La fotografia e il mistero (II): Antonio Biasiucci

Si diceva di un mondo celato alla vista, nello scorso articolo di Percorsi: un mondo che doveva rivelarsi al buio, toccandolo, per trasformarsi in immagine. L’estraneità può incarnarsi in molti modi, avere molte vesti: è tutto ciò che sappiamo esistere senza comprenderlo, qualcosa che agisce in noi ma che non possiede una sostanza unica nel mondo che viviamo. La ricerca di molti fotografi è stata, ed è tuttora, rivolta verso l’utopia di dare sostanza a quanto scorgono soltanto da lontano, in visioni confuse.

Antonio Biasiucci (Dragoni, 1961) ci porta a considerare il mistero dell’uomo sotto la guida dei capitoli che compongono la mitologia millenaria a cui appartiene. Questa è la Chimera a cui l’occhio del fotografo ha cercato e cerca di accostarsi: l’alfabeto su cui si compone l’esistenza dell’uomo, le forme a cui può essere ridotta e ricondotta. 

Biasiucci viene ora omaggiato in una grande mostra antologica alle Gallerie d’Italia, a Torino, dal titolo Arca, in cui si possono vedere i principali lavori dell’autore campano e il percorso ideale che negli anni ha costruito per formulare l’algoritmo esistenziale dell’uomo: il pane, il latte, la vacca, il parto sono alcuni elementi dell’immenso ritratto che Biasiucci sta cercando di comporre, quello in cui ogni uomo della Terra può idealmente riconoscersi. Noi ci celiamo alle spalle dei nostri archetipi, e lì andiamo cercati. Così Biasiucci, eremita dentro la schiera confusa delle generazioni, cerca la strada verso la verità dei primi tempi, quelli in cui la vita umana ha iniziato a configurarsi trovando gli elementi su cui potersi costruire. 

Scopriamo in questo modo i punti del disegno che Biasiucci intende tracciare. Scopriamo, di nuovo per la prima volta, che l’uomo ha bisogno di uccidere per nutrirsi (Vapori, 1983-87), che il dolore si fonde con la nascita (Matany, 2016), che ogni forma è se stessa e qualcos’altro contemporaneamente. Così l’uomo non può essere mai soltanto se stesso, ma vive diviso nelle fasi che lo lacerano per portarlo a rinnovarsi e continuare il suo percorso. Antonio Biasiucci è un personaggio di Herman Hesse, potremmo dire: come Boccadoro (Narciso e Boccadoro, 1930) scopre, vedendolo coi propri occhi, il mistero che fa coincidere gli estremi tra cui l’uomo cammina; come Boccadoro scopre il viso della donna che partorisce essere così simile a quello dell’amante nel momento del piacere, o il canto in una giornata di sole poter esistere accanto alla morte dovuta alla peste, Biasiucci fa esperienza coi propri occhi del senso essenziale del muoversi umano dentro l’esistenza.

Uno degli aspetti più interessanti dell’opera di Biasiucci è proprio quello di intendere l’uomo spostando l’attenzione dal mistero del  al mistero della vita (e della morte): non è un percorso autobiografico quello di Antonio Biasiucci, bensì è un lavoro che intende essere onnicomprensivo, la riduzione ai minimi termini di cosa significa essere uomo e vivere, in un senso universale. Essere uomo allora significa nascere, mangiare, guarire, migrare, e anche naturalmente morire. Il Qohelet in questo ha ragione, e può fare da sottofondo a tutta l’opera del fotografo campano: “C’è un tempo per vivere e un tempo per morire, / […] un tempo per uccidere e un tempo per guarire”.  E di questa scansione il lavoro di Biasiucci si fa portavoce. Ogni nucleo tematico è estratto dalla contingenza in cui è accaduto: il caso particolare (il momento del parto specifico che ha fotografato, le vacche, i singoli pani, ogni soggetto) viene portato sull’altare della sapienza generale, pronto a farsi carico di un messaggio e trasformarsi in simbolo. La realtà contingente, considerata spesso come unico recinto definito in cui la fotografia può attuare la propria giurisdizione, diviene sempre “altro” nel lavoro di Biasiucci, e vive una tensione doppia che porta le cose a sfociare in un significato universale e, allo stesso tempo, a trasformarsi in ciò che gli è formalmente affine, in una concatenazione di rimandi e similitudini. Biasiucci stesso, d’altronde, si definisce ossessionato dalle forme, condizione da cui non riesce a liberarsi “neanche quando va a fare la spesa”: è l’esempio vivente dell’homo videns, dell’uomo che vede, che vede in continuazione. Questo anche è fotografia. 

Così i tronchi tagliati di Ghenos (2020) e ripresi in prospettiva zenitale, dall’alto, sono lettere di un alfabeto che finora nessuno aveva ancora codificato, i Pani (2009-11) consumati dallo stesso Biasiucci possono diventare crani o fossili, i tomi dell’Archivio Storico del Banco di Napoli del progetto Codex (2015) edifici fluttuanti.

La realtà è dunque il terreno in cui scovare gli anelli della catena che lega l’uomo contemporaneo al primo esistito; è la dimensione in cui possono essere rintracciati quei segni che, uguali da sempre, si ripetono per raccontare il nostro essere uomini nonostante lo svolgersi delle epoche. 

Sembrerà un accostamento banale, ma non è privo di verità dire che in fotografia l’uso del nero vada di pari passo con la volontà di sondare i terreni meno saldi della coscienza e del sapere. Il nero ha una storia, d’altronde, non solo nell’evoluzione della concezione cromatica in generale, ma anche più nello specifico della fotografia. Da essere inteso come errore da evitare, bruttura sulla stampa, segno di un’incapacità di esporre correttamente prima dello scatto, il nero presto ha assunto, di volta in volta, un ruolo specifico. Il nero pieno, infatti, accordandoci all’esperienza analogica, si avvera quando non esiste alcuna informazione sul negativo, quando, si dice anche, “non c’è materia”. Il nero fotografico è così l’esperienza più vicina al nulla che si può fare attraverso la visione, è qualcosa che oltrepassa il concetto stesso di ombra. L’ombra si verifica infatti quando esiste un corpo, è ancora qualcosa che appartiene al mondo della materia. Oltre l’ombra, in fotografia, si verifica il nulla, il vuoto, un’oscurità che cancella ogni traccia della realtà sensibile. Per questo, forse, anche Biasiucci si fa carico del potere eliminatore del nero per isolare i simboli che è riuscito a raccogliere lungo il cammino, rendendo atto che non serve altro per ritrarli, nessun contesto particolare o contatto col mondo da cui provengono. I simboli, ci dice Biasiucci, devono parlare da soli. 

Così il mistero dell’uomo assume un senso attraverso la selezione di questi simboli, e il sacrificio della storia che si portano dietro: un oggetto, quando elevato al rango di simbolo, è necessario che perda la propria storia per esistere in sé stesso. Il nero è il luogo sconosciuto di questo sacrificio. Se per Evgen Bavčar il nero è l’oceano scuro a cui la sua visione è stata confinata e da cui deve riuscire a far emergere le forme che tocca, in Biasiucci il nero è dove il superfluo deve ritornare ed essere confinato, è il silenzio che si deve creare attorno a ciò che in quel momento ha il compito di trasmettere un messaggio. 

Il mistero dell’uomo va rintracciato nella continuità, in ciò che si reitera e resiste agli stravolgimenti della Storia: Biasiucci ci dice che esiste un DNA umano che va al di là della genetica, annidato non tanto nelle sovrastrutture complesse della psiche, ma nei luoghi, nei cibi, nei rituali. Negli elementi naturali, come il magma dei vulcani a cui Biasiucci si è più volte avvicinato, nella loro indomita persistenza. Si provi a cogliere, guardando le immagini di Antonio Biasiucci (nella mostra a Torino, sul suo sito web, sui vari libri e cataloghi pubblicati sul suo lavoro), lo spasimo di chi tenta di giungere a un traguardo lontanissimo, all’ossatura dell’esistenza, ai suoi elementi primordiali: si scorgerà il profilo di una figura a cui tutti apparteniamo.

Informazioni mostra “Arca”:

Gallerie d’Italia di Torino
Dal 27 giugno 2024 al 6 gennaio 2025
Curatela di Roberto Koch (all’interno del programma del progetto “La Grande Fotografia Italiana”)