FOTOGRAFA DELLA “RINASCITA”. La fotografia di cantiere come racconto di un percorso in divenire: intervista a Valeria Potí

Un incontro casuale sorseggiando un digestivo nel quartiere San Lorenzo a Roma, la scoperta di una passione comune per l’architettura e la fotografia, in particolare per quel fascino del “pittoresco” che da sempre le rovine e i luoghi deserti e silenziosi suscitano, rivelando al primo sguardo tracce di un passato che racchiude centinaia di storie…ed è proprio per raccontare alcune di queste storie che nasce questa professione un po’ atipica: la “fotografia di cantiere”!

Ma cos’è esattamente il cantiere? Nell’immaginario collettivo è un “non luogo”, un mondo parallelo, quasi un’entità astratta piena di contraddizioni che spesso porta con sé un’accezione negativa: per chi ci lavora è il sito – temporaneo – della fatica e dello sporcarsi le mani, ma anche umilmente della soddisfazione di veder crescere il frutto del proprio sforzo; per chi come me talvolta lo dirige rappresenta il passaggio da un’idea al suo concretizzarsi attraverso scelte, decisioni, risoluzione di problemi e speranza che tutto funzioni nel migliore dei modi; per i bambini e gli “umarell” è un passatempo giornaliero che alimenta critiche e curiosità; per la politica è il simbolo dell’operosità; per la gente comune è spesso associato a disagio, disordine, polvere, rumore, disturbo, lungaggini. In ognuno di questi casi la “fotografia di cantiere” ha sempre uno scopo, che il più delle volte è tecnico-documentale, di denuncia o di autocelebrazione, ma quasi mai ha intenti artistici.

Demolizione capannone industriale, 2021 ©Valeria Potì
Demolizione capannone industriale, 2021 ©Valeria Potì

Valeria Potì, leccese, classe 1976, giornalista, fotografa e consulente di comunicazione, fondatrice nel 2015 di “Officine della Fotografia” (laboratorio di formazione e diffusione della cultura dell’immagine) e nel 2020 di “Officine magazine”, progetto editorialein itinere, ha voluto ribaltare questo sguardo, cercando, con il proprio lavoro di “fotografa di cantiere”, di raccontare attraverso le immagini “il percorso di un mutamento che ha restituito la luce a spazi rimasti al buio per troppo tempo”.

Una professione originale e poco nota che nasce dalla volontà di testimoniare – con l’obiettivo della macchina fotografica invece che con le parole – un percorso in divenire, il più delle volte fatto di sudore e di “rinascita”, che spesso silenziosamente – nel bene e nel male – cambia il volto delle nostre città, facendo emergere un mondo nascosto agli occhi dei più perché occultato da alti muri o dal pregiudizio generale.  Un lavoro questo che spesso rimane dietro le quinte, senza mettersi in mostra, da farsi in punta di piedi, con grande rispetto per la fatica altrui e la storia del territorio, grazie a uno sguardo esterno e distaccato che cerca di assorbire attraverso l’uso dei 5 sensi – restituendolo con l’immagine – quanto ci circonda.

Palazzo BN, 2021 ©Valeria Potì
Palazzo BN, 2021 ©Valeria Potì

Cos’è per te la fotografia e quale posto occupa nella tua vita (non solo lavorativa)?

La fotografia ha sempre fatto parte della mia vita: è, insieme alla parola scritta, il mezzo di comunicazione/espressione che preferisco, fin da bambina, quando mi ritrovavo ad immortalare cose ed eventi che stavo vivendo: scorrendo un ipotetico album del mio passato mi rendo conto di averlo raccontato proprio attraverso le immagini. Dal punto di vista professionale è diverso: io non sono nata come fotografa ma come giornalista – con la medesima esigenza di “raccontare” con le parole – poi, dopo la laurea in Scienze della comunicazione, sono diventata consulente di comunicazione, in una continua evoluzione professionale che ha reso la fotografia sempre più rilevante per me, prima al servizio della collettività fotografica – con la creazione di Officine della fotografia – e poi in autonomia.

Ti definisci una “fotografa di cantiere”: ma cos’è esattamente questa professione (se si può definire tale)?

Questa branca della fotografia – che non è assimilabile alla “fotografia di architettura” – consiste essenzialmente nel “raccontare per immagini” l’evoluzione del processo costruttivo che, durante un cantiere, porta alla realizzazione di un’opera, sia essa una nuova costruzione o la restituzione di un edificio abbandonato alla comunità. E’ una professione poco diffusa, per lo meno in Italia, ma nel mio caso me la sono cucita addosso come un abito quando ho avvertito l’esigenza di una nuova fase della mia vita lavorativa.

Giovanni Gastel, una figura determinante per la mia crescita, diceva a noi giovani di trovare un settore o una nicchia in cui specializzarci ed eccellere, ed è da qui che, alla ricerca del mio personale linguaggio andando a cercare ciò che più mi piace, ho incontrato il mondo del cantiere, qualcosa di non scontato, controcorrente e inusuale che per me rappresenta la rinascita dalle macerie, la trasformazione dal brutto al bello grazie all’opera dell’umano pensiero: la metafora di come intendo io la vita, in un’evoluzione costante.

Monolite-sottopasso pedonale stazione di Lecce, 2020 ©Valeria Potì
Monolite-sottopasso pedonale stazione di Lecce, 2020 ©Valeria Potì

Chi sono e cosa ti chiedono i committenti?

Quando non scatto per me stessa lavoro generalmente per Società o Imprese di costruzioni abbastanza illuminate, che, avvertendo il potenziale socio-urbanistico di quanto stanno per realizzare, mi chiamano all’inizio di un nuovo cantiere per testimoniarne lo sviluppo, lasciandomi una certa libertà espressiva e sapendo che farò un lavoro profondamente diverso da quello del capocantiere o del direttore dei lavori volto a documentare i dettagli tecnici della costruzione.

Se devo essere sincera, all’inizio – essendo questa una professione poco nota – mi sono dovuta proporre direttamente ai potenziali committenti, ricercando i nomi sui cartelli di cantiere o tenendomi aggiornata sui progetti in corso e sulle dinamiche cittadine, abitudine che non ho ancora perso, forse perché deriva dal mio approccio giornalistico alle cose e dalla mia curiosità, che mi spinge sempre a immaginare cosa avviene dietro un muro abbandonato.

Come ti prepari?

Prima dell’inizio di un nuovo cantiere – se ne ho la possibilità – in collaborazione con i progettisti e le maestranze studio le tavole di progetto cercando di comprendere le fasi dei lavori e la relativa tempistica, non tanto per immaginare quello che sarà (perché mi piace lasciarmi sorprendere), ma per sapere in anticipo come potrò muovermi; come raggiungere luoghi a cui non mi sarà consentito accedere per motivi di sicurezza; quando sarà più opportuno essere presente per farmi trovare al momento giusto, anche in base alla luce – visto che scatto tutto in luce naturale e in tempi molto rapidi – e considerando che talvolta non mi è concesso di stare in loco per più di mezz’ora. Questa è una differenza fondamentale rispetto ad esempio alla fotografia di architettura, che necessita di tempi di realizzazione molto più lunghi e un tipo di preparazione completamente differente.

So per esperienza – e lo dico senza polemica – quanto sia difficile per una donna acquistare la fiducia degli operai in cantiere: com’è il tuo rapporto con le maestranze?

Il cantiere è una piccola comunità, una riproduzione in scala della società moderna ma al 99,9 % composta da uomini, dove – tranne in un caso – sono sempre stata l’unica donna presente. All’inizio è difficile, soprattutto da parte degli operai che ti guardano con diffidenza ma anche con curiosità, come fossi un animale esotico, ma, dopo un primo periodo di lavoro insieme, non si nota più la differenza. Il rispetto però te lo devi guadagnare, anche perché, pur essendo con loro, sei comunque un elemento estraneo: c’è un lungo impegno di costruzione di stima reciproca che alla fine ti dà grande soddisfazione.

Un cantiere può durare mesi, che scandiscono il passare del tempo e delle stagioni: come selezioni i numerosi scatti? Ti è mai capitato di cambiare idea rispetto al progetto iniziale?

Per i cantieri del nuovo in genere mi faccio accompagnare dalle stagioni che passano senza voler far emergere un racconto omogeneo: mi piace che la luce diversa racconti l’evoluzione del tempo e della costruzione. Al contrario nei cantieri di recupero l’idea del racconto emerge quasi sempre strada facendo, con una sorta di selezione naturale del materiale fotografico, oppure al termine del lavoro, raramente all’inizio. Inoltre, se nei cantieri di piccole dimensioni talvolta seguo una sorta di storyboard, in quelli più grandi, dove il numero degli scatti è più significativo, cerco di stare al passo con una preselezione quasi contestuale.

Come si conclude in genere il lavoro di raccolta?

Dipende dalla richiesta: talvolta mi viene chiesto in corso d’opera un report continuo di immagini da utilizzarsi di volta in volta tramite vari strumenti di comunicazione; in altri casi un libro finale; per lavori urbanisticamente e socialmente rilevanti con ricadute positive sulla comunità – come Palazzo BN (un’ex banca a lungo abbandonata nel cuore di Lecce riconvertita a residenze e ristoranti di lusso) – può invece essere realizzata una pubblicazione presentandola alla stampa.

Tra queste pubblicazioni “Monolite” è un’opera autonoma, senza committenti, che discende però da un tuo progetto fotografico collettivo, esperienza a cui non sei nuova.

Sì, in passato mi sono occupata di alcuni progetti fotografici collettivi, dove ho sempre cercato di spingere giovani fotografi a raccontare le proprie sensazioni con le immagini, come in “Con i tuoi occhi”, dove, accoppiando alcuni vedenti ad altrettanti non vedenti, gli stessi potessero essere ipersensibilizzati all’uso dei 5 sensi nello scattare fotografie, o in “Borgo Pace”, dove ho chiesto di descrivere questo borgo con “occhi sconosciuti”.  L’ultimo progetto in ordine di tempo è MH/TP (Make History/Take Pictures), relativo al cantiere del ribaltamento della stazione ferroviaria di Lecce, volto a diffondere la passione per questa branca della fotografia: cinque giovani fotografi selezionati in tutta Italia, dopo una settimana di formazione a 360° (con architetti, paesaggisti, tecnici comunali, sociologi ecc.), hanno concluso con una sessione di scatti in cantiere. Ed è proprio dalla frequentazione di questo luogo, dove per una volta ero solo un’ospite, senza regole né committenti, che nasce Monolite, una mia personale lettera d’amore ai cantieri, dove ho potuto lasciarmi andare ad immortalare quello che per me era poesia all’interno di un enorme spazio deserto e polveroso, disagiato agli occhi dei più.

Le fotografie che scatti, così legate a un racconto, possono essere estrapolate dal contesto?

Per me ogni fotografia è un racconto a sé ed è svincolata dal resto, perché cerca di fermare quello che i miei occhi vedono in quel momento e quello che sto provando in quell’istante. Se sono libera dalla necessità tecnica di fotografare determinati dettagli lascio che sia il luogo a raccontarmi qualcosa, e quel qualcosa finisce sempre in un’immagine, che, pur rappresentando il tassello di un racconto, è comunque a sé stante.        

Le tue fotografie raramente ritraggono persone, ma raccontano la presenza dell’uomo attraverso oggetti o cose; eppure il cantiere è fatto anche (e soprattutto) di uomini, di fatica e duro lavoro: come mai questa scelta?

Potrei dirti che appartiene al mio stile personale, ma credo derivi da quel rapporto di rispetto di cui si parlava prima: chi è in cantiere sta lavorando e, seppur la fatica fisica sia evidente sui volti, sulle mani e sugli abiti, i miei scatti non vogliono raccontare quella fatica ma il frutto di essa. Per me è un segno di rispetto non ritrarre gli operai durante lo sforzo che compiono ma far risaltare ciò che stanno creando, come del resto loro stessi indirettamente mi chiedono non mettendosi in mostra e spostandosi quando fotografo, al contrario esibendo orgogliosi un particolare che hanno realizzato.

In un tuo diverso progetto: “Ultimo miglio” (l’ultimo mese di campagna elettorale di un candidato politico) hai osservato e raccontato passo a passo il lungo e difficile percorso che ha portato a un risultato “immateriale”, ma lo hai fatto attraverso i volti dei protagonisti: come ti sei approcciata a questo mondo apparentemente diverso (uno fatto di cose e l’altro di persone, uno di immobilità e l’altro di dinamismo)?

Questo progetto – caratterizzato dalla medesima esigenza di raccontare la costruzione di qualcosa in costante evoluzione – deriva da una mia proposta, basata sull’intuizione di testimoniare la nuova sfida che un amico (Alessandro Delli Noci, attuale assessore della Regione Puglia ndr) stava per affrontare, calandomi nel periodo più stringente e pressante (“l’ultimo miglio” appunto), ovvero i suoi ultimi trenta giorni di campagna elettorale. Ho cercato di raccontarne le emozioni partendo da chi gli stava intorno per far emergere come, seppur circondato da molti, egli stava imboccando un percorso solitario, con il peso e la responsabilità della fiducia che gli altri riponevano in lui.

Ultimo miglio, 2020 ©Valeria Potì
Ultimo miglio, 2020 ©Valeria Potì

Cosa ti ha lasciato questa esperienza?

E’ stato molto faticoso, sempre a contatto con le persone ma sempre un passo indietro, dovendo costruire un costante rapporto di fiducia non tanto con il candidato, con cui c’era già, ma con chi incontravo, sempre pronta ad abbassare la macchina fotografica quando non era opportuno piuttosto che a ricercare la “foto del secolo”.

In Palazzo BN la tua fotografia è descritta come “racconto di un percorso di rinascita, dalla gestazione fino alla nuova vita”. La parola “rinascita” sembra essere un filo conduttore che lega la fotografia, le tue passioni e i tuoi progetti editoriali: cos’è per te?

Credo che questa parola abbia sempre fatto parte di me: se guardo indietro mi rendo conto che, fino ad un certo punto, è stata un’esigenza di risposta ad alcuni eventi determinanti che la vita mi ha proposto dai quali potevo farmi fagocitare oppure, come ho sempre cercato di fare, rinascere. Oggi è diventata una ricerca costante, sia nel lavoro che nella vita personale, una scelta quotidiana, quasi un sesto senso, per cui non aspetto più che sia la vita a porsi davanti a me per dover scegliere se rinascere o no.

2023©Valeria Potì
2023©Valeria Potì

I tuoi progetti futuri?

Ho appena preso la committenza di due cantieri di enormi dimensioni: Parco Deghi, realizzazione ex novo di un Polo logistico di distribuzione, e Manifatture Deghi, volto alla riqualificazione dell’ex Manifattura Tabacchi di Lecce (lavorazione storicamente importantissima per lo sviluppo del territorio). Quest’ultima è un’immensa costruzione abbandonata da anni: la prima fase sarà quella di documentare e raccogliere con una serie di scatti l’istante in cui si è fermato il tempo all’interno di quella che sembra essere una piccola città, dove anche la polvere è pregna di significato.

Augurandoti il meglio per questa nuova avventura, speriamo che le tue parole e le tue fotografie possano alimentare la curiosità e l’interesse affinché qualcuno segua il tuo esempio!

Patrizia Dellavedova