Il MASI Lugano ospita “Luigi Ghirri. Viaggi – Fotografie 1970-1991”, fino al 26 gennaio 2025. La mostra, a cura di James Lingwood, curatore di arte contemporanea che conosce il periodo iniziale della carriera di Ghirri, esplora la fascinazione del fotografo per il tema del viaggio, attraverso una selezione di circa 140 fotografie a colori.

La complessità di Ghirri e le criticità dell’approccio curatoriale di Lingwood
L’opera di Luigi Ghirri si caratterizza per una stratificazione di significati che trascendono la mera rappresentazione paesaggistica. Le sue fotografie, pur apparentemente semplici, sono ricche di riferimenti culturali, filosofici e artistici. Ghirri non si limitava a documentare, ma interpretava e analizzava il mondo con uno sguardo concettuale. Tra i temi centrali della sua ricerca troviamo: il rapporto tra realtà e rappresentazione, con una messa in discussione dell’oggettività fotografica; l’attenzione all’artificialità del paesaggio contemporaneo, trasformato dall’intervento umano; l’indagine sulla percezione e la memoria, con immagini evocative di familiarità e nostalgia; e la riflessione sulla fotografia come linguaggio autonomo, dotato di proprie regole e convenzioni.
L’approccio curatoriale di James Lingwood, pur mirando al coinvolgimento attivo dello spettatore, presenta criticità nella gestione della complessità dell’opera di Ghirri. L’enfasi sull’interpretazione libera, unita alla sottovalutazione del contesto culturale italiano degli anni ’70 e ’80, rischia di semplificare eccessivamente il lavoro dell’artista. Pur comprendendo la volontà di creare libere associazioni di immagini, in linea con i desideri dello stesso Ghirri, sarebbe stato necessario un approccio che bilanciasse la libertà interpretativa con strumenti di comprensione più strutturati, offrendo al pubblico chiavi di lettura per apprezzare la profondità del suo lavoro.

Per comprendere appieno le criticità dell’approccio curatoriale di Lingwood, è necessario partire dalle fondamenta: la vita e l’opera di Luigi Ghirri. Solo attraverso una comprensione approfondita del suo percorso possiamo valutare quanto la mostra riesca effettivamente a restituirne la complessità.
LA BIOGRAFIA
Luigi Ghirri (Scandiano, 1943 – Roncocesi, 1992) ha iniziato a fotografare nel 1969, mentre lavorava come geometra. La sua prima mostra personale si è tenuta nel 1970 al Canalgrande Hotel di Modena. Importante il ruolo di Anna Maselli, sua moglie e grafica, responsabile della creazione di tutti i suoi libri. Nel corso della sua carriera, ha sviluppato un approccio innovativo alla rappresentazione del paesaggio e della vita quotidiana, collaborando con artisti concettuali e partecipando attivamente al dibattito culturale del tempo.
Opere e Tematiche
Le opere di Ghirri sono caratterizzate da una profonda riflessione sul linguaggio visivo e sul significato delle immagini. Tra le sue serie più celebri ci sono Atlante (1973) e Kodachrome (1978), in cui esplora il paesaggio italiano con un occhio critico e ironico. Le sue fotografie spesso mettono in evidenza l’ambiguità del paesaggio contemporaneo, mescolando elementi naturali e artificiali. Uno dei suoi progetti significativi è Colazione sull’erba, che indaga il rapporto tra natura e artificio attraverso immagini di giardini condominiali e case unifamiliari. Ghirri ha anche creato opere come Infinito, una serie di 365 immagini del cielo scattate quotidianamente, che possono essere riorganizzate in modi infiniti.
Influenza e Riconoscimenti
La sua opera ha avuto un impatto duraturo sulla fotografia contemporanea, influenzando generazioni di fotografi. Ghirri è stato esposto in numerose mostre internazionali, inclusa la Biennale di Venezia nel 2011, e le sue fotografie sono conservate in importanti collezioni museali come il MoMA di New York e il Musée de la Photographie Reattu ad Arles. Nel corso della sua vita, Ghirri ha pubblicato diversi libri dove condivide le sue riflessioni sul medium fotografico.
Con questo bagaglio biografico e concettuale, possiamo ora addentrarci nell’analisi della mostra al MASI, valutando come le quattro sezioni espositive riescano a dialogare con il complesso universo creativo di Ghirri.
LA MOSTRA
La mostra di Luigi Ghirri si sviluppa in quattro sezioni che ripercorrono la sua carriera fotografica. Inizia con “Paesaggi di Cartone”, dove esplora immagini quotidiane come manifesti, mostrando la trasformazione della realtà in fotografia collettiva. “Viaggi in Casa” offre uno sguardo intimo con opere come “Atlante” e “Identikit”, suggerendo un’idea di viaggio più ampia del semplice spostamento fisico. “Rappresentazioni del Viaggio” presenta foto di persone in vacanza, catturando momenti di quiete. Infine, “Composizioni Turistiche” interpreta luoghi iconici come i Faraglioni di Capri, mettendo in discussione le rappresentazioni stereotipate. In sintesi, la mostra indaga il rapporto tra realtà, rappresentazione e immaginario, con focus sul tema del viaggio.
Analisi della Mostra
Nel panorama dell’arte contemporanea, Luigi Ghirri può considerarsi a pieno titolo come un intellettuale visivo che ha radicalmente trasformato la fotografia da strumento di documentazione a dispositivo critico di indagine epistemologica. La mostra non è dunque una semplice retrospettiva, ma un laboratorio teorico che scompone e ricostruisce i meccanismi della percezione visiva. Luigi Ghirri non può essere compreso entro le strettoie di una definizione puramente artistica. Filosofo dell’immagine, geografo dell’immaginario, cartografo dei margini: la sua opera sfugge a ogni classificazione disciplinare. Formatosi in un’Italia post-sessantottesca, Ghirri sviluppa una sensibilità che integra riflessione estetica, sociologia visiva e critica culturale. Andiamo a comprendere i punti principali della sua ricerca fotografica che sono presenti anche nella mostra:
I “Paesaggi di Cartone” (1971-1974): Ontologia dell’immagine
Nella serie “Paesaggi di Cartone”, Ghirri compie un’operazione filosofica dirompente. Non si limita a fotografare paesaggi riprodotti su manifesti e cartoline, ma innesca un cortocircuito epistemologico. Ogni immagine diviene un dispositivo critico che frantuma la distinzione tra originale e riproduzione. Per comprendere appieno Ghirri, bisogna entrare nel dettaglio e metterlo in relazione.
Ghirri e Walter Benjamin
Il pensiero di Walter Benjamin sulla riproducibilità tecnica, con la conseguente perdita dell'”aura” (l’unicità e irripetibilità dell’originale legata a storia, contesto e presenza fisica), offre una chiave per analizzare l’opera di Luigi Ghirri. Quest’ultimo, pur lavorando con la fotografia (mezzo riproducibile), sembra costantemente ricercare e reinventare l’aura. Lo fa attraverso diverse strategie: la serialità con variazioni che rendono ogni scatto unico; l’attenzione a dettagli apparentemente insignificanti che acquistano nuova dignità; la dimensione soggettiva e contemplativa che permea le sue immagini; e la cura per la stampa come oggetto fisico, che contrasta con la natura riproducibile della fotografia. Ghirri riattualizza il concetto di aura nell’epoca della riproducibilità, non negandola ma reinventandola.

Il suo lavoro si configura quindi come una riflessione sulla perdita dell’aura, invitando a riflettere sul rapporto tra fotografia, arte e percezione del mondo. Se Benjamin ci aiuta a comprendere come Ghirri si rapporti con la riproducibilità dell’immagine fotografica, il confronto con Magritte ci permette di approfondire un altro aspetto centrale della sua ricerca: il rapporto tra realtà e rappresentazione.
Ghirri e René Magritte
La riflessione di Magritte, con il suo “Ceci n’est pas une pipe”, e la fotografia di Ghirri convergono sull’interrogativo del rapporto tra realtà e rappresentazione. Magritte evidenzia la natura convenzionale del linguaggio visivo, separando l’immagine dall’oggetto rappresentato. Ghirri, pur usando la fotografia, condivide questa consapevolezza, offrendo interpretazioni soggettive del paesaggio, non semplici riproduzioni. I punti di contatto includono: la messa in discussione della percezione immediata della realtà, con Magritte che usa paradossi e Ghirri dettagli stranianti; il rapporto tra linguaggio e immagine, con Magritte che usa il linguaggio verbale e Ghirri i titoli; la natura convenzionale della rappresentazione, intesa come codice interpretativo; e l’invito a uno sguardo critico e attivo. Esempi concreti sono le foto di Ghirri di cartelli, simili al “Ceci n’est pas une pipe” (il cartello non è il luogo), e le inquadrature di dettagli che creano “quadri nel quadro”. Entrambi, con linguaggi diversi, invitano a riflettere sulla natura illusoria dell’immagine e sulla necessità di uno sguardo critico, ricordando che le immagini non sono specchi del reale, ma finestre su mondi possibili. Questa riflessione sulla natura dell’immagine trova un ulteriore sviluppo nel dialogo con il pensiero di Roland Barthes, che offre strumenti preziosi per comprendere come Ghirri costruisca il significato nelle sue opere.

Ghirri e Roland Barthes
L’opera di Luigi Ghirri e la semiotica di Roland Barthes convergono sull’importanza della significazione e del ruolo attivo dello sguardo. Entrambi valorizzano il concetto di connotazione: Ghirri non si limita alla denotazione del paesaggio, ma ne cattura l’atmosfera e le suggestioni, aprendo a molteplici interpretazioni. Il concetto barthesiano di “mito” si riflette nella “mitologia del quotidiano” di Ghirri, che trasforma luoghi comuni in icone di un immaginario collettivo, celebrando la bellezza dell’ordinario. Il rapporto testo-immagine, analizzato da Barthes con “ancoraggio” e “relè”, si ritrova nei titoli di Ghirri (come “Paesaggio italiano”) che orientano l’interpretazione, e nelle didascalie che arricchiscono il significato. Infine, entrambi sottolineano la soggettività nella costruzione del senso: Barthes nel lettore, Ghirri nelle sue fotografie come frutto di scelte interpretative, e lo spettatore chiamato a interagire con l’immagine, creando un significato condiviso ma personale.

In Ghirri ogni fotografia diventa un palinsesto dove realtà e simulacro si sovrappongono, generando una zona liminale, limitrofa, subliminale di senso che sfugge alle logiche rappresentative tradizionali. Questa intersezione tra il visibile e l’invisibile, tra ciò che è reale e ciò che è solo percepito, costituisce il cuore della sua ricerca estetica e filosofica. Questi riferimenti teorici trovano una perfetta sintesi nella serie ‘In Scala’, dove Ghirri mette in pratica la sua riflessione sulla natura della rappresentazione fotografica.
“In Scala” (1977-1985): fotografare il minuscolo per comprendere il reale
La serie ‘In Scala’ (1977-1985), realizzata nel parco ‘Italia in Miniatura’ di Rimini, rappresenta un punto cruciale nella ricerca artistica di Ghirri, trasformando il parco in un dispositivo filosofico che interroga la nostra percezione della realtà. Fotografando le miniature, Ghirri decostruisce la percezione spaziale, mettendo in crisi il nostro sistema di riferimento e creando straniamento. Il paesaggio diviene un luogo di riflessione sulla natura della realtà e della sua rappresentazione, con le miniature che diventano metafore del mondo. Ghirri non cerca una visione completa del parco, ma cattura frammenti che suggeriscono una totalità non completamente visibile, riflettendo la natura parziale della percezione. Nella mostra del Masi una parte è presente, con alcune immagini nascoste, in modo gioioso e giocoso, tra foto di luoghi veri.

Giorgio Morandi: per capire l’essenza di Ghirri
L’essenzialità accomuna Giorgio Morandi e Luigi Ghirri, evidente nella serie “Atelier Morandi”. Entrambi rivolgono attenzione a oggetti comuni e al quotidiano, elevati a soggetti d’indagine tramite sottrazione e riduzione all’essenziale. Morandi con le sue nature morte, Ghirri con i suoi paesaggi ordinari, cercano l’essenza con semplificazione formale, luce e composizione. I punti di contatto includono: la riduzione all’essenziale, con Morandi che ricerca la forma pura e Ghirri che si concentra su frammenti rivelatori; la dimensione intima e silenziosa che invita alla contemplazione; l’indagine sulla luce, fondamentale per entrambi; il rapporto con il luogo, con Morandi legato al suo studio e Ghirri al paesaggio emiliano-romagnolo e italiano; e la sospensione del tempo che caratterizza le loro opere. Pur nelle affinità, Morandi si concentra su oggetti in uno spazio chiuso, mentre Ghirri esplora il mondo esterno e il paesaggio aperto.

L’approccio essenziale che accomuna Ghirri a Morandi si riflette anche nelle sue scelte tecniche. Gli strumenti e i metodi che il fotografo prediligeva non erano mai casuali, ma sempre funzionali alla sua ricerca di essenzialità e verità.
GLI STRUMENTI
Le Macchine Fotografiche e i Formati
Ghirri ha utilizzato una varietà di formati fotografici, ognuno scelto per soddisfare specifiche esigenze espressive:
35mm: Nelle fasi iniziali della sua carriera, Ghirri utilizzava macchine come la Leica M e la Nikon F. Questi strumenti erano ideali per progetti che richiedevano agilità e immediatezza, permettendogli di catturare momenti fugaci nei reportage.
Medio Formato: Con fotocamere come la Hasselblad 500C/M e la Mamiya 7II, Ghirri apprezzava la qualità dell’immagine e la resa prospettica superiori. Questi formati erano perfetti per catturare paesaggi e atmosfere con dettagli più delicati.
Grande Formato: Utilizzando macchine come le Linhof o Sinar in 4×5 pollici, si concentrava su progetti che richiedevano un controllo preciso della composizione. Questo approccio più lento gli permetteva di riflettere attentamente sulla scena da immortalare.
Gli Obiettivi
La scelta degli obiettivi era altrettanto ponderata. Ghirri prediligeva obiettivi a focale intermedia, come il 50mm nel 35mm o l’80mm nel medio formato. Queste focali, simili alla visione umana, permettevano una rappresentazione naturale del paesaggio senza distorsioni. Evitava grandangoli estremi e teleobiettivi spinti, favorendo una visione equilibrata e oggettiva che invitava lo spettatore a immergersi nell’immagine.
La Luce
La luce nelle fotografie di Ghirri è fondamentale. Prediligeva una luce naturale, morbida e diffusa, spesso catturata al mattino presto o al tardo pomeriggio. Questa scelta creava un’atmosfera malinconica e contemplativa, contribuendo a definire il “genius loci” dei luoghi ritratti. La luce non era solo un elemento descrittivo; era espressiva e contribuiva a creare un senso di sospensione.

Le Pellicole
Ghirri utilizzava principalmente pellicole a colori con tonalità pastello. La sua collaborazione con lo stampatore Arrigo Ghi era cruciale per ottenere la resa cromatica desiderata. Non cercava saturazione o contrasto elevato, ma piuttosto delicatezza nelle sfumature, creando immagini che evocavano acquerelli. Questa scelta rifletteva una precisa visione estetica e concettuale.
L’Influenza delle Polaroid
Oltre alle macchine fotografiche a medio formato, Ghirri era anche un grande appassionato di fotografia istantanea, utilizzando spesso le Polaroid. La Polaroid SX-70 gli permetteva di catturare momenti fugaci con colori saturi e un’atmosfera nostalgica. Questa tecnica gli consentiva di esplorare la fotografia in modo più immediato e spontaneo.
La Tecnica come Filosofia
Per Ghirri, la tecnica non era un fine in sé ma un mezzo per esprimere una visione del mondo. Ogni dettaglio tecnico era guidato da una riflessione sul significato della fotografia come strumento di conoscenza. Catturare la “luce” e il “genius loci” significava penetrare l’invisibile e rivelare l’essenza nascosta dei luoghi. La sua fusione di tecnica e poetica rende il suo lavoro unico, dimostrando come la fotografia possa essere non solo una rappresentazione del reale ma anche una forma profonda di conoscenza ed espressione artistica. Questa attenzione meticolosa agli aspetti tecnici emerge con chiarezza nelle sue ‘Lezioni di fotografia’, dove Ghirri svela il legame profondo tra scelte tecniche e visione artistica.

“Lezioni di fotografia” raccoglie le trascrizioni delle lezioni di fotografia tenute da Luigi Ghirri agli studenti dell’Università di Reggio Emilia. In queste lezioni alterna momenti in cui si concentra su aspetti tecnici, come macchine fotografiche, obiettivi e illuminazione, a fasi in cui emerge una ricerca quasi filosofica di cosa sia la fotografia e il fotografare:
“Ho sempre guardato all’immagine fotografica come a qualcosa che non si può definire, una specie di immagine impossibile. L’ho sempre vista come una strana sintesi tra la staticità della pittura e la velocità, che è qualcosa di interno alla fotografia, al suo processo di costruzione, cosa che l’avvicina al cinema. Perché io la fotografia la guardo dal punto di vista dell’immagine. (…) Credo che proprio in questo senso la fotografia sia un’immagine impossibile: un’immagine che da una parte ha la staticità della pittura, dall’altra il dinamismo del cinema (figlio della fotografia)“
Dopo aver analizzato la mostra, esplorato le influenze culturali, studiato le serie fotografiche e compreso le scelte tecniche di Ghirri, possiamo ora tirare le fila di questo percorso complesso, ritornando alla domanda iniziale: come si pone la mostra del MASI rispetto alla ricchezza del lavoro di Ghirri?
Conclusione: Ghirri e l’arte del dubbio, un invito alla complessità
La mostra al MASI Lugano non è una semplice retrospettiva ma un’esplorazione teorica della fotografia come strumento di conoscenza e indagine sulla percezione. In un’epoca dominata da immagini iperrealiste, Ghirri valorizza il dubbio, l’incertezza e la complessità attraverso la sua caratteristica “lente appannata”. Questo approccio lo accomuna a Giorgio Morandi nella loro comune “poetica dell’essenziale”: entrambi invitano a guardare oltre la superficie, cogliendo sfumature e ambiguità del reale. Come le nature morte di Morandi, i paesaggi di Ghirri richiedono uno sguardo contemplativo e interrogativo, rivelando la complessità nascosta del quotidiano. La mostra rappresenta un’importante occasione per approfondire la fotografia italiana del Novecento e riflettere sulla percezione visiva contemporanea, ricordando l’importanza del dubbio, della lentezza e dell’interrogazione come strumenti di conoscenza. Per cogliere appieno la profondità dell’opera di Ghirri, è fondamentale accompagnare il pubblico con strumenti interpretativi adeguati, bilanciando l’evocatività delle immagini con un contesto critico e culturale. Solo così è possibile rendere giustizia a un autore che, attraverso le sue fotografie, continua a ispirare e interrogare il nostro modo di vedere il mondo. Ghirri invita infine a praticare l’arte del dubbio, “appannando” la visione per andare oltre le apparenze, aprendo la strada a nuove prospettive e verità.
Discorsi Fotografici ringrazia le Curatrici del Masi, per la gentilezza nel rispondere alle domande, spiegando con dovizia di particolari, durante la presentazione della mostra.
