abbandonate a terra, eccetera. In generale apprezzo moltissimo i fotografi che riescono a raccontare la sanità senza cadere nell’ovvio…