L’autoritratto come ricerca dell’identità. Vivian Maier. Shadows and Mirrors. Intervista a Anne Morin

Vivian Maier ha scritto segretamente la propria storia della fotografia, composta da oltre 120mila negativi, filmati super 8mm, tantissimi rullini mai sviluppati, foto e registrazioni audio. Come ormai noto, una parte di quella storia è dedicata alla sperimentazione dell’autoritratto, alimentata da “una disperata ricerca dell’identità”.

La mostra “Vivian Maier. Shadows and Mirrors”, composta da 93 autoritratti, in programma presso Palazzo Sarcinelli a Conegliano, dal 23 marzo al 11 giugno 2023, è l’occasione per vedere l’evoluzione dell’autoritratto di Vivian Maier. In effetti, quello di fotografare sé stessa, è un capitolo ampio, formato da un numero importante di immagini, tanto da permettere alla curatrice Anne Morin e ai co-curatori, di individuare un percorso espositivo, che inizia a partire dai suoi primi lavori degli anni ’50, fino alla fine del Novecento. Divisa in tre sezioni, la mostra si apre con l’ombra, il primo livello di una autorappresentazione, con una presenza che non rivela nulla di ciò che rappresenta; prosegue con il riflesso, dove Vivian Maier impiega diverse ed elaborate modalità per collocare sé stessa al limite tra il visibile e l’invisibile, il riconoscibile e l’irriconoscibile. Infine, l’ultima sezione è dedicata allo specchio, strumento attraverso il quale la fotografa affronta il proprio sguardo.

New-York.-October-18-1953-©Estate-of-Vivian-Maier-Courtesy-of-Maloof-Collection-and-Howard-Greenberg-Gallery-NY

La mostra, a cura di Anne Morin in collaborazione con Tessa Demichel e Daniel Buso, è organizzata da ARTIKA, in sinergia con diChroma Photography e la Città di Conegliano.

Per l’occasione abbiamo chiesto a Anne Morin una breve intervista per conoscere il suo lavoro di curatrice e dell’importante ricerca che da anni sta conducendo su Vivian Maier.  


Quando è iniziata e come si sviluppata la sua personale storia della fotografia?

Fin da piccola ero affascinata dalla fotografia e dalle immagini. Le immagini erano ovunque, nei libri, nelle riviste, al cinema e persino negli album di famiglia. La fotografia era molto presente. Una volta terminato il liceo, ho frequentato la scuola d’arte e, dopo la scuola d’arte, la scuola di fotografia di Arles. Lì ho potuto studiare l’immagine fotografica non in ambito esperienziale ma anche nelle trasformazioni che l’immagine ha avuto nella storia. La storia della fotografia è davvero affascinante.

Qual è la prima fotografia che le è rimasta impressa?

C’è una fotografia in particolare che mi ha colpito molto da giovane ed è un’immagine di Martin Munkacsi, Liberia 1922. In questa immagine vediamo 4 ragazzi che corrono su una spiaggia per fare il bagno. Questa immagine è notevole e mi risulta che abbia affascinato anche Henri Cartier-Bresson, probabilmente perché vedendo questa fotografia è riuscito a definire il concetto di momento decisivo. Infatti, fu dopo aver visto questa immagine che Cartier-Bresson decise di diventare fotografo. Questa immagine è rimasta impressa nella mia memoria, l’ho guardata molte volte per molto tempo. È l’immagine del momento per eccellenza.

Negli anni Dieci del duemila, il mondo della fotografia ha definitivamente accolto una nuova artista: Vivian Maier. A suo avviso, dove è la linea che divide la bellezza degli scatti di Vivian Maier dalla storia commuovente che ne ha generato il mito?

Non sono molto interessata alla storia del fenomeno Vivian Maier. Vivian Maier è una grande fotografa, questo è ciò che conta. Per fortuna o per sfortuna il suo lavoro è avvolto in una storia molto singolare, ma non è questo che conta. Questa storia a volte assume un protagonismo eccessivo di fronte al suo lavoro. Dal 2012 mi sono concentrata su una cosa: iscrivere il nome di Vivian Maier nella storia della fotografia. Tutto ciò che non è il suo lavoro non mi interessa molto. È inutile, fa rumore, mette in ombra il lavoro. Come curatore cerco di rivelare il suo lavoro, e il suo lavoro non ha bisogno di un pretesto perché è abbastanza forte.

Self-portrait-Chicago-1970-©Estate-of-Vivian-Maier-Courtesy-of-Maloof-Collection-and-Howard-Greenberg-Gallery-NYSelf-portrait-Chicago-1970-©Estate-of-Vivian-Maier-Courtesy-of-M

In base alla sua esperienza di curatrice, secondo lei era possibile presentare l’opera fotografica di Vivian Maier in maniera differente rispetto a quanto fatto da John Maloof?

John ha avviato un processo di lavoro. Spetta a noi curatori continuare l’analisi, l’indagine del lavoro di Vivian Maier, con il nostro occhio di storici. Ci sono diverse fasi nell’approccio a un archivio. Queste fasi si susseguono e corrispondono a un processo di maturazione. Non guardiamo al lavoro di Vivian Maier nel 2010 nello stesso modo in cui lo guardiamo oggi nel 2023. Un’opera, un archivio, è qualcosa che vive, che si svolge, che si sviluppa, che cresce, un po’ come un albero. Bisogna accompagnare l’opera nel suo sviluppo e nella sua visibilità.

La storia del ritrovamento “fortuito”, che ha commosso tutti gli appassionati di fotografia, l’ha costretta a cambiare il suo modo di affrontare il processo creativo di Vivian Maier?

Non è affatto così. Ho sempre cercato di liberarmi di questa storia. L’ho ignorata. Non conta, non ha impatto, non è importante. Distrae solo dalla lettura dell’opera e per me è una seccatura.

Vivian Maier è conosciuta come una bambinaia che coltivava la passione, qualcuno dice anche ossessione, per la fotografia. Eppure, guardando il numero di negativi che compongono il suo archivio, le diverse fotocamere utilizzate per realizzarli, lo stile compositivo, i soggetti e via dicendo, non crede sia più opportuno definirla una fotografa che si manteneva facendo la bambinaia?

La professione di Vivian Maier, quella di tata, le ha probabilmente permesso di guardare il mondo come fanno i bambini, cioè di scoprirlo continuamente. Essere una tata le ha probabilmente anche permesso di avere tempo libero, di essere libera lei stessa, dato che ha potuto inventare un linguaggio fotografico senza alcuna costrizione. Essere una tata le ha anche permesso di sviluppare una capacità immaginativa, una capacità di vedere e una capacità di interpretare. Vivian Maier non aveva ambizioni professionali e credo che per lei la fotografia fosse un territorio di libertà, come descritto da Virginia Woolf in “Una stanza tutta per sé”.  Per Vivian Maier la fotografia è una stanza tutta sua.

Self-portrait-©Estate-of-Vivian-Maier-Courtesy-of-Maloof-Collection-and-Howard-Greenberg-Gallery-NY

Vivian Maier stampava poco o poco rispetto al numero di negativi disponibili, lei però nell’interessante saggio che accompagna il libro fotografico dedicato alla Maier, edito in Italia da Skira, lascia intendere che ciò che le impediva di stampare le sue fotografie fosse la mancanza di una camera oscura stabile. Dalle poche stampe è comunque possibile capire la sua estetica? Quelle che oggi noi vediamo sono stampe che coincidono con l’intento di Vivian Maier?

Il lavoro di Vivian Maier in laboratorio ci informa innanzitutto su come ha potuto selezionare le sue immagini e, in secondo luogo, su come ha effettuato i controlli incrociati in laboratorio, invertendo persino la direzione delle sue immagini. Si potrebbe dire che il lavoro di laboratorio è un gesto artistico in sé. Detto questo, ci fornisce molte informazioni sul modo in cui guarda le immagini. È grazie a queste informazioni che sono riuscita a capire come lei stessa leggeva le sue immagini, e su queste informazioni ho costruito l’intera mostra.

A differenza di Narciso, che sprofonda nella contemplazione e addirittura nell’adorazione del proprio riflesso, Maier non cerca di rappresentare sé stessa, ma piuttosto di delegare la sua presenza.” Con queste sue parole le chiedo di parlarci della mostra: “Vivian Maier. Shadows and Mirrors” in programma presso Palazzo Sarcinelli a Conegliano, tutta incentrata sugli autoritratti.

Ha affrontato con particolare ricchezza la formulazione della rappresentazione di sé e dell’autoritratto. È probabilmente la fotografa che ha lavorato di più su questo tema nella storia del XX secolo. Ha un linguaggio di estrema complessità. Ombre, riflessi e specchi sono elementi del suo vocabolario che ricorrono costantemente. Lo vediamo molto bene nella sua mostra.

Cosa affascina il pubblico della fotografia di Vivian Maier?

Probabilmente lei affascina perché ognuno di noi, in qualsiasi circostanza, si riflette nel suo volto.

Federico Emmi