L’ombra della fotografia

«L’immagine è ciò da cui io sono escluso»

Roland Barthes

Sappiamo pochissimo di questa immagine fotografica. Sappiamo che l’autore è il lituano Evaldas Ivanauskas mentre il riferimento al tempo storico e alla memoria sono incertI, poiché le persone ritratte sembrano una vedova francese con accanto il suo piccolo bambino. Pertanto il cappotto che penzola su una gruccia appesa a un filo doveva appartenere al marito della donna, un soldato morto durante la Prima Guerra Mondiale? Con tutta probabilità quel cappotto fu l’unica cosa che la donna ebbe indietro dell’uomo, solo un soprabito a cui la donna porge il braccio, mostrando un’ultima intimità, una tenerezza riservata al ricordo del marito reificato in un indumento che si trasforma di fatto in un oggetto fantasmatico.

Se appare strana una simile fotografia al nostro gusto di uomini del terzo millennio, sarà utile considerare che la pratica della fotografia post mortem fu largamente praticata fino ai primi decenni del Novecento. Un’attività che consisteva nel fotografare una persona da poco dipartita, poco prima che il suo corpo venisse tumulato. Al tempo farsi fotografare era molto costoso e poche persone potevano permettersi dei ritratti fotografici, così una di quelle rare occasioni consisteva proprio nell’immortalare un proprio caro prima che il suo corpo venisse sepolto. Quelle immagini erano le ultime e uniche testimonianze di quei volti, spesso erano ritratti insieme ai genitori o ai fratelli e sorelle, eppure quelle foto di cadaveri a cui erano state colorate le gote, tenuti gli occhi aperti artificiosamente o addirittura tenuti in piedi con dei trespoli, divenivano dei ricordi insostituibili, in quanto uniche testimonianze di una persona cara. Tale pratica sparì quasi completamente quando la fotografia si diffuse e i costi diventarono sostenibili, da quel momento farsi un ritratto fotografico in momenti importanti della propria vita divenne una consuetudine.

Eppure in questa foto qualcos’altro cattura l’attenzione: è forse il volto spaurito del bambino a cui è stato infilato il cappello del padre, come una dura eredità o in qualche modo un triste segno per il futuro, oppure è il fatto che quel cappotto appeso è lì non tanto come testimonianza dell’uomo o della sua memoria, quanto piuttosto perché in quell’oggetto sembra condensarsi una vera e propria psicosi allucinatoria. Paradossalmente quel cappotto incarna il desiderio della donna, desiderio di non lasciare andare via il marito deceduto, desiderio e volontà non tanto evocate attraverso l’oggetto, ma dentro lo stesso oggetto. Per questa ragione la donna cerca un contatto intimo con l’oggetto, standogli a braccetto e provando addirittura ad abbozzare un timido sorriso. Se è vero, come afferma Roland Barthes, che nella fotografia un soggetto si sente diventare oggetto, sperimentando l’esperienza della morte, allora tale principio vale anche per il suo percorso opposto e contrario: ovvero quando l’oggetto assume su di sé i connotati del soggetto, vera e propria sineddoche di un movimento magico che sembra trattenere allo stesso tempo l’amore della donna e il suo fantasma, ciò che sembra perdurare dopo la morte. Saremmo così di fronte ad una fotografia che ritrae un non-morto, perché non sopravvive il ricordo dell’uomo, non viene cristallizzato un volto e un’espressione, bensì l’ombra dell’oggetto che cade sull’Io della donna e del bambino.

Quello che la fotografia riproduce ogni volta è proprio la certificazione di essere diventati tutt’uno con l’immagine, perché quello che osserviamo non c’è più o perlomeno non potrà più essere così com’è stato fotografato in quel preciso momento: ogni fotografia dunque è in relazione diretta e profonda con un oggetto che restituisce il nostro sguardo, ricordandoci qualcosa che abbiamo perduto e che continuiamo a perdere tutte le volte che guardiamo e riguardiamo le nostre immagini fotografiche.

Rossano Baronciani

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Immagine copertina tratta da Google Images: Evaldas Ivanauskas – Invisible Dad