GARDELLA, MENGHI, VIETTI: ARCHITETTURE PER IL MEDITERRANEO. Dall’archivio SCAC la fotografia quale punto di partenza e arrivo nel processo ideativo dell’architettura

Il Mediterraneo è ibrido, un con-fondersi con tante cose” (E. Prandi).

 “Il Mediterraneo è un mare che sta tra più terre, con diversa geografia, cultura e politica, in grado, però, di unirle tutte” (I. Celiento).

L’architettura è nel sangue per tradizione. La casa nasce nel Mediterraneo” (Bardi).

All’interno del processo generativo di un’architettura la fotografia, come gli schizzi preliminari, può rappresentarne l’idea, o diventare essa stessa parte del progetto (attraverso fotomontaggi, foto di studio o di modellini in scala), ma raramente riesce da sola a raccontarne la genesi e l’evoluzione, costituendone per lo più il punto d’arrivo, quale testimonianza della configurazione definitiva che l’edificio ha assunto nel tempo.

Se però pensiamo che il “il valore dell’opera non sta solo in quanto oggetto finito ma anche nelle ragioni, nelle modalità e negli agenti del proprio essersi prodotta” (C. Quintelli), per una corretta interpretazione critica di un’architettura è necessario che la fotografia sia accompagnata da una paziente ricerca d’archivio, che, grazie al contatto diretto con i materiali originari della storia progettuale dell’edificio (disegni, schizzi, relazioni, didascalie, appunti, corrispondenza con la committenza ecc.), permetta di ricostruirne il processo ideativo e i principi compositivi, a partire dall’idea progettuale – attraverso successive modifiche – fino al risultato finale.

Questa utile documentazione si può reperire negli archivi – se esistenti – degli stessi autori delle opere indagate: è questo il caso dello CSAC (Centro Studi e Archivio della Comunicazione) di Parma, inedita istituzione culturale nella quale archivi di vario genere artistico – tra cui quelli di alcuni architetti – si integrano a laboratori di ricerca e formazione oltre che a un museo “a lenta rotazione espositiva”, rendendolo “fonte sempre viva di conoscenza, spazio di disseminazione del sapere e non certo luogo dove i materiali vengono solamente conservati” (C. Casero).

Qui si trovano, tra gli altri, i fondi di tre importanti designer e architetti del Novecento italiano che hanno saputo imporsi sulla scena nazionale proponendo spunti, temi e valori validi ancora oggi per il progetto contemporaneo, anche se non sempre del tutto compresi e valorizzati dalla critica: Ignazio Gardella, Roberto Menghi e Luigi Vietti, il cui lavoro è stato oggetto di un’indagine critica archivistica, coordinata da Carlo Quintelli, ad opera di giovani ricercatori selezionati con un bando YITP (Young Investigator Training Program) dell’ACRI, confluito nel convegno internazionale Lezioni italiane per l’architettura del Mediterraneo tenutosi nel 2022 nell’abbazia di Valserena.

Da qui è scaturito il volume “Architetture del Mediterraneo”, curato da Enrico Prandi ed edito da ELECTA, dove il tema della “mediterraneità” costituisce il fil rouge che ha attraversato l’opera delle tre figure indagate, che, “non solo hanno progettato in luoghi vicini o sul Mediterraneo, ma ne hanno richiamato lo spirito anche quando i contesti non erano propriamente attigui” (E. Prandi).

Copertina del volume “Architetture del Mediterraneo”

In esso l’attività dei tre architetti è stata letta e interpretata attraverso una comune sensibilità mediterranea alla progettualità architettonica, caratterizzata da un lato dall’interesse per il tema della casa, attraverso un’ideologia domestica dove la modernità non è “obbedienza ad una formula, [ma un] ritorno a purezza, semplicità, qualità, scelta. Non un cambiamento di forma, ma una ‘riforma’” (Gio Ponti), dall’altro da una grande attenzione al contesto ambientale e storico, attraverso una “metodologia progettuale ancora oggi attuale e un equilibrato rapporto tra architettura e contesto, architettura e sostenibilità, tradizione e innovazione” (E. Prandi), come nel Mediterraneo, dove la “luce del sole si rifrange negli angoli e nelle fessure delle facciate, dove la casa non si erge come un corpo estraneo nel paesaggio, [ma ne] riprende i colori” (Meyernhöfer).

Attraverso una serie di saggi che trattano diversi casi studio legati da un medesimo tema, la parte testuale – caratterizzata da un’impaginazione asciutta e a tratti volutamente disomogenea – è accompagnata da un ricco apparato grafico e iconografico, dove la fotografia – capace, come l’architettura, di “incorniciare il paesaggio” (R. Menghi) – rappresenta non solo lo stadio finale del progetto, mostrandone – attraverso viste ben selezionate – i principi che lo hanno ispirato, ma talvolta diventa anche uno strumento di studio volto ad indagare gli effetti della luce, il rapporto tra interno ed esterno o i caratteri tipologici dell’esistente a fini progettuali.

IGNAZIO GARDELLA (Milano, 1905 – Oleggio, 1999)

La prima delle tre figure indagate è l’ingegnere e architetto Ignazio Gardella, che fu parte di quell’élite progressista che nel Dopoguerra contribuì al processo di sprovincializzazione e internazionalizzazione della cultura architettonica nazionale, seppur relegata in nicchie di alta qualità distanti dalla produzione di massa e dalla speculazione edilizia di quegli anni.

Ignazio Gardella © CSAC

La sua lunga attività professionale, caratterizzata da opere tra le più pubblicate e studiate dalla critica italiana, tra cui il Dispensario Antitubercolare di Alessandria (1934-38), Casa alle Zattere a Venezia (1953-58), Casa al Parco (1946-53) e il PAC (1947-54) a Milano, nel testo viene sottoposta a una rilettura critica attraverso materiali inediti dell’archivio CSAC, con un focus su due architetture del lavoro: la mensa Olivetti a Ivrea e il palazzo uffici Alfa Romeo ad Arese, realizzati a quasi 10 anni di distanza l’uno dall’altro.

Essi rappresentano “diversi modi di concepire il lavoro e i suoi spazi, ma anche le condizioni economiche, politiche e sociali di periodi storici diversi, nonché di idee imprenditoriali e organizzative distinte” (E. Carnelli), oltre che due diversi atteggiamenti rispetto alla composizione e al rapporto tra edifici e paesaggio: da un lato “rompere, o almeno corrompere, l’unità dell’edificio, [dall’altro] ricomporre l’edificio in una geometria unitaria e compiuta” (A. Lorenzi).

Gardella infatti, attraverso un metodo progettuale basato sull’attenzione al contesto e sullo studio della tipologia e delle esigenze della committenza, trasforma necessità tecnico-funzionali in soluzioni architettoniche attraverso matrici geometriche che, partendo dall’analisi dei flussi, giungono a forme complesse, con risultati profondamente diversi da caso a caso.

Per la mensa Olivetti, commissionata nel 1953 dall’imprenditore illuminato Adriano Olivetti, profondamente “convinto del valore sociale ed educativo dell’architettura” con cui voleva rendere Ivrea un centro di innovazione industriale e culturale, Gardella parte infatti dalla pianta centrale e, attraverso numerosi schizzi di studio e varianti, sperimenta e affina svariate forme, approdando, come in alcuni edifici di Wright, a quella esagonale. L’esagono viene qui utilizzato anche nei pilastri, nelle bussole e nella disposizione dei corpi illuminanti, creando uno spazio continuo ma articolato su più livelli nel quale il paesaggio viene portato internamente attraverso ampie superfici vetrate, creando “una continua varietà di visuali che rompe la monotonia inevitabile in un ambiente così vasto” (I. Gardella). Qui però, come in altri progetti come in Villa Baletti a Lesa (1952-53) o nelle terme Regina Isabella di Lacco Ameno (1950-54), “la geometria ideale della pianta si corrompe facendola interagire con il luogo” (A. Lorenzi), rompendo l’unità del volume edilizio aprendolo verso sud tra gli alberi e creando aree filtro di verde che separano la mensa dalla fabbrica.

Mensa e dopomensa Olivetti, Ivrea, 1953-59, s.d. © Archivio storico Gardella – CSAC

Nel palazzo uffici Alfa Romeo (per il quale egli vince un concorso nel 1968) la definizione dei flussi (qui decisi dall’azienda, in un’epoca di produttivismo capitalistico, e non concordati con i lavoratori come ad Ivrea) trasforma invece la logica seriale in una forma geometrica compiuta e simmetrica, con un edificio compatto e funzionale che termina alle estremità con due corpi quadrangolari ruotati di 45 gradi. Internamente lo spazio è continuo e flessibile, su più livelli, libero e visibile unitariamente: una sorta di piazza coperta in continuità con il paesaggio circostante, grazie a una struttura portante arretrata e a corpi servizi perimetrali, con un attico vetrato – destinato ai disegnatori – che apre lo sguardo verso l’esterno in tutte le direzioni.

Palazzo per uffici alfa Romeo, Arese, 1968-74, s.d. © Archivio storico Gardella – CSAC

Qui, come per il teatro civico di Vicenza (1968-80), il riferimento è alla storia, al palazzo della tradizione classica italiana, a cui l’architetto si rifà per conferire identità e riconoscibilità all’edificio, che, in un “paesaggio dilatato, continuo, silenzioso, i cui punti emergenti di riferimento si dispongono a distanza” (A. Lorenzi) impone la propria geometria sullo spazio, come un castello-palazzo che richiama la dinastia visconteo-sforzesca e la simbolica milanese del biscione dello stemma dell’Alfa Romeo.

ROBERTO MENGHI (Milano, 1920-2006)

Figura esemplare del moderno trascurato” (D. Sherer), Roberto Menghi è stato un’importante designer e architetto italiano del Novecento, oggi in fase di riscoperta e rivalutazione, attivo professionalmente nell’immediato Dopoguerra, seppur difficilmente “collocabile” nel clima culturale lombardo di quegli anni in virtù di una poetica profondamente individuale.

Fu una figura poliedrica e complessa, anche per “l’ingannevole semplicità della sua architettura e dei suoi prodotti di design” (D. Sherer), capace di dialogare con differenti scale e registri formali, spaziando dal disegno dell’oggetto d’uso, che progettò per Pirelli-Kartell, Siemens e Fontana Arte, a strutture di tipo espositivo, ville, uffici, alberghi e chiese, sempre con grande semplicità ed essenzialità, senza mai esibire.

Menghi non pubblicò molte riflessioni teoriche sull’architettura, esprimendo “il proprio pensiero attraverso il disegno, l’interpretazione e la costruzione” (F. Kramer): per lui il progetto – a partire dalle risorse a disposizione – era una continua occasione di ricerca e innovazione, con una costante attenzione al rapporto tra abitazione e uomo, alla tecnica, al dettaglio e al controllo della forma, con un senso razionale dello spazio in cui nulla viene sprecato e dove “ogni angolo ha il suo ruolo, la sua luce e il suo momento del giorno” (C. Roiz De La Parra Solano), sia nel caso di un appartamento come quello ai “Giardini d’Ercole” a Milano (1949-55), sia di oggetti domestici come la brocca “sangria” o i bicchieri “Puccini” della Bormioli (1978-79), dove la cura estetica si unisce alla praticità e alla possibilità di utilizzo in diversi momenti della giornata.

Roberto Menghi, Brocca Sangria, Bormioli Rocco

Questa sensibilità per la dimensione dell’abitare lo avvicina sempre più alle tipologie domestiche tradizionali e all’architettura vernacolare, portandolo da un lato a sperimentare in città elementi tipici delle forme di vita mediterranea, reinterpretandoli come proposta per l’abitare moderno, dall’altro a riscoprire il ruolo del paesaggio e della “tradizione tipologica mediterranea […] attraverso una nuova lettura del rapporto che composizioni di volumi puri instaurano con lo spazio aperto” (C. Gandolfi, M. Landsberg), con architetture atemporali che rispondono alle caratteristiche spaziali dei luoghi, come Casa Sella sull’isola d’Elba (1971-75).

Situata su una collina e affacciata sul mare e su S. Ilario in Campo, quest’ultima si inserisce nel paesaggio adattandosi al terreno attraverso dislivelli che definiscono una transizione tra le singole stanze – poste entro volumi diversi a più livelli e costruite in relazione all’uso durante la giornata o nelle diverse stagioni – e la corte centrale, cuore della casa mediterranea, che in maniera scenografica collega gli spazi interni ed esterni.

Casa Sella a Sant’Ilario, 1971-75. Vista sulla corte, fotografia di Luigi Ciminaghi, s.d.
Fondo Menghi © Fondo Menghi – CSAC

Qui, come in Casa Franchetti a Capo Ceraso (1970) o Casa De Luca a Montemarcello (1967), Menghi approfondisce il tema della casa a patio, ove “la pianta è generatrice” della composizione architettonica di cellule singole modulari e quadrate, disposte variamente intorno a una corte centrale secondo la lezione di Le Corbusier.

In Casa Sella come in altri progetti egli pone attenzione alla luce naturale, di cui studia le fonti in base al tempo e alle stagioni, al fine di creare atmosfere differenziate tra spazio domestico ed esterno attraverso la disposizione degli ambienti, l’uso di muri spessi e di luce zenitale, che “sospende gli spazi tra astrazione e colloqui con le parti del paesaggio magistralmente inquadrato” (C. Gandolfi, M. Landsberg), grazie a lucernari piramidali – di origine italica antica – disegnati in relazione all’incidenza della luce e della ventilazione. Anche le aperture definiscono la scenografia della casa, influenzando le attività di chi ci abita: “lo scenario dello spazio aperto intorno alla corte si estende verso il paesaggio attraverso le aperture: ci sono nicchie che aprendosi sul paesaggio risultano quasi dei dipinti” (F. Kramer), con una “comprensione quasi teatrale della visione, che tuttavia appare del tutto naturale come spesso lo è l’edilizia vernacolare e non consapevole” (D. Sherer).

In molti suoi progetti, infatti, le aperture hanno telai quasi inesistenti che tendono a mostrare lo spessore del muro, quale transizione tra interno ed esterno, “incorniciando” un paesaggio, sia esso al mare o in città, come nella sua abitazione in piazza S. Ambrogio a Milano (1949), dove in soli 80 mq ben 10 finestre permettono di rivolgere lo sguardo verso l’esterno: anche qui la luce, che inonda ogni angolo dello spazio e crea invece un’intimità nella zona studio, viene trattata come una forma architettonica capace di stimolare sensazioni, analizzata attraverso schizzi di studio, accompagnati da scatti fotografici a diverse ore del giorno che mostrano “una finestra che cambia, una finestra mutevole che esprime la vita degli abitanti” (C. Roiz De La Parra Solano).

Casa Menghi in Piazza Sant’Ambrogio, Milano, 1949. Viste delle aperture dall’interno, s.d.
© Fondo Menghi – CSAC

LUIGI VIETTI (1903-1998)

Formatosi tra Milano e Roma e attivo dagli anni Venti del Novecento, tra razionalismo e architettura di regime (partecipò infatti ai concorsi per il Palazzo del Littorio, la Mostra della Rivoluzione fascista, l’Auditorium e il Piano Urbanistico per l’Esposizione Universale di Roma), Luigi Vietti ebbe una variegata, eclettica e prolifica produzione professionale, durata fino agli anni ’90 e caratterizzata da abilità progettuali, versatilità, capacità di adattarsi a contesti e committenze diverse, che lo portarono ad affrontare una varietà di temi, scale e contesti geografici, oltre a differenti linguaggi architettonici, rappresentando la cultura borghese italiana di quegli anni.

Luigi Vietti © CSAC

Come Menghi egli ebbe fin da subito uno spiccato interesse per il “bagaglio di architettura spontanea del nostro paese” (L. Vietti), per lui basata, come il razionalismo, sugli elementi essenziali: “definirei razionalista un’architettura che corrisponda al problema che pone, con elementi costruttivi reali, necessari e adeguati al tema, inserita nel contesto, commisurata alle esigenze e alle richieste del committente. E questa è sempre stata la base di tutte le mie realizzazioni” (L. Vietti).

Negli anni Trenta partecipò infatti al dibattito sull’architettura “razionale” che animò le pagine delle riviste dell’epoca, perseguendo la tesi – insieme ad architetti come G. Michelucci – che l’architettura tradizionale del Mediterraneo (popolare e rurale), con i suoi tetti piani a terrazza e le sue forme pulite e squadrate, nella quale “si notano tutti gli elementi che hanno dettato i primi esempi dell’architettura razionale” (L. Vietti), fosse generatrice di quella moderna.

Giovanni Michelucci, Fonti della moderna architettura italiana, in Domus, n.56, agosto 1932, pp.460-461

Attraverso alcuni viaggi di formazione verso il nord Europa e verso il sud Italia egli raccolse una serie di immagini, confluite in articoli su “Il messaggero” e “Il secolo d’Italia”, nei quali mise a confronto alcune costruzioni siciliane con quelle di Dessau di Gropius, sostenendo che “Nord e sud Europa non rappresentano due mondi opposti e incomunicabili tra di loro, ma due facce della stessa medaglia: l’architettura moderna razionale, ossia il futuro dell’architettura da un lato, e l’architettura spontanea mediterranea, ossia il passato, la tradizione che anticipa il moderno e a cui l’architettura razionale si deve rifare, dall’altro” (L. Vietti). Esemplare era per lui la Weissenhof Siedlung di Stoccarda, che rappresentava “il sole, la luce, il calore, il clima morale, oltreché materiale del Mediterraneo” (L. Vietti), tanto da essere stata criticata dal regime nazista e soprannominata Araberdorf o villaggio arabo, accompagnata da caricature e satire.

Weissenhofsiedlung, Araberdorf, cartolina pubblicata in Il secolo XIX, 29-03-1933, p.3

Partendo dalla consapevolezza che “non esistono formule o codici assoluti, nella costruzione o nella forma, che possono essere applicati al di fuori del contesto sociale, culturale e ambientale di ogni luogo” (M. Lopez-Sanchez), e che “non esiste un linguaggio mediterraneo, perché intorno al mediterraneo esistono molti luoghi, molte tradizioni, molti colori” (Vietti), Vietti ebbe sempre una grande attenzione per i luoghi, anche grazie all’incarico di Direttore della Sovrintendenza alle Belle Arti e Ispettore onorario per la Liguria che svolse tra gli anni ’20 e ’30, che gli permise di conoscere i caratteri storici e tipologici del paesaggio ligure attraverso la raccolta di fotografie e immagini.

Questo interesse per lo studio dell’architettura spontanea dei luoghi, necessario per “capire la natura stessa, capire il carattere della gente che quei luoghi abita, capire la cultura e le ragioni del vivere”, in modo da “non fare ‘violenza’ quando si intraprende il compito non facile di aggiungere nuove costruzioni” (L. Vietti), lo accompagnò sempre nei suoi viaggi, attraverso cui accumulò cartoline e reportage fotografici da un lato di Liguria, Piemonte, Sardegna e sud Italia, alla ricerca dei caratteri dell’architettura minore e spontanea, dall’altro del nord Europa alla ricerca dell’architettura moderna.

Stoccolma, gruppi di case popolari. Fotografia scattata da Vietti durante il viaggio al Nord con didascalia autografa per la pubblicazione sui quotidiani “Il Secolo XIX” e “Il Messaggero” – Fondo Vietti © CSAC

La fotografia fu per lui anche un importante “strumento di lavoro e di divulgazione” (A. Iamperi), per raccontare le sue opere attraverso immagini, fotomontaggi, plastici o modelli, spesso fotografati in set appositamente allestiti “con i quali ingegnosamente e suggestivamente Vietti presenta le sue cose. Questo uso, diffusissimo all’estero, […] è di giovevole controllo per l’architetto e di piacevole immediata comprensione per il cliente” (Gio Ponti).

Vietti progettò sempre in armonia con il contesto, qualunque esso fosse, attraverso criteri volumetrici e compositivi ricavati dalla città storica: in contesti come Venezia, ad esempio, partendo dallo studio delle regole formali costitutive della città, cercò di stabilire una relazione con l’ambiente urbano attraverso riferimenti, suggestioni e analogie al suo tessuto storico e alla tradizione architettonica lagunare, come nell’ampliamento dell’Hotel Baüer Grunwald (1945-47), in rapporto alla chiesa di San Moisè e la relativa piazza, dove ripropose i “tradizionali rapporti compositivi del paesaggio urbano storico veneziano” (A. Dìez Oronoz), o negli uffici SIDARMA alle Zattere (1957), tangente al centro storico, con allusioni più sottili all’architettura veneziana e una “riscrittura in linguaggio moderno dell’architettura lagunare” (A. Dìez Oronoz). Nella fabbrica di tessuti Fortuny (1953-56) affrontò invece il rapporto del fabbricato rispetto al fronte urbano, creando un prospetto unitario verso la laguna integrato nel paesaggio industriale della Giudecca, su cui pose la scritta “Fortuny”, visibile dalle fondamenta della città. In contesti più recenti come Rio Novo, negli uffici SADE (1957-61), o a piazzale Roma nel progetto non realizzato per la Società Parisi, infine, utilizzò un linguaggio marcatamente moderno seppur plasmato da riferimenti all’architettura locale, stabilendo un dialogo compositivo con la città.

Questa attenzione ai caratteri del paesaggio e l’adattabilità dei suoi progetti al contesto (marittimo, lacustre ed alpino) lo accompagnarono per tutta la sua carriera, portandolo – a partire dal Dopoguerra – al graduale superamento delle rigide forme razionaliste per un linguaggio più organico, attraverso una “attenta rivisitazione dei caratteri razionalisti e una saggia introduzione di elementi provenienti dall’architettura spontanea” (C. Dallatomasina).

Questo è evidente soprattutto nei suoi progetti di architettura ricettiva, dove ai primi alberghi moderni e compatti, seppur adattati alla sinuosità del terreno, come l’Albergo Est-Ovest a Sestri Levante (1934-35), si sostituiscono complessi turistici che precorrono la tipologia dell’ “albergo diffuso’“, come a Cala del Faro ad Arzachena (1980-86), in Sardegna. Qui l’organismo edilizio, ispirandosi all’aggregazione urbana dei borghi costieri, viene scomposto in più unità diffuse nel paesaggio cercando una mimesi con esso, fondendosi e dialogando con il luogo attraverso affacci e vedute e con materiali naturali ed elementi del paesaggio che entrano nel processo di definizione progettuale, tanto da sembrare “sorgere spontaneamente dal luogo, inserendosi nel paesaggio in continuità con l’esistente” (A. Iamperi).

Complesso turistico ad Arzachena, Cala del faro, 1980-86. Fotografia del modello, s.d. – Fondo Vietti © CSAC

Questa scomposizione in architetture organiche e di forma irregolare, spesso organizzate attraverso un porticato o un patio, confortevoli ed esclusive, con una grande attenzione agli interni e agli arredi, manifesto di un certo ‘gusto’ di una clientela alto borghese, troverà la massima applicazione nei grandi complessi turistici della Costa Smeralda, da lui “inventata” insieme all’Aga Khan nel 1962: qui le scelte tipologiche, gli elementi caratteristici e i materiali da costruzione si ispirarono all’architettura spontanea rurale gallurese, facendo risuonare “i paesaggi selvaggi dell’isola […] nelle forme, nei materiali e nei colori di questi progetti pionieri che, al tempo stesso, si permettevano un eclettismo spensierato e per nulla filologico” (P. V. Dell’Aira).  

Patrizia Dellavedova

Le fotografie dell’articolo sono tratte dal testo “Architetture del Mediterraneo” a cura di Enrico Prandi, edito da Electa.