La terra sotto i piedi. Un progetto di Carmelo Stompo

Il cambiamento climatico è uno degli argomenti più in vista degli ultimi tempi, ma che ancora non vengono percepiti imminenti, per non dire ormai irreversibili. Probabilmente, a rendere difficile il compito di una appropriata sensibilizzazione c’è la distanza. I ghiacciai si sciolgono, il disboscamento avanza, la terra diventa senza più arida, la siccità aumenta, i venti si fanno più forti, gli incendi diventano sempre più devastanti, non di meno le piogge, battenti e distruttive, le temperature fuori controllo. E se un tempo ci si lamentava che non c’erano le mezze stagioni, oggi queste sono scomparse quasi del tutto, tanto da conservarne il ricordo visto che immotivatamente andiamo in giro vestiti pesanti quando l’aria è più che primaverile, a febbraio. Le immagini in movimento che passano nei telegiornali o quelle fotografiche che accompagnano gli articoli della cronaca degli eventi disastrosi che andremo a vivere o già viviamo, non sono sufficienti a suscitare quel misto di sensazioni che dovrebbero farci fermare a pensare e soprattutto a cambiare radicalmente i nostri comportamenti. La distanza, dunque, la ragione che impedisce un approccio al problema più maturo e responsabile, gran parte delle persone nel mondo vive lontano dai problemi climatici, anche quando paradossalmente li vive in prima persona, tipo gli uragani che si abbattano sui luoghi densamente abitati.

Consapevole di questo problema, Carmelo Stompo, fotografo siciliano, che da trenta anni racconta storie, ascolta, osserva, realizza fotografie che possano diventare affreschi in cui riconoscersi. Uno di questi affreschi, particolarmente affascinante è: La terra sotto i piedi.
È un lavoro che non si occupa in generale del cambiamento climatico, in questo caso limitatamente alla desertificazione, ma come scrive Giuseppe Maria Amato* nell’introduzione al reportage: «Il lavoro di Carmelo Stompo rende immediata la percezione complessiva della desertificazione, tralascia l’aspetto scientifico e irrompe in quello culturale. La sua visione materializza la desertificazione del suolo, della vegetazione ma anche dell’anima, della cultura, di un paesaggio umano che fu e che oggi non riesce più a tenere saldi i suoi aspetti

La terra sotto i piedi è un lavoro attento, intelligente e profondamente poetico. Una terra che si è lasciata sedurre dal progresso, proiettandola verso un altro che però lentamente sgretolava quanto di buono e bello c’era, mostrando allo stesso tempo la totale mancanza di utilità. Alle strade disegnate dal lento passaggio degli animali e dei loro allevatori, si introducono, come crepe, viadotti di cemento armato, la cui necessità è tutta raccontata dalle carcasse di vetture che mostrano tutta la loro inutilità. Niente di diverso dalle carcasse degli animali, anche esse adagiate sulla terra, in attesa di scomparire. C’era una volta una terra che amava sé stessa, le sue tradizioni, con le sue basse abitazioni, in un centro abitato fatto a misura di uomo, dove il legame con il passato era sentito e vivo. Le domande che Carmelo Stompo con il suo reportage pone sono azzeccate, scatti che nella loro semplicità creano quella consapevolezza di cui c’è assoluto bisogno, perché, nell’indifferenza dei nostri tempi, stiamo puntando verso “la fine”.

La prima domanda che ti pongo, di rito, è quella di raccontarci quando e come ha avuto inizio la tua personale storia della fotografia?
Avevo 17 anni e una sera mio padre tornò a casa dal lavoro con una Fuji STX1; l’aveva trovata su un sedile del pullman che guidava, alla fine di un tour della Sicilia con un gruppo di turisti americani. Mi disse che sarebbe potuta diventare mia soltanto se il legittimo proprietario non l’avesse richiesta da lì a un mese. L’idea mi eccitava moltissimo, la guardavo e riguardavo continuamente, contavo i giorni e speravo che mai nessuno potesse rivolerla indietro. E così fu! Imparai a usarla, iniziai le mie prime letture di magazine, Progresso Fotografico, Zoom e capii che la fotografia sarebbe diventata una passione importante. Dopo qualche anno, finiti gli studi universitari, un mio amico mi propose di diventare suo socio di un laboratorio fotografico di stampa e l’idea mi piacque molto. Da lì a qualche anno, considerato il mio interesse per la produzione fotografica, trasformammo il laboratorio di stampa anche in studio fotografico ed ebbe così inizio la mia avventura.

La terra sotto i piedi è un reportage molto intenso. Quanto tempo hai dovuto, uso le tue parole, ascoltare, osservare, realizzare le immagini? Se me lo permetti, vorrei anche aggiungere, cosa ti ha spinto a raccontare questa storia?
Parto dall’ultima domanda, avevo concluso il mio progetto “Never Stop” sulla storia di un giovane senegalese, Arouna, che mi ha impegnato per oltre quattro anni e che oltre alla realizzazione di un libro e di un docufilm ha per me rappresentato un progetto umanitario: avevo provato a ridare a un giovane la “dignità e l’identità” che questo Paese gli aveva tolto. Quello che era accaduto ad Arouna e a tantissime persone come lui, ha fatto emergere in me quel senso di vuoto che c’è in ognuno di noi, la stessa sensazione che si prova osservando “la deserti ficazione”, cioè quel paesaggio, frutto di sovrapposizioni di epoche recenti e lontane, testimonianza dell’azione dell’uomo che modi fica il paesaggio e del paesaggio che modi fica l’uomo. Quattro anni, dal 2017 al 2020, spinto dal legame viscerale che ho per la mia terra, nasce così l’idea per un altro progetto a lungo termine, basato su un’attenta osservazione volta ad approfondire la conoscenza della mia isola che, in realtà, è per me un piccolo continente.

Ci sono delle immagini che mi hanno particolarmente colpito per la loro bellezza concettuale. L’acqua è un bene primario e secondo le statistiche scarseggia, eppure tu fotografi una fontanella che ha perso la sua funzione di dissetare, diventando un luogo dove abbandonare i rifiuti. Come siamo arrivati a questo? Perché siamo arrivati a questo?
Il mio progetto non nasce come lavoro scienti fico, ma è imperniato sul fattore umano e culturale che sono alla base dei processi di deserti ficazione. L’acqua è sempre stato un grosso problema, ma in verità potrebbe non esserlo: oggi in Sicilia ci sono 41 dighe, ma a causa di scelte politiche scellerate, di una insufficiente rete di distribuzione e di un cattivo stato di manutenzione, il 50% dell’acqua potabile si perde. Questa gestione dell’acqua, tenuto conto naturalmente anche dei cambiamenti climatici, ha fatto della Sicilia la terra arida e assetata che è oggi, lontana anni luce da quel paesaggio rigoglioso di cui le cronache di un passato neanche troppo lontano raccontano.

A questo punto ti chiedo, cosa ti spaventa di più, la desertificazione dei luoghi o quella dello spirito? L’una implica l’altra, dal tuo punto di vista, oppure sono indipendenti e non conseguenziali?
Mi preoccupano entrambe, come dici benissimo tu, sono conseguenziali, l’una impoverisce l’altra e viceversa. Le ferite della terra riarsa sono le nostre ferite, quelle ferite che ci portiamo dentro e che rendono l’uomo “arido”.

C’è questa bambina presente in molte fotografie. Qual è il messaggio che stai lanciando, speranza nelle nuove generazioni di cambiare l’esistente, per un futuro che recuperi anche il meglio del passato, oppure ci stai dicendo che la strada che abbiamo imboccato li porta ad essere circondati dalle macerie?
La bambina, che poi è mia figlia Ludovica, è testimone di questo tempo, di questo viaggio in questa terra meravigliosa e maltrattata. Lei rappresenta la generazione che ha acquisito la consapevolezza delle macerie che la circondano e che ha la forza, la voglia e il tempo dinnanzi a sé per recuperare il contatto con l’amata “Madre Terra”.

Cosa ti manca della terra che era, cosa apprezzi della terra che sarà? Ci può essere secondo te un punto di contatto?
Per risponderti traggo uno stralcio del testo scritto per il mio progetto dalla mia cara amica Eletta Massimino, Fotografa e Lettrice della Fotografia FIAF del Dipartimento culturale “Agora di Cult”, che ben sintetizza il mio “sentire”: «So di un uomo che trascorse buona parte della sua vita più vicino al cuore della terra di molti altri, e sopravvisse al fiato e ai crolli delle miniere di zolfo di questa nostra isola. Quando smise di immergersi dentro la terra, “una terra” comprò sul poggio. In verità una pietraia disseccata. Liberò con le sue mani quel terreno e lo dissetò portando a spalla l’acqua sul poggio. Piantò più di cento alberi di ulivo e li fece crescere. Quando il figlio gli chiese “Vossia perché lo fa?”, rispose asciutto: “Per la soddisfazione”. Quell’uomo è un “Uomo di Potere”, non il potere che schiaccia e sopraffà ma quello che riconosce e rispetta la Vita, che, come cosa naturale, ricava Soddisfazione nel favorirla e portarla lì dove stenta a vedere la luce. In nessun “mercato” avrebbe trovato quel senso di serena, autonoma determinazione che era in lui e che riponeva nelle sue azioni. Questo spirito capace di volare alto e da lì guardare, nella manifestazione peculiare di ogni individuo, ci salverà. Ne sono certa.»

a cura di Federico Emmi



* Giuseppe Maria Amato, si occupa di pianificazione e gestione delle aree protette. Militante, poi dirigente e ora consigliere nazionale di Legambiente, inoltre è responsabile delle aree naturali protette e delle politiche per la montagna di questa importante Onlus. È coordinatore scientifico del “Rocca di Cerere Unesco Global Geopark”, ha svolto e svolge ruoli di consulente in rapporto con le amministrazioni pubbliche e con organismi internazionali scientifici per la conservazione naturale in collaborazione con l’Unesco.