“A Robert Frank adesso mando questo messaggio: tu sai vedere.” Jack Kerouac scrive nel 1958 una delle introduzioni più belle che siano mai state scritte per un libro fotografico. La scrive per “Gli Americani”, opera assoluta di Robert Frank (1924-2019), che segnò l’avvio della rivoluzione del genere del reportage, della narrazione degli Stati Uniti, del diritto del fotografo di cantare una nazione attraverso lo sguardo. Kerouac traccia in una frase la cesura che ogni fotografo è costretto – o dovrebbe essere costretto – a vivere: è una frase-taglio (di Fontana) che squarcia il tessuto dell’occhio, come fa Buñuel. Sì, perché trasportare l’atto della visione dal terreno della dote connaturata a quello del talento e dell’abilità, significa dire che anche la natura può essere valutata sulla scala del merito. Tutti gli uomini vedono – la vista è anzi il senso più stimolato e a cui l’uomo fa più affidamento, oramai, per vivere – ma non tutti gli uomini sanno vedere, ovvero riescono a educare la vista per scorgere nella realtà i suoi significati latenti. Questo ci dice Jack Kerouac. “Chi non ama queste immagini, non ama la poesia, capito?” scrive ancora, con l’accanimento di chi ha capito cos’ha di fronte, di chi ha visto nella grana delle immagini il loro senso reale, ben oltre il fatto evidente che dimostrano, nel loro versificare gli eventi.
L’immagine fotografica potremmo dire che, nell’ordine: documenta, segnala, mostra, testimonia, fa vedere, indica, svela, rivela, fissa, condanna, assolve, comprende, isola, frammenta, racchiude una parte di mondo, quella parte di mondo che capiamo contenere celato un messaggio, qualcosa che è lì, nascosto, pronto a essere detto, a essere detto a noi che lo intuiamo per la prima volta. Il significato del mondo nasce con noi, nel momento in cui gli siamo di fronte e soggiaciamo alle sue regole, ne aspettiamo la voce. Uno dei paradossi incredibili della fotografia è che le rivelazioni avvengono secondo le ferree leggi dell’ottica: in verità, soprattutto noi occidentali, siamo abituati a raccontare in scorci perfettamente prospettici i miracoli dei testamenti almeno dal XV secolo (sorvolando sul fatto che già in età ellenica e pompeiana la prospettiva era calcolata e conosciuta, si vedano i mosaici, appunto di Pompei), dal Brunelleschi in avanti, col Sassetta, con Piero della Francesca, con Masaccio, eccetera eccetera. La prospettiva segna una svolta nel mondo iconografico occidentale, là dove l’Umanesimo aveva iniziato a rendere la nostra realtà il luogo concreto dove ambientare le parabole di Cristo e la vita dei profeti. Da Giotto a Masaccio, diciamo qui troppo sommariamente, l’uomo diventa uomo davvero umano, la realtà inizia a seguire le leggi della visione, diventa prospettica, dunque un ambiente in cui l’uomo può sempre più orientarsi e riconoscersi. Avviene “il tramonto definitivo della pittura simbolica; sulla superficie dipinta sarà ormai rappresentata la realtà degli uomini e delle cose.”1 Le architetture oniriche degli Scrovegni lasciano spazio a quella salda del Pagamento del tributo della Cappella Brancacci, e anche ciò che nasce come simbolo – ora arriviamo al punto – lo vediamo diventare oggetto reale.

Uno dei passaggi più significativi in questo senso è un dettaglio che viene spesso trascurato e mai inserito nella narrazione della nascita dello sguardo fotografico, ovvero dello sguardo pronto a riconoscere nel mondo visibile senso e significato. Il fatto che ad un certo punto si iniziò a scorciare prospetticamente l’aureola è un fatto significativo per questo discorso. Il primo a farlo fu, credo, Masaccio, con la Maestà del 1426 realizzata per la Chiesa del Carmine di Pisa. Il passaggio non fu cosa di poco conto, a ben pensarci: dalla perfezione del cerchio pieno e dorato, immutabile nonostante i movimenti del santo, indefettibile come lo è la santità, e aliena dal mondo terreno, il simbolo viene trasportato sul piano del reale, facendo seguire a mo’ di copricapo le inclinazioni della testa, piegando cioè l’aureola alle esigenze fisiche del soggetto. Rendere prospetticamente l’aureola significa poterla vedere, significa renderla – in quanto elemento a questo punto in tutto soggetto alle regole della visione umana – fotografabile. L’uomo ha così reso alla portata del suo occhio ciò che viveva in un mondo separato, provocando un’inversione vettoriale: se lo spazio reale, nella pittura, diventa spazio simbolico, l’aureola è un elemento che, nato simbolo, diventa oggetto reale.
Questa trasformazione non toccò tutto il mondo della rappresentazione, anzi. Nello stesso periodo storico, l’iconografia bizantina ha tardato ad accogliere le regole prospettiche, sia per la resa degli spazi, sia per quella simbolica dell’aureola, rimasta un cerchio perfetto posto dietro il capo del santo. I motivi di questa sostanziale indifferenza sono rintracciabili nella natura sacrale dell’icona stessa: l’icona è superficie divina, carica di significato di fede, ritenuta capace addirittura di miracoli e prodigi: il suo contenuto iconografico è emanazione diretta di quel mondo santo a cui l’uomo si rivolge in preghiera senza poterlo comprendere. La cornice stessa dell’icona non è solo strumento perimetrale per il confinamento e il trasporto dell’immagine, bensì il limite che separa il mondo terreno da quello divino. Nulla di ciò che si vede raffigurato nell’icona è davvero alla portata dell’occhio umano, né ambisce a esserlo: l’icona vive nella tensione che separa l’uomo da Dio.

Pavel Florenskij scriveva infatti: “Se soltanto si riescono a dimenticare anche per un istante le esigenze formali della prospettiva, il senso estetico immediato di ciascuno di noi sarà indotto a riconoscere la superiorità delle icone che violano le sue leggi.”2 La pittura occidentale ha voluto invece accorciare le distanze, quasi annullarle, e ci ha provato in modo ardito nel modo che abbiamo visto, rendendo anche il simbolo oggetto fisico, e materia terrena, quindi, la santità. Perché vedere in questo punto della storia della pittura un nodo importante anche per la storia della fotografia? Dentro una simile trasformazione sembra esserci un’esigenza di comprendere il mondo e tutti i misteri che l’uomo da esso ha formulato secondo regole prevedibili.
Quattro secoli dopo la Maestà di Masaccio l’epoca positivista, industriale, tecnica, conclude il percorso di scoperte tecnico-chimiche che portano alla nascita della fotografia. La sua scoperta, com’è noto, affonda le proprie radici nella camera obscura del XV secolo, già teorizzata da Leonardo da Vinci e utilizzata per la rappresentazione mimetica (potremmo già dire fotografica) della realtà. Dal brevetto ufficiale del dagherrotipo (1839) tutto il mondo diventa la propria rappresentazione specchiata e riprodotta. Dio muore come valore e come sentimento (Nietzsche), i simboli sono solo più rintracciabili nelle metafore generate dalle cose visibili, la realtà parla per se stessa, le cose accadono e iniziano a essere accumulate dalla nuova borghesia e hanno bisogno che qualcuno ne attesti il valore: il fotografo nasce per assecondare lo spirito del suo tempo.
Robert Frank, che vive nel suo tempo, allora, fa proprio questo, Kerouac se n’era accorto bene: vede, sa cioè scorgere ciò che possiede un senso dentro i limiti di quello che ci è concesso vedere, racconta il segreto che lo avvolge di una nazione che non conosce. Il mistero, con la fotografia, diventa quello dell’uomo, dell’uomo di fronte all’uomo, alle strade e le pompe di benzina, “alle bare e i jukebox” che incrocia sul cammino. I demoni, “confusi”, li troviamo in ascensore, ombre mosse dal tempo lento, e possiamo essere noi. Non c’è bisogno di santificare più niente e nessuno, adesso, perché tutto lo è: si rilegga l’’Urlo” di Allen Ginsberg (1955), fratello d’anima di Kerouac (e citato nella sua introduzione a “Gli Americani”) nella grande famiglia dispersa della generazione Beat. Non so se la fotografia sia il frutto dell’inaridirsi del sentimento di fede della società occidentale, o se allo stesso tempo sia il giusto mezzo col quale si può ancora riuscire a santificare tutto ciò che ci tocca e ci circonda, e se questo è bene o male, non lo so.
Credo però che quello che intendesse Kerouac dicendo a Robert Frank “tu sai vedere”, sia la capacità rara di vedere l’aureola scomparsa dalla rappresentazione, e che fluttua invece su ogni cosa, l’aureola invisibile in questo mondo anche se nei secoli ci avevano fatto credere il contrario. “Ogni cosa è santa, tutti quanti sono santi […] ogni uomo è un angelo” scrive Ginsberg. Se così, non c’è bisogno di mostrare nessuna aureola perché a tutti spetterebbe e sarebbe allora un caos rappresentarle tutte. Rimangano invisibili.
Carola Allemandi
Note