Possa il circolo rimanere ininterrotto

Il mio insegnante di lingua e letteratura italiana delle superiori fumava le Multifilter. Al tempo a scuola si poteva, anche se lui raramente lo faceva in classe; rimaneva cinque minuti fuori dalla porta, fumando accanto alla finestra prima di entrare. Ho sempre pensato che fosse il suo modo per raccogliere le idee o forse, più semplicemente, per consolarsi rispetto a ciò che lo attendeva. Era un uomo di altri tempi anche quarant’anni fa, veniva a scuola sempre in completo ed io riuscivo a capire che la bella stagione stava arrivando quando toglieva la cravatta; quello era il segno che annunciava inesorabilmente la fine dell’anno scolastico. Era un uomo con una cultura immensa e un eloquio senza pari, sapeva essere ironico e tragico, arrabbiato e disilluso allo stesso tempo, si muoveva tra i saperi come un surfista sulle onde, modulando temi e toni come un raffinato DJ. Ascoltarlo era un incanto, tanto che spesso prendevo solo pochi appunti, perché rimanevo rapito da quelle storie che riuscivo a immaginare ancora prima di ascoltare. Al tempo non ne ero ancora consapevole, poi riuscii a capire che quell’insegnante era riuscito a fare con me qualcosa che nella vita è allo stesso tempo difficilissimo ma anche estremamente semplice, era riuscito a mettermi in contatto con il mio desiderio.

La sua tecnica era apparentemente semplice, le sue parole descrivevano argomenti che sapeva rendere interessanti senza mai rivelarli completamente, senza mai esplicitarli fino in fondo né dando eccessive spiegazioni, perché non c’era mai un’unica interpretazione o un unico punto di osservazione o di analisi. Il senso rimaneva sempre un po’ sfuggente, difficilmente riassumibile o sintetizzabile, mentre il suo argomentare era simile ad un movimento circolare, agito intorno a una mancanza, a qualcosa che non era mai completa, era un po’ come un girare intorno a un vuoto. Più avanti nel tempo ritrovai il metodo del mio insegnante nelle parole con cui Jacques Lacan definì l’artista, paragonato ad un vasaio che crea i vasi «a partire dal buco», là dove «ogni arte si caratterizza per una certa modalità di organizzazione attorno al vuoto». Quel vuoto che viene descritto e circoscritto da un qualsiasi significante è l’oggetto del desiderio, ovvero qualcosa che non ha forma precisa perché sotteso, finanche nascosto inconsapevolmente da noi stessi, un vuoto che prende forma grazie a ciò che gli sta attorno, al linguaggio che scegliamo per creare qualcosa che ancora non c’è (il buco al centro del vaso), ma che diventa visibile a seguito dell’azione del vasaio (l’artista) che deve sempre partire da un vuoto, da una pagina bianca. Noi sappiamo bene quali aspetti e caratteristiche assuma il nostro desiderio; tuttavia, ignoriamo quali siano le cause profonde che innescano le nostre particolari forme del desiderare: conosciamo il vaso e il materiale che lo compone ma ignoriamo la natura del vuoto, del buco senza cui non si dà alcun vaso.

La stessa dinamica del desiderio è stata descritta anche da Italo Calvino nelle sue Lezioni americane, quando racconta una storia tratta dal ciclo carolingio; scrive Calvino: «Carlomagno in tarda età s’innamorò d’una ragazza tedesca. I baroni della corte erano molto preoccupati vedendo che il sovrano, tutto preso dalla sua brama amorosa, e dimentico della dignità regale trascurava gli affari dell’Impero. Quando improvvisamente la ragazza morì, i dignitari trassero un respiro di sollievo, ma per poco: perché l’amore di Carlomagno non morì con lei. L’imperatore, fatto portare il cadavere imbalsamato nella sua stanza, non voleva staccarsene. L’arcivescovo Turpino, spaventato da questa macabra passione, sospettò un incantesimo e volle esaminare il cadavere. Nascosto sotto la lingua morta, egli trovò un anello con una pietra preziosa. Dal momento in cui l’anello fu nelle mani di Turpino, Carlomagno s’affrettò a far seppellire il cadavere, e riversò il suo amore sulla persona dell’arcivescovo. Turpino, per sfuggire a quell’imbarazzante situazione gettò l’anello nel lago di Costanza. Carlomagno s’innamorò del lago e non volle più allontanarsi dalle sue rive». Calvino individua nell’anello magico il protagonista del racconto, poiché sono gli spostamenti dell’anello a determinare le vicende dei personaggi. L’amore di Carlo Magno per la ragazza tedesca, la necrofilia, l’interesse omosessuale per l’arcivescovo, la malinconica contemplazione del lago di Costanza sono episodi legati l’uno con l’altro nella loro disparata diversità proprio dall’anello magico. Il motore del racconto è proprio «la corsa del desiderio verso un oggetto che non esiste, un’assenza, una mancanza, simboleggiata dal cerchio vuoto dell’anello». Le passioni si accendono in virtù dell’anello magico, tuttavia, non ci è dato a sapere il perché, ovvero chi occupa il posto di causa del desiderio; si potrebbe obbiettare che l’anello è magico; tuttavia, ciò non spiega da dove provenga la magia dello stesso, ovvero perché siamo attratti dal quel determinato vuoto circoscritto dall’anello?

Una risposta importante a questa domanda è stata data dalla fotografa Corinne Day (1962 – 2010), in particolare nelle immagini raccolte nella mostra curata dal marito Mark Szaszy alla Gimpel Fils Gallery di Londra, intitolata “May the circle remain unbroken”. La fotografa inglese è nota per aver contribuito a rivoluzionare l’immagine della moda grazie all’icona degli anni Novanta Kate Moss, ritratta quando la modella aveva appena sedici anni, qualche anno prima che diventasse famosa in tutto il mondo. Corinne Day la ritrasse su una spiaggia del Sussex, utilizzando il bianco e nero, in pose che negavano il glamour e gli ammiccamenti delle foto di alta moda; Kate venne rappresentata nella sua semplicità di ragazza mentre passeggiava da sola oppure insieme a dei bambini. Infatti, se osserviamo la fotografia di Kate Moss ci troviamo completamente spaesati rispetto ai canoni della bellezza offerta dai rotocalchi dell’alta moda del tempo, la ragazza è di una magrezza spiccata e niente in lei incoraggia il tradizionale sguardo desiderante né si presta a diventare un modello di femminilità, icona di moda. Ella appare per quello che è, una sedicenne che si veste da adolescente senza prestare troppa attenzione ai canoni di seduzione fino a quel momento indispensabili nell’immaginario del fashion design. Queste fotografie furono una sorta di Epifania per la comunicazione della moda, perché per la prima volta la metafora del desiderare non procedeva più attraverso la sovrapposizione della bellezza della modella con l’oggetto pubblicizzato (vestito, accessorio o profumo che sia), ma al contrario il desiderio veniva nascosto, dissimulato attraverso una narrazione per immagini che era l’esatto opposto delle modelle dalla bellezza prorompente avvolte in scenografie patinate. Corinne Day lo sapeva bene perché anche lei era stata modella durante gli anni Ottanta, conosceva quel mondo e la sua parte oscura di cui aveva deciso di ribaltare i canoni, spostando il baricentro del desiderio dall’esterno verso l’interno, dall’esteriorità all’intimità. Scrive Corinne Day: «È stato quando eravamo a Milano in una pensione a buon mercato quando ho iniziato a fare fotografie che significavano qualcosa per me. Queste fotografie avevano un’intimità e una tristezza su di loro. Lì stavamo lottando per pagare l’affitto, vivendo in una discarica, circondati da riviste glamour che erano così lontane dal nostro stesso livello di vita».

Forse è proprio per questo che, nel corso della sua attività artistica, la fotografa si è poi concentrata prevalentemente nella realizzazione di scatti che privilegiassero la sfera intima delle relazioni, vere e proprie immagini ‘rubate’ agli amici colti nelle loro esistenze semplici, anche se a volte complesse e difficili. In questa direzione lo sguardo di Corinne Day si rivolge verso la vera essenza del desiderio, cercando ciò che oltre al corpo, o meglio ciò che al di là del corpo, ci cattura nelle persone. Si è parlato spesso di una fotografia che evocava la bellezza delle cose ordinarie individuate nell’esaltazione della giovinezza e dell’innocenza, in realtà gli occhi di Corinne Day indagano il meccanismo complicatissimo e nel contempo semplice che ci collega al nostro desiderare, ovvero a ciò che l’immagine cela e dissimula. Per questo le sue modelle sono spesso inquadrate in posizioni scomode, sdraiate o sul divano, e i suoi amici ritratti in situazioni buffe anziché banali, mentre nulla sembra essere centrale nelle sue fotografie. Nelle scene ritratte è un po’ come se la vita fosse qualcosa di semplice e di complicato allo stesso tempo, senza una vera e propria determinazione della vista bensì una reiterata successione di sguardi tanto veloci quanto fortuiti. Corinne Day sembra dirci che ciò che guardiamo, l’oggetto del nostro desiderio non è mai ‘a fuoco’ perché ha a che fare con il movimento, con la fluidità delle relazioni e la loro continua mutevolezza. Il desiderio è un cerchio che non si chiude, un’emozione che fugge costantemente come Angelica nell’Orlando furioso che pure teneva con sé un anello magico; il desiderio è in tutto ciò che sta intorno alle narrazioni della nostra esistenza e delle persone che ci stanno accanto, un movimento che crea cerchi che devono rimanere ininterrotti, cerchi agiti intorno a un vuoto.

Rossano Baronciani