Mentre in Italia si muovono i primi timidi passi verso la normalità post pandemia, e si studiano modalità e regole per permettere alle persone di poter tornare a visitare mostre, il Moma di New York annuncia, con le parole del direttore Glenn Lowry, severe misure di intervento alla propria struttura organizzativa. Il 17% dello staff verrà licenziato ed il budget per mostre e progetti sarà tagliato di ben di 45 milioni di dollari.
Lo stesso direttore indica il mese di Settembre come possibile data di riapertura, ma è chiaro a tutti che le mostre non avranno più le stesse forme che conosciamo, per evidenti motivi di sicurezza. Ingressi contingentati e a tempo limitato, percorsi obbligati, minor numero di opere, limite di testi e didascalie che creino assembramento di persone, sanificazioni probabilmente aggressive per le opere. Anche le tariffe potrebbero subire dei rincari a fronte di maggiori spese richieste dalle strutture per adempire le normative di sicurezza. Tutte condizioni che vincolano la libertà di fruizione degli spazi museali.
Durante il periodo chiusura, una delle prime attività messe in atto dalla macchina organizzativa del Moma è stata quella di offrire ai propri utenti la possibilità di continuare a visitare, in modo virtuale le esposizioni temporaneamente sospese a causa dell’emergenza sanitaria. Questo per cercare di addolcire, almeno un poco, l’amarissima pillola del lock-down, e dare un minimo segnale di vitalità e vicinanza.
Fra queste mostre temporanee vi è la prima grande esibizione personale al Moma dedicata a Dorothea Lange: Words & Pictures, inizialmente programmata fino al 9 maggio 2020 ma tuttora visitabile sul sito del museo.
Il titolo della mostra nasce da una dichiarazione che la stessa Lange rilasciò verso la fine della sua vita: “Tutte le fotografie, non solo quelle cosiddette ‘documentarie’, possono essere fortificate dalle parole“.

La mostra raccoglie circa 100 fotografie interamente tratte dalla collezione del museo, oltre a materiali d’archivio come lettere, pubblicazioni, articoli di giornale e racconti, scelti per analizzare il modo in cui le parole influenzano la comprensione delle immagini della fotografa americana, relazione che in passato ha ricevuto scarsa considerazione ed attenzione.
L’esposizione alterna vere e proprie icone a fotografie meno conosciute allo scopo di tracciare i complessi rapporti fra immagini e parole: dalle prime critiche rivolte alla Lange ai suoi servizi pubblicati sulla rivista LIFE, passando dal famoso An American Exodus, arrivando all’analisi del sistema giudiziario degli Stati Uniti.

Inoltre la mostra include le innovative fotografie degli anni Trenta, tra cui la famosa Migrant Mother del 1936, che ha contribuito in modo decisivo alla divulgazione mondiale del grave stato di indigenza degli agricoltori, delle famiglie sfollate e dei lavoratori migranti durante la Grande Depressione americana (abbiamo scritto della Lange in questo articolo). Durante questo periodo, a fianco delle fotografie, la Lange scrisse diversi appunti che hanno costituito la spina dorsale dei rapporti governativi dell’epoca.

Le didascalie che la Lange diede alle proprie fotografie, rivelano la sua dedizione a condividere le esperienze e le voci delle persone che ha ritratto. L’impegno della fotografa americana per la giustizia sociale e la sua estrema fiducia nel potere comunicativo della fotografia, sono rimasti una costante per tutta la sua vita, anche quando le sue idee non furono affini a quelle di coloro che commissionarono il lavoro.

Attraverso la felice commistione tra fotografia e parole, Dorothea Lange ha trasmesso le vicende della vita quotidiana rivolgendo uno sguardo compassionevole alla condizione umana. Proprio questa caratteristica ha esortato i fotografi a riconnettersi con il mondo reale, a rivedere l’etica del proprio lavoro, allo scopo di porre l’estetica al servizio della fotografia sociale e documentaria, di utilità all’umanità.

Lo sottolinea molto bene anche la curatrice Sarah Meister: “La sua preoccupazione per i meno fortunati e il suo impegno nell’usare la fotografia (e le parole) per affrontare queste ingiustizie, incoraggia ciascuno di noi a riflettere sulle proprie responsabilità civiche. Ci ricorda l’unico ruolo che l’arte – e in particolare la fotografia – può svolgere nell’immaginare una società più giusta“.

Passando alla visita virtuale, raggiungibile al seguente collegamento, risultano da subito evidenti gli impegni del museo volti ad offrire una completezza e una varietà di contenuti. Il corpus principale ruota intorno alla pagina di presentazione dedicata alla mostra, dove trova spazio la ricostruzione del percorso espositivo con la possibilità di visualizzare 28 delle 100 fotografie presenti e relative didascalie e di muoversi tra le sale.

Ad integrazione troviamo audio guide (con trascrizione del testo per favorirne la traduzione), testi e saggi, ed un corposo catalogo, reso disponibile in anteprima gratuita, accompagnato dai contributi di scrittori, artisti e critici del calibro di Julie Ault, Kimberly Juanita Brown, River Encalada Bullock, Sam Contis, Jennifer A. Greenhill, Lauren Kroiz, Sandra S. Phillips, Wendy Red Star, Christina Sharpe, Robert Slifkin, Rebecca Solnit e Tess Taylor.

Di sicuro interesse la presenza di interviste in diretta ad addetti i lavori, che concorrono a generare un nuovo modo di intendere l’esperienza, e che mano a mano vanno ad approfondire la nostra visita iniziale. Testi e interventi vengono rilasciati periodicamente in tutto l’arco di apertura, e stimolano a tornare nello spazio virtuale per alimentare il dibattito e le riflessioni. In questo modo una mostra rallenta il suo naturale decorso e rimane viva fino al suo termine.

Da segnalare, in particolare, l’interessante diretta tra la curatrice Sarah Meister e la fotografa Sally Mann. Partendo da una citazione di Francis Bacon e mettendo in relazione alcune fotografie della Mann e della Lange, si articola una discussione che evidenzia il legame indissolubile fra parole e fotografie.

La visita scorre in comodità, silenzio e solitudine, cosa raramente possibile in un museo reale, ed i tempi sono scanditi con il comando di un click sulla tastiera; il consiglio che resta valido, è quello di spegnere il cellulare ed evitare distrazioni. Le mancanze più grandi sono quelle di non avere una guida e, per i più feticisti, non avere la possibilità di custodire un biglietto di ingresso in memoria dell’evento.
Ferme restando l’importanza e l’unicità di una esperienza diretta che solo una visita dal vivo può restituire, risulta chiaro che questa proposta sia da intendersi integrativa e non sostitutiva. Ma quella che oggi rimane l’unica possibilità di visita, domani potrebbe diventare una consuetudine anche per altri musei, la tecnologia potrebbe avvicinare nuovi utenti oltre a fornire degli strumenti didattici sempre disponibili per accedere al lavoro dei fotografi.
Mirko Bonfanti