Raccontare l’invisibile: il mondo fragile negli occhi di Daesung Lee

Ci sono fotografi che scattano per ricordare. Altri per denunciare. Daesung Lee fa entrambe le cose, ma aggiunge qualcosa di più raro: costruisce immagini che ci costringono a immaginare ciò che non vediamo, e forse non vogliamo vedere. Coreano di origine, oggi vive e lavora in Francia. Il suo percorso nella fotografia inizia da giovanissimo, con un’ossessione precoce per l’immagine che si trasforma, nel tempo, in una ricerca personale e politica.
“Mi sono interessato alla fotografia quando avevo circa dieci anni”, racconta. Dopo gli studi universitari in Corea e qualche anno in uno studio commerciale, realizzando editoriali e pubblicità, arriva un momento di crisi: “Sentivo che mancava qualcosa. Volevo che il mio lavoro avesse un significato, uno scopo.”

Quella tensione verso un significato lo porta a viaggiare tra il 2008 e il 2010 in diversi Paesi asiatici, documentando i siti di estrazione del carbone. “Il mio interesse iniziale era legato all’ambiente. Ma più tempo trascorrevo in quei luoghi, più capivo che l’estrazione del carbone non era solo un problema locale: era profondamente legata all’economia globale.” Quel carbone serviva a produrre energia per le fabbriche tessili che lavoravano per i grandi marchi. È lì che Lee prende coscienza del legame diretto tra degrado ambientale e meccanismi globali di produzione e consumo.
Col tempo, cambia anche il suo modo di raccontare. “All’inizio lavoravo con un approccio documentario più tradizionale. Ma spesso trovavo difficile esprimere la profondità emotiva, il messaggio centrale o la memoria di eventi passati solo con quel metodo.” Decide quindi di rompere con le regole del documentario puro e abbracciare un linguaggio più personale e simbolico, capace di esprimere in forma visiva anche ciò che non si vede, non si tocca, ma si sente.

Questo approccio emerge chiaramente nel progetto delle snow globe, realizzato nel 2015. In quell’anno, a Parigi come sull’isola di Lesbo, convivevano due realtà opposte: il turismo e l’esodo dei rifugiati. “Quei luoghi erano al tempo stesso mete turistiche e zone di accoglienza per persone in fuga, a seconda di chi li stava vivendo.” L’idea nasce da questa contraddizione e si cristallizza in un gesto visivo: trasformare le tradizionali palle di neve turistiche in souvenir alternativi, che riflettano i ricordi dei rifugiati invece che quelli dei visitatori.
In The Red Forest, Lee spinge ancora oltre la dimensione immaginativa. Costruisce un’intera narrazione fittizia intorno a un villaggio ucraino, Mikhalinka, e a una bambina, Kateryna, che riceve visioni da uno spirito della foresta di nome Raelcun — un anagramma della parola “nuclear”. “È un esperimento visivo: una storia fittizia raccontata con tecniche documentarie, che contiene indizi simbolici sul suo vero significato.” Il progetto è ispirato agli studi del semiologo Thomas Sebeok, che negli anni Ottanta teorizzava la necessità di creare miti e tabù per trasmettere il pericolo delle scorie nucleari a civiltà future che potrebbero non sapere nemmeno cosa siano.

Ma Lee non lavora solo su piani simbolici. In On the Shore of a Vanishing Island torna al documentario ambientale, ma con uno sguardo diverso. Resta un mese su un’isola minacciata dall’innalzamento del mare. “Il primo giorno, camminando lungo la spiaggia, sono rimasto colpito dalla vista surreale della costa che veniva lentamente erosa dal mare.” L’esperienza lo convince che anche in un contesto reale e urgente, la fotografia può (e forse deve) muoversi su un piano più evocativo che puramente oggettivo. “Dopo quel progetto, ho cominciato a pensare alla fotografia non più solo come a uno strumento di documentazione, ma come a un mezzo più efficace per raccontare le storie che voglio trasmettere.”
Le comunità più colpite dalla crisi climatica sono spesso quelle che meno vi hanno contribuito. “Il cambiamento climatico è una conseguenza diretta del consumo umano. L’ecosistema terrestre è interconnesso. Ma chi ha meno colpe spesso è chi subisce le conseguenze più dure. Ho visto con i miei occhi la distruzione delle vite di queste persone. Sono loro il cuore del mio lavoro.” Anche lui, dice, non può sottrarsi a questa responsabilità: “Cerco di ridurre i miei consumi il più possibile, ma vivendo in una società occidentalizzata so che non potrò mai esserne del tutto libero.”

I premi e riconoscimenti internazionali gli hanno dato fiducia, ma non lo illudono. “Ricevere visibilità mi ha aiutato a credere più profondamente in quello che faccio. Mi ha dato la libertà di sperimentare nuove idee. Ma questo non significa stabilità economica. Vendere il mio lavoro resta una sfida, e spesso fatico a trovare i fondi per nuovi progetti.” Tutto, aggiunge, dipende anche dal contesto storico: “Intorno al 2010, il mondo del fotogiornalismo stava cambiando. Se avessi unito documentario e finzione dieci anni prima, credo che non sarebbe stato accettato.”
Anche quando espone, cerca luoghi di scambio più che di vetrina. “A volte i festival diventano eventi chiusi per chi è già dentro il mondo della fotografia: curatori, editor, artisti che parlano solo tra loro.” Ricorda con affetto il festival Getxophoto, in Spagna, per l’attenzione reale alla comunità locale: “Le opere erano esposte nei mercati, nei passaggi pedonali, persino sulla spiaggia. Siamo stati accolti non solo come artisti, ma come ospiti. Spesso ci preparavano pasti cucinati in casa. C’era un vero scambio: conversazioni sincere sull’opera e riflessioni sui temi dal punto di vista della vita quotidiana.”
Anche nei progetti commerciali Lee porta avanti i suoi temi in modo coerente. Quando Magnum Photos lo invita a partecipare al progetto Self 07 per Saint Laurent, coglie l’occasione per proporre un’opera d’autore. È il periodo della pandemia, le città sono ferme e la natura sembra risvegliarsi. “Sembrava ci fosse un universo nascosto, che si rivela solo quando ci fermiamo, quando smettiamo di interferire.” Così nasce Parallel Universe, un lavoro che immagina la Terra com’era prima dell’arrivo dell’essere umano. “Non avevo mai visto davvero la natura senza la presenza dell’uomo. Ho cominciato a immaginare il mondo prima che arrivassimo noi — prima che ogni traccia della nostra esistenza alterasse il paesaggio.”Non ha uno stile fisso, né lo cerca. “Ogni progetto ha il suo linguaggio, la sua atmosfera. Non voglio avere un’estetica costante che mi identifichi. Uso la luce naturale, ma non per costruire una firma visiva. Il contenuto guida ogni scelta.”
Quando riflette sulle influenze, non cita altri fotografi. “Per me, il punto di partenza più importante è stato capire chi sono: cosa mi piace, cosa no, in cosa sono bravo e in cosa faccio fatica.” Dopo il trasferimento in Francia, diventa più consapevole di quanto la sua formazione culturale influenzi il modo in cui percepisce e racconta il mondo. Capisce di avere una forte immaginazione, ma anche un attaccamento profondo alle questioni sociali. “Ho deciso di unire questi due aspetti. Non mi interessa più rispondere alla domanda ‘è documentario o finzione?’. Voglio solo raccontare storie attraverso la fotografia.”

Una domanda lo accompagna da sempre: che senso ha vivere, sapendo che la vita è limitata? “La perdita improvvisa di amici — per incidenti o malattie — ha profondamente cambiato il mio modo di pensare alla vita. Nessuno sceglie di nascere, ma una volta qui, siamo costretti a vivere.” Lee si interroga sul senso delle scelte, sull’autenticità, sulla pressione del tempo. “Forse, in fondo, non siamo nulla. Ma anche così, voglio che questo breve tempo sia davvero mio. Voglio viverlo pienamente, e viverlo con verità.”
Oggi lavora a due nuovi progetti. Il primo è intimo: ha come protagonista sua madre, una donna di 76 anni cresciuta in una società patriarcale. Quando lui le chiede: “Se potessi rinascere, cosa vorresti essere?”, lei risponde: “Non voglio rinascere.” È da lì che nasce il desiderio di raccontare una storia generazionale fatta di silenzi e mancanza di libertà. “Molte donne della sua generazione — in Corea e in Asia — hanno vissuto vite difficili. Hanno affrontato discriminazioni sistemiche, violenza domestica, e non hanno avuto il controllo sulla propria identità. Le loro esistenze sono state definite solo come mogli e madri. Con questo progetto voglio raccontare quella storia silenziosa attraverso la vita di mia madre.”
Il secondo progetto nasce invece dallo spreco tessile. Visitando un’associazione che raccoglie abiti usati, Lee si accorge che molti di quei capi, ancora in ottimo stato, finiscono scartati. Inizia così una collaborazione con una giovane stilista per creare una mise-en-scène visiva fatta proprio con quegli scarti. “Stiamo sviluppando insieme concetti visivi e bozzetti utilizzando questi abiti abbandonati.”

A chi vuole raccontare la crisi ambientale attraverso l’immagine, lascia un consiglio sincero. “Una delle cose che mi preoccupa è che le questioni ambientali siano diventate una moda. Oggi tutti vogliono parlarne, ma spesso ci si ferma lì. La consapevolezza è diventata un sostituto comodo dell’azione vera. La fotografia, purtroppo, non può cambiare questa realtà. Le immagini possono stimolare il pensiero, avviare conversazioni, forse persino cambiare prospettive — ma non bastano. Il divario tra consapevolezza e azione è qualcosa a cui penso spesso.”

Ringrazio Daesung Lee per la profondità, la sincerità e la lucidità con cui ha condiviso il suo lavoro e la sua visione del mondo. Per esplorare i suoi progetti: www.daesunglee.com

Mariantonia Cambareri