Raccontaci la tua personale storia con la fotografia.
E’ un percorso molto simile a moltissimi altri, forse con una piccola nota di cui non sono stato consapevole subito e che non so se è comune anche ad altri. Fin da piccolino ma proprio bimbo, avevo una forte attrazione per le immagini stampate e per le macchine fotografiche. Naturalmente la cosa non passò inosservata ad un vicino di casa che possedeva svariati corredi, che ricordo con lucidità estrema ancora oggi. Da lui ricevetti in regalo la prima macchina fotografica una Bencini Comet III, una giacenza di magazzino che io misi all’opera subito. Dopo un po’ fu relegata dai miei in un posto inaccessibile della libreria, sfornavo un rullo alla settimana, non era sostenibile.
Passano gli anni, l’attrazione per il mondo fotografico rimane latente, gli studi, il militare poi il primo stipendio…prima reflex. Probabilmente quello che era rimasto latente per un periodo si era risvegliato per non riaddormentarsi più.
Poi il passo da fotoamatore, qualche concorso qualche mostra collettiva. La mia propensione alla ritrattistica mi proiettò senza fatica nel mondo dei matrimoni, e un po’ di fotografia industriale. La fotografia di matrimonio mi portava via parecchio tempo ed energie a scapito della foto di ricerca personale; lentamente la fotografia di street prese piede nella mia visione e quando decisi, qualche anno fa, di chiudere la parte professionale mi ci dedicai completamente.
Una delle cose più curiose che tu mi hai raccontato dei tuoi lavori è che sostanzialmente sono stati realizzati tutti a pochi chilometri da casa. È qualcosa che non comunichi nel tuo sito; io trovo che si tratti di un pregio della tua ricerca, come se il sito in cui raccogli le tue foto fosse un box di due chilometri quadrati ricchissimo di vita, varia e vivace. Ci insegni, peraltro, che per fare fotografia non è necessario cercare l’esotico a tutti i costi. Ti sembra corretto il mio punto di vista?
Il tuo punto di vista è più che corretto. La fotografia è racconto e l’ispirazione deve nascere da dentro. Naturalmente gli stimoli esterni sono importanti, ma devono attivare qualcosa che hai già dentro, non devono rimanere un fattore esclusivamente esterno. Penso che la ricerca dell’esotico se non gestita bene possa addirittura essere un fattore penalizzante. Uno scatto banale fatto nei luoghi consueti è facilmente individuabile, se fatto in luoghi “esotici” può essere mascherato dall’esterofilia della rappresentazione.
Abito in una città a 30 minuti di macchina da Venezia, ho i miei affetti più cari che vivono li, in un’isola. Ci passo dei buoni periodi e moltissimi scatti sono stati fatti magari mentre facevo la spesa o andando a prendere i nipoti a scuola. Venezia non è solo un patrimonio a livello monumentale e di arte, ma è un patrimonio a livello umano per una serie di fattori che tutti conoscono. È verissimo, fotografo in un’area apparentemente minuscola, ma con gli occhi giusti è un microcosmo dalle infinite possibilità. Dico sempre: quando sei a Venezia non ti serve andare in giro per il mondo, siediti e guarda, è il mondo che ti passa davanti. Ci sono fotografi o cineoperatori che ti fanno emozionare raccontandoti la vita di un formicaio. Posso lamentarmi se racconto storie che avvengono in uno o due chilometri quadrati? Sembrerebbe una prigione ma anche in una prigione ci sono storie da raccontare, non vi sembra?
Quanto ha influenzato la tua fotografia la terra cui appartieni?
Non mi sono mai posto questo pensiero, e non ho una risposta definitiva. La visione di appartenenza è sufficientemente lontana da me perché possa esibirla come un valore aggiunto, sarebbe una cosa a cui non credo. Ma per contro non posso dire che i miei archetipi non influenzino la mia vita e di conseguenza il mio vedere.
Cosa intendi dire quando nell’ “About” del tuo sito scrivi: «le scene di ripresa appartengono ad una quotidianità che forse non vivrà a lungo»?
Non devo spiegare a nessuno la direzione in cui sta andando il mondo, la globalizzazione e, peggio ancora, la tendenza ad uniformare tutto. A Venezia è tutto amplificato, è un osservatorio di analisi perfetto. Nella sezione Giudecca stories c’è il capitolo “rifondazione comunista”: bene, quel luogo non esiste più, e non per colpa dei locatari. I bambini che giocano a calcio nei campielli come 50anni fa usando le maglie a terra per segnare le porte, i ragazzi che escono di casa e si tuffano dai ponti nei canali (vietato), mestieri che esistono solo li ecc ecc.; il tutto ha la sensazione di precarietà; quell’isola è un luogo dove la qualità della vita è ottima ed è lontana dai grossi flussi turistici che purtroppo rompono molti equilibri; dove è arrivato il turismo in maniera massiccia è cambiata la connotazione del luogo. Turismo si ma con criterio.


Nel tuo repertorio a me pare di vedere una cosa al centro, più di tutto: l’umanità; tu hai comunque suddiviso il tuo lavoro in sezioni; alcune sono distinte per genere fotografia (ad es. Reportage, Portrait, Street); altre invece per argomento: “Circus”, piuttosto che “Giudecca stories”. Per quale ragione? Sentivi non trovassero una collocazione in una delle precedenti sezioni?
Al centro della mia visione fotografica c’è l’essere umano, in tutti i suoi aspetti.
Quando esco appositamente per fotografare o quando sono in giro e mi capita di cogliere qualche spunto, non ho la minima idea di cosa incontrerò e cosa attirerà la mia attenzione. Posso infilarmi dentro una bottega artigianale, trovare un bambino che salta a corda, ecc. ecc. Con il tempo il materiale raccolto è tanto e quindi ho pensato che una volta raggiunto un numero di scatti sufficienti di una certa tipologia, questa poteva essere una storia a sé. Ad esempio nei periodi estivi mi son trovato a percorrere varie volte tragitti con il Ferry boat, mi son trovato del materiale che ho considerato valido ed ho pensato che potesse essere un racconto a sé, così come con i camerieri, cani e padroni.. ecc ecc.








Nelle diverse sezioni del tuo sito non abbondi come numero di fotografie per ognuna, dando il senso del tuo lavoro con pochi tratti. Si tratta di progetti conclusi o “on going”?
La mia vita il mio modo di vedere è “on going”. Il sito è semplicemente un luogo che io considero un biglietto da visita. È stata una scelta, mi sono imposto di non superare il centinaio di immagini. Capisco pienamente che a volte osservando attentamente sembrano lavori incompleti ma è un pochino quello che voglio, perché in parte lo sono e perché il troppo, a volte, temo stanchi.
Le fotografie dei tuoi lavori hanno prediletto la grammatica del bianco e nero, per quale ragione è nelle tue corde? Escludi nel futuro l’idea della fotografia a colori?
Il colore non è escluso dalla mia visione, ma temo che ormai la mia mente lo abbia relegato ad un ruolo di gregario rispetto al bianco e nero.
Ho un concetto di colore particolare, immagino una fotografia a colori con pochi elementi e pochi colori, cose difficili da realizzare e trovare, anche se appena mi capitano tento di realizzarne.
Ho da sempre stampato da solo sia il colore che il BW. Disponevo di una camera oscura grande e ben dotata, con due ingranditori sviluppatrici per negativi e carta, ma nonostante ciò mi sono sempre considerato uno stampatore mediocre. Con l’avvento del digitale ho trasformato la camera oscura in camera chiara ed ho iniziato a stampare da subito sulle baritate e/o c rag con una discreta soddisfazione personale.
Come hai vissuto il passaggio da analogico a digitale?
Nel passaggio fui avvantaggiato perché le mie conoscenze informatiche mi hanno aiutato. Era da tempo che digitalizzavo negativi e positivi con scanner. Inizialmente fui molto scettico sul successo e la rapida diffusione del sistema digitale, ero legato alle mie Hasselblad, Zeiss ecc ecc,. Poi affiancai la mia prima 6mp in una sessione, era la prima Dsrl “economica” sul mercato e non uscì più dalla borsa.
Quanto è importante lo strumento fotocamera per ottenere un’immagine buona, a parere tuo?
La fotocamera è uno strumento importantissimo, il feeling che si deve instaurare è tale che la stessa deve scomparire quando si fotografa. Anche se è ormai una banalità dirlo, la fotocamera tuttavia è solo uno strumento. Oltre alla fotocamera ritengo fondamentale anche trovare un’ottica, sempre quella, che rappresenti il tuo modo di vedere. Quell’ottica per me è il 24 1,4, che è la vera costante anche cambiando brand.
Entriamo nel dettaglio di alcuni dei tuoi lavori. Vuoi raccontarci qualcosa in merito a “Giudecca Stories“?
È una sezione dove cerco di mettere in evidenza alcuni aspetti che purtroppo rischiano di avere le ore contate, ma che è giusto vengano fissate da qualche parte per non essere cancellate dalla memoria. Non punto quasi mai all’aspetto storico dell’immagine ma a quello artistico, spesso i due fattori sono divisi da una sottile linea e tu spesso devi scegliere dove collocare la tua fotografia, devi a volte previlegiare uno dei due fattori.
In questi luoghi in questa isola quella sottilissima linea di separazione non c’è, tutti gli aspetti sono fusi.
Se vai a cercare fisicamente quei luoghi che io ho descritto in quella sezione già non li trovi più, sono già diventati qualcos’altro. Non possiamo sapere dove andremo se non sappiamo chi siamo e soprattutto chi siamo stati.



“Dogs”; non si può non pensare alle fotografie di Elliott Erwitt, che li ha messi al centro di molto suo lavoro. Anche nel tuo lavoro, come in quello di Erwitt, in realtà mi pare che queste fotografie, ancora una volta, raccontino l’umanità. Lo fanno attraverso uno dei rapporti più belli, quelli con il cane. Cosa ne pensi?
Amo Erwitt, e penso che la sua fotografia sia fortunatamente irraggiungibile. La mia storia con gli animali o meglio con i cani è alquanto buffa: li sopportavo poco. Sopportavo poco quando mi correvano incontro, quando volevano giocare, sbuffavo al fatto che a volte vincolassero gli amici nella libertà ecc. ecc.
Non volevo assolutamente male a nessun animale ma c’era qualcosa che non capivo che mi allontanava, e questo mio sentire mi creava disagio. Poi mi ricordai di una frase di mia madre che mi ricordò che fui morso da bambino e che probabilmente la cosa da qualche parte nel mio inconscio era registrata. Poco dopo nella mia famiglia entrò un barboncino, che mi aiutò a vedere il rapporto uomo-animale in maniera diversa. Da quel momento il rapporto uomo/cane/ animale è entrato nella mia visione di street e nelle cose che vanno raccontate perché sono da sempre molto importanti ed hanno una funzione sociale notevole poiché dialogano con le nostre emozioni.



A parte qualcuno, i tuoi ritratti sono tutti ambientati. È una dimensione che ritieni più funzionale al tuo modo di intendere il ritratto? Perchè?
Per molti anni ho fatto in maniera professionale la ritrattistica classica e soprattutto di wedding, cioè ho praticato, ma senza sforzo, l’esercizio di cogliere il lato assolutamente migliore in una persona, perché questo è quello che ti richiedono. Quindi ho cercato di praticare per anni l’esercizio del bello, ma questo non mi è costato fatica era ed è nel mio Dna. Ora ho voluto rompere con quella pratica che comunque mi ha dato soddisfazioni, o meglio è stato un processo naturale di metamorfosi. Dopo anni ed anni di foto in ville, castelli dimore storiche e pure qualche trattoria, dove le persone ci andavano un giorno nella loro vita per farsi fotografare, voglio fotografare anche le persone dove realmente vivono, la loro quotidianità. Il ritratto ambientato ha il compito fondere l’elemento umano in un contesto che lo descrive, anche se le due cose a volte sono in contrasto tra loro.


Quali fotografi hanno ispirato la tua formazione?
Moltissimi fotografi mi hanno dato molto con le loro opere. I nomi sono quelli conosciuti a livello mondiale, da Elliott Erwitt a Werner Bischof, Sebastiao Salgado e Gary Winogrand il grande Henri Cartier Bresson, Gianni Berengo Gardin, Ferdinando Scianna. e moltissimi altri, tutti grandi Maestri. L’errore più grosso è imitarli, con la loro opera devono solo indicarci il nostro personale percorso, renderci consapevoli della nostra identità da trasmettere attraverso ciò che produciamo. Voglio ricordare anche Man Ray non tanto per le opere prodotte ma per la sua corrente di ispirazione: il surrealismo. Il manifesto del surrealismo redatto da Breton è un buono spunto di lavoro per un artista. Le mie fonti di ispirazione non si esauriscono con la fotografia; sono una persona che pratica tecniche meditative, legge libri di culture diverse, guarda film di autori perlopiù sconosciuti o che non hanno successo in occidente ed il tutto mi apre la mente. Non è facile, abbiamo una mente costruita e bombardata continuamente per andare in un’unica direzione, che spesso è in conflitto con una visione artistica, la creatività è in opposizione alla mente razionale.
Lottare contro i nostri ostacoli interiori che non ci permettono di vedere il mondo che ci circonda è per me certamente l’esercizio migliore, più che quello di seguire i grandi maestri.
Qual è il tuo lavoro cui sei più affezionato e quale quello che per te è stato più difficile da realizzare?
Devo, per forza di cose, escludere dalla risposta quanto mi veniva commissionato professionalmente, troppo pignolo quindi la lista sarebbe lunga. Comunque le realizzazioni più difficoltose le ho avuto solo con persone che “dovevano” farsi fotografare e non con quelle che “volevano” farsi fotografare.
Nei progetti personali mi capita l’opposto, quindi nella libertà di espressione trovo il mio habitat ideale per cui non c’è difficoltà, ma solo divertimento, gioia, ed appagamento.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro, fotograficamente parlando?
Ho sempre il mio box di 2km quadrati che è pieno di sorprese, di novità e di personaggi; questo micro mondo mi appaga. Sono tuttavia aperto a mille altre possibilità, tempo permettendo, quindi non escludo di affrontare qualche altro tema, oltre ai capitoli sempre aperti ad esempio come il circo ed artisti di strada.
Roberto Bottazzo: il suo sito.
Luisa Raimondi