Massimo Siragusa: Il Festival, i libri e il cambiamento del linguaggio fotografico

L’intervista che state per leggere è frutto di una felice coincidenza, imprevista e del tutto inaspettata. Massimo Siragusa, uno dei più importanti e apprezzati fotografi italiani, la cui bravura è riconosciuta a livello internazionale, non è solo il direttore artistico del Ragusa Foto Festival, ma anche un piacevole narratore. In questa intervista, non si è limitato a descrivere i progetti esposti nell’edizione 2024, ma ha offerto una lettura profonda e intima, valorizzando il lavoro degli artisti e delle artiste presenti.

Nel tempo limitato a nostra disposizione, l’incontro è diventato un’occasione preziosa per riflettere su temi, come l’evoluzione del linguaggio fotografico, l’importanza delle letture portfolio e come, a volte, un insieme di fotografie apparentemente casuali possa dare vita a un tema ricco di significato, come quello del sonno. Abbiamo parlato anche del valore del libro, fotografico o meno, capace di instaurare un rapporto di intimità con chi lo sfoglia. Come ci ha detto Massimo Siragusa, un libro si può aprire e chiudere a piacere, ma è proprio attraverso questa intimità che si può entrare nel profondo di un percorso, soprattutto quando si tratta di fotografia, un linguaggio tanto complesso quanto affascinante.

Curiosamente, in tempi recenti mi è capitato di incontrare Massimo Siragusa in un paio di occasioni, sempre mentre sfogliavamo libri, uno accanto all’altro. Forse non è un caso che il tema dell’edizione 2024 del festival sia proprio “Prendersi una pausa”. In un’epoca di frenesia costante, la pausa diventa un atto di consapevolezza, un’opportunità per riflettere su chi siamo, dove stiamo andando e quale direzione sta prendendo il mondo intorno a noi.


[Silvio Villa] – Cominciamo con una domanda di rito: qual è stata finora la tua personale esperienza nel mondo della fotografia?

Fare il fotografo non è stata l’unica caratteristica, il mio unico modo di lavorare attorno al mondo della fotografia. Infatti, soprattutto negli ultimi anni, ho affiancato almeno altre due attività, di cui una in realtà già da molto tempo, cioè quella dell’insegnamento, che trovo un esercizio importante e che mi ha dato moltissimo. Insegno da 17 anni allo IED di Roma e anche in altre strutture, alcune in Sicilia, a Catania, Siracusa, ma anche altrove. L’insegnamento è stata un’esperienza straordinaria perché ti offre un contatto continuo con le nuove generazioni e, quindi, con un modo diverso di pensare, ragionare e approcciarsi all’uso delle immagini. Questo è un aspetto importante da tenere in considerazione, da porre al centro. Perciò, l’insegnamento è per me una delle esperienze professionali più interessanti, e non lo abbandonerei per nulla al mondo. Finché avrò la forza, continuerò a insegnare.

Inoltre, da qualche anno, circa tre, ho dato vita a una piccola casa editrice, Phaos Edizioni, di libri artigianali, con piccole tirature. Produciamo lavori di fotografi non particolarmente affermati, ma in cui crediamo molto. L’ultimo libro che abbiamo pubblicato, all’inizio di quest’anno, è un progetto bellissimo che nasce dall’idea dell’assenza, ovvero della cecità. Il progetto, intitolato: “Altravista”, è stato realizzato da un mio ex alunno dello IED, che ci ha lavorato durante il suo percorso di studi e l’ha presentato agli esami finali. Dopo la laurea, abbiamo deciso di dare spazio a questo lavoro anche a livello editoriale.

Credo molto nei libri e nella loro funzione, non solo nei libri fotografici, ma nei libri in generale, come veicolo di conoscenza e momento di riflessione personale. Un libro permette di raccontare storie, visive o fotografiche, in questo caso, in un modo che consente a chi lo legge di prendersi il tempo necessario per assimilarle. Il rapporto di intimità che si crea con un libro, che si può aprire e chiudere a piacere, è essenziale per entrare in profondità in ogni percorso, specialmente quando si parla di un percorso visivo come la fotografia, che è un linguaggio complesso. Per questo, per me, l’editoria è un aspetto fondamentale.

Infine, c’è questa recentissima esperienza artistica del Festival di Ragusa. In passato, ho anche diretto una galleria a Catania per sei anni, ma quella è una storia diversa. La direzione di un festival è estremamente complicata, qualcosa in cui non avrei mai immaginato prima di trovarmi coinvolto. È complesso e affascinante allo stesso tempo, e il percorso che si costruisce attorno a un festival non è solo merito del direttore artistico. Un festival è il risultato del lavoro di un team. Nel caso del Festival di Ragusa, l’ideatrice centrale è Stefania Licia Paxhia, l’artefice principale dell’evento. C’è poi un gruppo di persone che, con le loro capacità, rende possibile la nascita del festival, dalla comunicazione fino a chi ha realizzato e montato fisicamente gli allestimenti e le mostre. Tra questi, Daniele Salafia è uno degli elementi fondamentali per il successo dell’evento. È veramente una macchina complessa, ma affascinante.


[Federico Emmi] – Passiamo ora al Ragusa Foto Festival. Il festival presenta nomi di grande rilievo come Mario Cresci, Antonio Biasucci, Mimmo Paladino, Ferdinando Scianna, Simona Ghizzoni e molti altri. Raccontaci di più dell’edizione 2024.

Il Festival, come ogni anno, ha scelto un tema. Quest’anno il tema è “prendersi una pausa”. Possiamo immaginare il concetto di pausa in molti modi diversi: dalla banale pausa pranzo, che tutti noi facciamo quando interrompiamo la nostra attività lavorativa, a un’idea di pausa molto più profonda. Non è semplicemente un’interruzione per svagarsi, come la pausa pranzo, il gioco o il riposo.
Invece, possiamo intendere la pausa come qualcosa che ci porta a una riflessione interiore, a una maggiore consapevolezza di noi stessi, e quindi alla necessità di riprenderci del tempo per riflettere. Abbiamo bisogno di interrogarci su chi siamo, dove stiamo andando, quale direzione stiamo prendendo, e quale direzione il mondo stesso stia prendendo. Viviamo in un mondo dai ritmi frenetici. In che modo possiamo trovare uno spazio e costruire una relazione con ciò che ci circonda?

Per rispondere a questa domanda, ho invitato molti autori diversi a partecipare, ciascuno con uno sguardo diverso, sia dal punto di vista artistico, con espressioni visive e fotografiche, sia per quanto riguarda le diverse sensibilità, che in qualche modo si sono messe a dialogare tra di loro.

Hai menzionato Antonio Biasucci e Mimmo Paladino, che ci portano, da una parte, a riflettere su un gioco come la tombola, e dall’altra sulla nostra storia, sulla tradizione più autentica, rappresentata dalla smorfia napoletana, che è la forma più antica di tombola. In realtà, quello che fanno è raccontarci una cultura: il momento di pausa visto come un’espressione culturale.

Successivamente hai citato Simona Ghizzoni. Simona Ghizzoni presenta l’evoluzione di un progetto che ha iniziato qualche anno fa, chiamato “Isola”. È un progetto in cui l’artista esplora il suo luogo d’origine, l’Appennino Emiliano, che ha abbandonato per scelta molti anni fa, ma che ora cerca di riscoprire attraverso una relazione profonda con la natura e un ritorno alle sue radici. Questa ricerca è diventata particolarmente significativa dopo la nascita di suo figlio, quando la sua vita è divenuta più complessa, comprendendo anche il ruolo di madre. Simona non è più soltanto la figlia che ritorna al suo luogo d’origine, ma anche una madre che cerca uno spazio nel suo contesto familiare e naturale.

Questo percorso è interessante perché tutti noi abbiamo lasciato un luogo, e quel luogo non è solo geografico, ma anche simbolico: rappresenta le nostre origini, la famiglia e l’infanzia. Tutti noi, in un certo senso, affrontiamo un percorso di allontanamento e riavvicinamento alle nostre radici, in un continuo ciclo di distacco e ritorno. Il lavoro di Simona si sviluppa attraverso l’autoritratto e i ritratti intimi con suo figlio, uniti alla rappresentazione della natura dell’Appennino Emiliano. Tuttavia, la natura che ritrae non è idealizzata o romantica: è una natura vissuta, fatta di ragnatele, di foglie mangiate dai bruchi, di una primavera che tenta di emergere dalla nebbia. È una natura autentica, vissuta in tutta la sua forza, che Simona mette in dialogo con la sua stessa vita. Il risultato è un dialogo profondo tra il vissuto personale dell’artista e la vitalità della natura che la circonda.

Presentiamo poi, in esclusiva per il Festival di Ragusa, un lavoro mai esposto prima, ancora in fase di sviluppo, realizzato dall’artista tedesca, di origini rumene, Loredana Nemes. Questo progetto è particolarmente interessante perché si sviluppa interamente in Sicilia e ha la natura come elemento centrale. Anche in questo caso, la natura assume un ruolo cruciale, ma qui la relazione è quasi simbiotica, un legame che definirei quasi d’amore tra persone e natura. Loredana ha chiesto alle persone che ha incontrato di indicarle il loro albero preferito, l’albero che considerano il loro punto di riferimento. Ognuno ha scelto alberi diversi, naturalmente.

La particolarità di questa mostra sta nei dittici: da una parte, c’è il ritratto della persona, che può essere una coppia, una ragazza o un ragazzo, un uomo o una donna, e accanto troviamo il ritratto dell’albero o degli alberi che queste persone hanno scelto come simbolo di riferimento.

È un lavoro straordinario perché tra il ritratto delle persone e quello degli alberi emerge un flusso quasi d’amore. È come se ci fosse, anche in questo caso, una sorta di rapporto speculare: le forme delle persone ritratte sembrano riflettersi in quelle degli alberi. Per esempio, c’è una coppia di anziani che si abbraccia, e gli ulivi da loro scelti hanno rami che si torcono, quasi in un tentativo di abbraccio. È una corrispondenza curiosa tra le forme degli alberi e quelle delle persone, al punto che non si capisce più se sono le persone ad aver scelto l’albero o se è l’albero che ha scelto loro. Si crea una somiglianza profonda, una relazione speculare.

Questo lavoro affronta temi fondamentali: il flusso dell’amore e la necessità di una connessione tra l’uomo e la natura. Inoltre, sottolinea l’urgenza della protezione della natura, attraverso immagini poetiche e delicate, e richiama alla salvaguardia del territorio. Il tema della bellezza e della forma è centrale: ogni immagine è caratterizzata da un equilibrio formale straordinario. Infine, la mostra di Loredana è stata resa possibile grazie al supporto, non solo economico ma anche concettuale, della Fondazione Silva.

Un’altra mostra è dedicata a Luca Campidotto, di cui hai parlato precedentemente. In questo caso, le immagini di Luca seguono il suo stile caratteristico: sono immagini liriche che si ispirano alla grande tradizione della fotografia di paesaggio, sebbene lo sguardo di Luca le rivisiti attraverso i suoi cromatismi unici. Il suo percorso diventa così un elemento distintivo di ogni singola immagine.

In questa mostra, sono esposte nove fotografie di paesaggi marini. Abbiamo condotto una ricerca all’interno dell’archivio di Luca, selezionando immagini che fanno parte del suo percorso. Alcune di esse sono esposte per la prima volta, recuperate e rivisitate, in un’esigenza di esplorare lavori meno conosciuti e meno visti. Le immagini presentano un mondo che appare perfetto, quasi come se tutti noi aspirassimo a raggiungere tale ideale, e che probabilmente tutti identifichiamo come un punto di riferimento. Tuttavia, questo lavoro offre una prospettiva diversa rispetto a quella di Simona Ghizzoni o Loredana Nemes, che si concentrano su aspetti diversi della natura. È un ulteriore modo di riflettere sull’importanza della gestione del mondo attuale, sull’attenzione verso la natura e verso ciò che ci circonda. La necessità di prendersi del tempo per una visione più profonda e un rapporto consapevole con la natura è evidente. È come una suggestione che invita le persone a sedersi sulla riva, su una spiaggia o su una scogliera, a non affrettare il tempo, ma a riflettere su ciò che hanno davanti, invitando a considerare la bellezza e la fragilità di un elemento marino che sta cambiando. Pensiamo alle variazioni di temperatura del mare e agli eventi attuali che influenzano la nostra contemporaneità.

Il lavoro di Luca è poetico ed elegante e ci offre spunti di riflessione importanti su ciò che si cela dietro queste immagini.

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Un’altra mostra è dedicata ad Angelo Raffaele Turetta e io sono particolarmente legato a questo progetto. Turetta è un fotografo che da oltre trent’anni si occupa di cinema con una delicatezza e un’eleganza straordinarie. In particolare, è un fotografo che evita di farsi notare, contrariamente all’ego spesso molto sviluppato in molti fotografi. Angelo Turetta è un fotografo che, con una grande attenzione verso il proprio lavoro, sembra quasi avere timore di mostrarlo e di condividerlo pubblicamente.  Infatti, non ha mai realizzato una mostra personale estesa, sebbene avrebbe potuto farlo con molte delle sue opere. Anche se ha lavorato con numerose parti del suo repertorio, ha realizzato poche mostre, concentrandosi principalmente sul cinema.

La mostra che abbiamo organizzato per Angelo Raffaele Turetta è probabilmente la più ampia che abbia mai avuto, legata al cinema. Abbiamo esposto oltre 35 immagini, incluse alcune di grandissimo formato. È un viaggio straordinario nel mondo del cinema, che riflette tutta la nostra cultura e vita. Sono rappresentati i personaggi, le atmosfere e i temi che vanno da Mastroianni fino ai giorni nostri, offrendo una panoramica completa della nostra vita culturale. È interessante notare che il cinema non è solo un elemento della nostra vita, ma ne è anche un’espressione profonda. È importante dare centralità a questo linguaggio e considerarlo non solo come una forma di svago, ma come uno specchio della nostra esistenza. Le immagini di Turetta non mostrano il cinema come semplice intrattenimento, ma come un riflesso della nostra realtà e delle nostre esperienze. Ci sono immagini straordinarie, come quelle del film “Terraferma” di Crialese, che trattano temi importanti come l’emigrazione siciliana verso l’America, e l’ultimo film che esplora l’immigrazione sulle coste di Lampedusa. I temi trattati non sono semplici momenti di svago, ma questioni significative che ci riportano all’attualità e alle sfide che viviamo oggi.

Una delle mostre centrali è dedicata a Ferdinando Scianna. Mi limiterò a dire che la nostra esposizione fa parte di un progetto che è il frutto di una ricerca nel suo archivio fotografico. Nel corso dei decenni della sua carriera, Scianna ha fotografato, in modo più o meno consapevole, persone che dormono e riposano in diverse situazioni e contesti nel mondo. Le sue immagini coprono una vasta gamma di atmosfere e condizioni, che spaziano dall’emarginazione sociale e culturale al benessere.

Il sonno è un atto universale, ma non è uguale per tutti. Il sonno di chi non ha una casa, di chi non ha braccia che lo accolgono, di chi non ha un letto vero, o di chi è un profugo, è molto diverso da quello di chi ha una casa, una famiglia e una sicurezza. Allo stesso modo, i sogni di chi vaga senza un punto di riferimento sono diversi da quelli di chi ha stabilità affettiva, economica e strutturale.

È interessante notare che il sonno, da atto inconsapevole, si trasforma quasi in un monito. Le fotografie di Scianna sono un invito a riflettere su come dovremmo considerare e apprezzare atti apparentemente naturali e scontati. Dormiamo perché siamo stanchi, ma è importante riconoscere e apprezzare che ciò che per noi può sembrare scontato non lo è per tutti.

Abbiamo poi un lavoro e una mostra che trovo estremamente interessanti: un progetto di Marco Zanta che non è mai stato presentato nella sua interezza fino ad ora. Marco Zanta ha viaggiato in quasi tutti i paesi del mondo, offrendoci immagini che io definirei distopiche. Le sue fotografie mostrano un mondo in sospensione, come se nulla accadesse all’interno delle sue immagini, ma con la sensazione costante che qualcosa stia per accadere.

Le immagini sono particolarmente curiose. Una che mi ha colpito in modo particolare mostra una ragazza che guarda uno smartphone in una sorta di deserto, mentre dietro di lei passa un uomo vestito da astronauta. Un’altra immagine mostra persone meravigliate che osservano un iceberg che si scioglie, come se fosse uno spettacolo. Questa scena riflette la curiosa relazione tra iperturismo e la percezione del cambiamento climatico, mentre le persone rimangono in fila a guardare.

Trovo questa mostra particolarmente affascinante e centrale per il Festival. Essa dialoga anche con due video realizzati dallo stesso Marco Zanta, che sono parte integrante della mostra e animano ulteriormente le immagini. Questi video offrono uno sguardo su ciò che è accaduto prima e ciò che potrebbe accadere dopo, allo stesso tempo anche i video mantengono una sensazione di sospensione, senza mai fornire risposte definitive.

Un’altra mostra presenta una giovane artista, Viola Pantano. Viola Pantano è un’artista eclettica, che ha lavorato marginalmente con la fotografia. Fino ad ora, le sue fotografie ritraevano persone che sembravano fluttuare nell’aria, come travolte da un uragano. Tuttavia, per questo Festival ha realizzato un lavoro esclusivo. È interessante perché ha utilizzato l’idea della pausa come metafora e ha chiesto a numerosi volontari, uomini e donne di immergere il volto in un contenitore d’acqua per tutto il tempo che riuscivano a rimanere in apnea. Ci sono due aspetti interessanti in questo lavoro. Il primo aspetto interessante è che la fotografa ha catturato l’istante in cui ciascun volontario sollevava il volto dall’acqua per respirare. Successivamente, ha chiesto a ognuno cosa avessero pensato e provato mentre avevano la testa immersa nell’acqua. È interessante notare che in ogni immagine la fotografa ha indicato il tempo trascorso con la testa immersa nell’acqua, il ritratto e infine la parola che esprimeva la sensazione provata. Questo processo rivela una curiosa discrepanza: le espressioni del volto spesso non corrispondono alle parole descrittive fornite. C’è quindi una sorta di curioso trasferimento, dove le espressioni facciali non sembrano allinearsi con le sensazioni descritte. La pausa, come momento di riflessione, appare profondamente diversa rispetto all’espressione immediata del volto. Il secondo aspetto interessante di questa operazione è che l’artista ha realizzato questo progetto a Roma, in luoghi pubblici, caratterizzati da traffico e rumore, creando una pausa di silenzio artificiale. Sott’acqua, i suoni diventano ovattati e impercettibili, forzando una disconnessione dal caos circostante. Inoltre, in mostra c’è un contenitore d’acqua creato dall’artista che invita i visitatori a immergersi e sperimentare personalmente questa sensazione.

Nello stesso palazzo, Palazzo La Rocca, c’è un’altra mostra che merita attenzione, non è incentrata sulla fotografia, ma presenta una selezione di case editrici. Tutte le piccole case editrici indipendenti italiane hanno partecipato inviando due libri ciascuna della loro produzione recente e questo aspetto è fondamentale per me, come ho accennato prima parlando del mio percorso nel campo editoriale. Il libro per me è centrale, offrire quindi una vasta selezione di libri in visione è un’opportunità importante, perché permette di mostrare a chi non ha familiarità con il settore, come sta evolvendo il linguaggio editoriale e quali sono le produzioni recenti. Si può apprezzare la raffinatezza, la cura e l’attenzione che ogni casa editrice dedica ai propri progetti editoriali. Questo mi sembrava un elemento essenziale.

L’ultima mostra è dedicata a Mario Cresci, e siamo particolarmente entusiasti di presentarla, poiché è la prima volta che il Festival di Ragusa ospita una residenza d’artista. Questa iniziativa è stata possibile grazie alla Fondazione Zipelli, che conserva un’ampia collezione di oltre 600 carte geografiche, risalenti al 1300 fino ai giorni nostri, raccolte dall’ingegnere Zipelli, scomparso da diversi anni. La Fondazione mantiene queste carte, che documentano la storia della Sicilia, la sua evoluzione e la sua rappresentazione nel tempo. Esse mostrano come l’isola, che si allunga e si accorcia attraverso le epoche, veniva interpretata in base alla capacità di individuare le forme geografiche senza la possibilità di vederle dall’alto.

Abbiamo pertanto chiesto a Mario Cresci di realizzare un progetto che esplorasse il territorio siciliano attraverso queste carte geografiche. Cresci, artista di straordinario talento, ha creato un lavoro che si sviluppa su due fronti distinti. Da una parte, ha prodotto una serie di 15 immagini realizzate durante la settimana di residenza a Ragusa, che ritraggono vari aspetti del territorio. Dall’altra parte, ha realizzato 20 collage unici, utilizzando copie di alcune carte geografiche come materiale di partenza. Questi collage, che combinano ritagli delle carte con fotografie e altre immagini, sono opere singolari che arricchiscono il progetto con un valore unico e significativo.

[Silvio Villa] – Vorrei aggiungere una domanda riguardo alle letture di portfolio, che sono un classico di questi eventi. Quest’anno ci sono stati lettori d’eccezione come Benedetta Donato, Tiziana Faraoni, Irene Alison, Luca Santese e Claudio Corrivetti. Tu, Massimo, che hai vissuto tutte le fasi della fotografia, da fotografo a lettore, editore e insegnante, come vedi l’evoluzione delle letture di portfolio negli ultimi 10-15 anni? In una società abituata a giudicare attraverso i social piuttosto che prendersi il tempo per discutere con professionisti del settore, c’è stato un aumento o una diminuzione dell’interesse per queste letture?

Le letture portfolio sono notevolmente aumentate; praticamente ogni festival, anche nelle sue iniziative più piccole, ha una serie di lettori presenti per permettere ai partecipanti di sottoporre i propri lavori. Questo fenomeno rappresenta un percorso interessante e, a mio avviso, è il contraltare dello sviluppo del digitale. La crescente necessità di essere sempre presenti su piattaforme social riduce la visione delle foto a pochi decimi di secondo, con un like lasciato alla rinfusa. Questo approccio non consente una valutazione profonda della capacità di chi espone le proprie foto. Il digitale è caratterizzato da interazioni immediate e superficiali, senza riflessione critica. Al contrario, la lettura del portfolio è un momento intimo tra due persone.

Se il lettore possiede buone capacità di lettura e analisi critica, in quei dieci minuti non può dare risposte definitive, ma può fornire indicazioni preziose. Ad esempio, può suggerire: “Guarda, qui dentro c’è questa storia che merita attenzione. Quest’altra è meglio lasciarla da parte.” In un processo di analisi di un portfolio con 20 immagini, probabilmente 10 o 15 meriteranno un percorso più approfondito, mentre altre 5 richiederanno un’attenzione diversa. Questo è un suggerimento utile e importante per il fotografo che sottopone il proprio lavoro, aiutandolo a sviluppare un senso critico personale e a trovare i punti deboli nel proprio lavoro.

È fondamentale considerare che si cresce attraverso la critica, non attraverso le approvazioni. Solo mettendo in discussione il proprio lavoro si può superare un livello. Se tutto va bene senza critiche, si rimane a quel livello, anche se è elevato.

Un’altra considerazione è che le letture dei portfoli riflettono ciò che è accaduto nell’editoria: c’è una crescente necessità di relazioni dirette e di pareri critici da persone con autorevolezza. I fotografi hanno bisogno di far conoscere il proprio lavoro attraverso strumenti e mezzi che vadano oltre un semplice sito web o Instagram, privilegiando momenti di riflessione diversi.

In passato, i magazine offrivano spazio ai lavori dei fotografi, ma oggi, con la scomparsa di molte riviste, il libro ritorna al centro dell’attenzione. Questo perché è necessario dare fisicità al lavoro che facciamo. La fotografia è nata come oggetto fisico; quando ho iniziato, stampavamo le foto e le mostravamo come oggetti tangibili. Oggi, con tecniche di stampa più economiche e veloci, i libri possono essere realizzati con maggiore semplicità. È emerso anche un grande sviluppo delle fanzine, progetti stampati e rilegati dai fotografi stessi, creando oggetti unici realizzati a mano. Tutto ciò conferisce una nuova centralità alla fotografia, che aveva rischiato di perdere la sua materialità e profondità. I social, i telefonini e i computer dimostrano i loro limiti rispetto alla fotografia.

Una riflessione interessante emerge dal fatto che, recentemente, Chiara Ferragni ha dichiarato di aver scattato foto con una macchina fotografica a pellicola perché ritiene che la resa della pellicola sia molto più bella rispetto al digitale. Questa dichiarazione potrebbe far sì che molti tornino a lavorare con la pellicola. Non ho nulla contro il digitale, ma sembra che l’esigenza di ritornare a una certa materialità non riguardi solo i fotografi.

[Federico Emmi] – Ora, Massimo, ti pongo due domande. La prima è un po’ più impegnativa: secondo la tua esperienza professionale, il linguaggio fotografico è cambiato nel tempo? E se sì, un festival come quello di Ragusa riesce a riflettere questo cambiamento?

Il linguaggio fotografico è cambiato enormemente. In passato, la fotografia si concentrava su reportage e immagini legate al territorio, spesso con un approccio poetico o documentaristico. Oggi, invece, il linguaggio fotografico si sviluppa principalmente a partire dal sé, dalle storie personali e dalle esperienze individuali. Non si limita più alla ricerca di ciò che accade all’esterno, ma esplora anche altri percorsi, come archivi, immagini scientifiche e documenti storici.

Un esempio eccellente di questa evoluzione è il lavoro di Mathieu Asselin, intitolato: “Monsanto. A Photographic Investigation”, un progetto che ha richiesto anni di ricerca. Questo progetto include fotografie di ritratti, paesaggi, documenti storici, ricerche scientifiche e immagini di feti morti. È un esempio di come il linguaggio fotografico possa integrare diverse componenti in un’unica narrazione.

Anche osservando i miei studenti, noto che ogni lavoro, anche quelli realizzati da studenti di secondo o terzo anno, presenta una certa complessità. La parte dell’archivio, le immagini storiche e vernacolari, le foto contemporanee, si intrecciano in progetti che dimostrano come la fotografia non possa più essere considerata un mezzo sufficiente per raccontare una storia da sola. Sembra che ci sia un cambiamento nel modo di pensare, simile al funzionamento del cervello, che lavora in modo non lineare ma orizzontale, integrando molte informazioni in parallelo, proprio come avviene su una pagina web.

Questa modalità di lavoro riflette il nostro approccio contemporaneo alla conoscenza e alla comunicazione, dove diverse forme di contenuto si intrecciano per formare un’opinione completa su ciò che stiamo leggendo. Oggi, la fotografia è estremamente complessa. Basta sfogliare una parte della produzione editoriale contemporanea per notare che molti libri sono complessi, con pagine che si aprono, documenti inseriti, e diverse organizzazioni, tutte frutto di una contaminazione stilistica e concettuale.

Un festival può contribuire a questa contaminazione mostrando lavori che riflettono questa complessità. A Ragusa, ad esempio, c’è una ricerca di profondità nelle foto e un’esplorazione di elementi contaminati, come si vede nel lavoro di Viola Pantano. I festival possono andare nella direzione della contaminazione, ma è importante che ogni festival definisca le proprie linee guida e obiettivi.

Una mostra non è solo una serie di foto esposte, ma piuttosto un’integrazione di foto all’interno di uno spazio specifico. Questo inserimento delle foto in un luogo contribuisce a mescolare le carte rispetto a un progetto, offrendo una chiave di lettura diversa rispetto a quella concepita dall’artista. Esporre foto di formati diversi, accostarle, allontanarle o inserirle in contesti vari crea una relazione unica con lo spazio e rappresenta un modo efficace di contaminare un progetto.

[Federico Emmi] – La seconda domanda è più diretta. Hai spesso sottolineato l’importanza dell’editoria nel mondo della fotografia. È ancora vero che una fotografia vale più di mille parole?

Trovo che ci sia una notevole affinità tra il linguaggio della parola e la fotografia. Credo che entrambi operino in modo simile. Non penso che la fotografia valga solo “mille parole”; al contrario, credo che abbia un valore pari a quello delle parole. Per me, un libro composto da 30 immagini, anche se il numero è casuale, che racconta una storia può emozionare e colpire profondamente. Può suscitare reazioni positive o negative a seconda di chi lo osserva e delle intenzioni dell’autore, proprio come un romanzo o una raccolta di poesie. In sostanza, non darei un ruolo diverso alla fotografia rispetto alla parola; per me, entrambi sono equivalenti.

Grazie, Massimo, per le tue bellissime parole. Sia come direttore artistico del Ragusa Foto Festival che nel tuo ruolo di fotografo, insegnante e editore, abbiamo davvero percepito la tua lunga esperienza. Quello che è iniziato come un’intervista a un direttore artistico si è trasformato in una vera e propria doppia intervista, offrendo anche uno sguardo approfondito anche a un appassionato cultore della fotografia. Grazie ancora!

Federico Emmi & Silvio Villa

2 replys to Massimo Siragusa: Il Festival, i libri e il cambiamento del linguaggio fotografico

  1. Questa intervista a Massimo Siragusa è esemplare per un approfondimento del Festival. Grazie all’intervistato, grande fotografo e a Villa che ha posto le domande giuste. Grazie a entrambi

    1. Grazie a te Mario per l’apprezzamento! L’intervista, per l’esattezza, è stata preparata da entrambi (io e Federico) e presto uscirà anche in versione audio!

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