Siamo vicini alla data di scadenza?

Abbiamo chiesto a Enzo Dal Verme, fotografo ritrattista con una lunga esperienza nell’editoria, di raccontarci come ha vissuto le trasformazioni nel mondo della fotografia professionale negli ultimi due decenni. Ecco cosa ha scritto per Discorsi Fotografici.

“Questo serpente è vero?”, chiede Harrison Ford a Zhora in Blade Runner.

La replicante/spogliarellista risponde. “Certo che no. Lavorerei in un posto come questo se potessi permettermi un serpente vero?”

Il pubblico è disorientato perché quel pitone… sembra proprio vero.  

Il film è stato girato nel 1982 ed è ambientato nel 2019. Ora, quattro anni più tardi, non sembra che gli animoid contemplati da Ridley Scott (i robot che replicano gli animali) siano molto presenti nelle nostre vite. Invece la “Esper machine” con la quale viene esaminata una stampa fotografica, ricorda una schermata di Photoshop (che nell’82 non esisteva ancora).

È interessante riguardare indietro nel tempo come era stato immaginato il futuro che stiamo vivendo ora. Chissà, forse presto Photoshop ci permetterà di esplorare dietro gli oggetti fotografati come fa il protagonista di Blade Runner.

C’è una cosa, però, che Ridley Scott non aveva previsto: fotografie che sembrano vere – proprio come il pitone di Zhora – ma che… non sono mai state scattate.

Mentre sto scrivendo questo articolo hanno appena reso disponibile Midjourney 5 e sui social si moltiplicano immagini sempre più realiste: alcune sembrano fotografie, ma sono state generate dall’Intelligenza Artificiale e documentano una realtà mai esistita.

L’impatto delle nuove tecnologie sul mercato si avverte già da un po’, alcune agenzie di stock hanno cominciato a vendere immagini generate dalla IA e c’è anche chi riesce a fare tutto in autonomia.

Leggo su Facebook, per esempio, il post del proprietario di una azienda che produce borse. Aveva cominciato ad utilizzare Midjourney per trovare nuove idee che avrebbe poi usato come referenze per fare scattare degli still-life. I risultati sono stati così soddisfacenti che ha deciso di utilizzare direttamente quelle immagini per le sue campagne: illuminazione perfetta, ambientazione ideale, nessun fotografo da pagare e neppure stylist, location, luci, oggetti di scena… Le sue borse sono presentate al meglio.

Considerando che le immagini generate dalla Intelligenza Artificiale continueranno a migliorare, dobbiamo abituarci all’idea che la fotografia commerciale sarà sempre di più orientata in quella direzione.

Stiamo vivendo un punto di svolta molto importante nella nostra civiltà perché l’Intelligenza Artificiale è e sarà sempre più presente in tutti i settori. Per quanto riguarda la fotografia, sembra che le immagini che documentano la realtà abbiano più possibilità di sopravvivenza, ma è tutta un’incognita. Per esempio, sono appena state presentate delle nuove applicazioni nelle quali puoi caricare una foto qualsiasi della tua faccia e generano una serie di ritratti (casual / elegante / formale / professionale…) che puoi usare per i tuoi profili social, la pubblicità della tua attività, la tua campagna elettorale o per quello che più ti piace. Con $17, Trytonai ti consegnerà 100 tuoi ritratti in 10-24 ore, Headshotpro accorcia i tempi e pagando $29 in 2 ore ottieni 120 ritratti. Perché pagare un fotografo?

C’è anche Deep Agency che per $29 al mese ti consente di creare un duplicato di te (o di altri) e generare immagini nella posizione desiderata e nell’ambiente che scegli: nel deserto, in una metropoli, nella giungla… Cosa preferisci? Naturalmente con l’abito e i capelli che vuoi. Oppure, puoi “fotografare” delle modelle o dei modelli come ti pare.

Non ho ancora visto una applicazione che prometta di realizzare servizi di matrimoni oppure foto ricordo di viaggi mai fatti, ma credo che sia una questione di settimane. Forse di giorni. E, comunque, è già possibile farlo.

Se la novità ci incuriosisce, pensiamo anche a che cosa implica il fatto di potere creare un numero infinito di immagini – per esempio selfie di viaggio – che documentano una realtà mai esistita. Le discussioni di qualche anno fa sull’opportunità di usare o meno dei filtri nelle fotografie per i social, oggi sembrano disquisizioni innocenti.

Viviamo in una società altamente narcisista e i confini tra realtà e finzione sembrano destinati a diventare sempre più labili. Il fenomeno non si limita alla creazione di “fotografie” che mostrano una parte idealizzata di chi le realizza, ma si estende alla realtà collettiva. I progressi tecnologici hanno già da tempo favorito la diffusione di notizie false e la questione non è di facile soluzione. Eppure, non si tratta che della ciliegina sulla torta e la tecnologia non è che una delle cause. Il fotogiornalismo già da tempo ha dovuto affrontare delle grandi svolte che lo hanno cambiato per sempre. Anche se adesso sembrano eventi lontani, sono profondamente legati a ciò che stiamo vivendo.

Neil Burgess è curatore, editore e agente. Ha rappresentato alcuni dei più importanti fotografi del mondo, tra cui Sebastiao Salgado e Annie Leibovitz. È stato il capo della Magnum Photos di New York e due volte presidente della giuria internazionale del World Press Photo Contest. Per dire: un po’ ci capisce di fotografia.

Nel 2010 proclamò, di fatto, la morte del fotogiornalismo: “Credo che sia doveroso nei confronti dei nostri figli dire loro che la professione di ‘fotoreporter’ non esiste più. Ci sono migliaia di poveri disgraziati, che si creano debiti enormi sperando di laurearsi e di ottenere un lavoro per il quale nessuno è più disposto a pagare”.

Erano parole esagerate? Purtroppo erano realiste.

Poco tempo dopo, Jim Pickerell – fotografo di Life Magazine – pubblicò su Black Star Rising un articolo controverso dal titolo: “Mi dispiace, studenti di fotografia, ma è ora di trovare qualcos’altro da fare”. Tra le altre cose, affermava: “Mi rattrista che le scuole di fotografia stiano preparando gli studenti per un hobby, non per una carriera”.

Io, all’epoca, avevo già girato il mondo in lungo e in largo documentando storie che pubblicavo principalmente in Italia. Non mi consideravo un fotogiornalista, piuttosto un manovale dell’informazione: trovavo degli argomenti interessanti, li fotografavo e scrivevo degli articoli. Spesso si trattava di ritratti e interviste, ma non solo. Questi pacchetti tutto compreso erano molto apprezzati dai giornali per i quali lavoravo che all’inizio mi pagavano molto bene, poi sempre di meno fino al punto in cui pubblicare è diventato raramente redditizio.

Oggi parlo con le nuove leve che non hanno mai conosciuto il modo di lavorare che mi ha formato e sono pieno di ammirazione nei loro confronti che riescono comunque a fare dei lavori molto interessanti. Dunque il fotogiornalismo non è proprio del tutto morto come diceva Neil Burgess, però è molto, molto cambiato. Adesso è normale cercare prima di tutto uno sponsor, per esempio una ONG, che ti garantisca un minimo per coprire le spese e ti dia la possibilità di realizzare le tue foto che saranno anche pubblicate su qualche rivista o presentate ad un concorso. Il che, come si può immaginare, può essere piuttosto limitante.

A rischio di sembrare nostalgico, voglio fare un passo indietro nel tempo e raccontare come si lavorava prima che Neil Burgess dichiarasse la morte del fotogiornalismo.

Poco più di vent’anni fa, chiusi la mia agenzia di comunicazione e decisi di mettere a frutto la mia esperienza proponendomi come fotografo per l’editoria. Credo di dovere il successo che ho poi avuto alla mia ingenuità. Mi presentavo alle redazioni senza neanche un portfolio ma con qualche stampa fotografica, spiegavo pieno d’entusiasmo le foto che mi sarebbe piaciuto scattare, le storie che avevo per le mani, le persone che avrei potuto ritrarre. Ero così ruspante e fuori dagli schemi che rimanevano tutti sconcertati. Credo che i direttori che ho incontrato abbiano pensato: “Questo qua è un po’ matto, fa delle foto strane, vediamo cosa combina”. E così mi hanno dato i primi lavori. I risultati sono piaciuti, sono piaciuti molto e nel giro di pochissimo ho aumentato il numero dei miei clienti e ho cominciato a girare per il mondo scattando reportage e ritratti. Poi è arrivata anche la moda. Non si trattava più dell’opulenza degli anni ’80 e ’90 che aveva permesso a tanti fotografi di sperimentare molto perché i clienti volevano immagini innovative ed erano disposti a spendere parecchio. Tuttavia, si trattava ancora di creare immagini aspirazionali, cioè immagini che descrivessero le atmosfere di un mondo esclusivo e speciale. La promessa implicita era: comprando questo capo di abbigliamento apparterai anche tu alla elite che vedi nelle fotografie.

Scattare quei servizi non era troppo nelle mie corde, ma era divertente. Poi – senza che ce ne rendessimo veramente conto – è iniziato un processo irreversibile che ha cambiato per sempre l’orientamento nella fotografia di moda. Internet ha dato la possibilità alle aziende di raggiungere il pubblico in un modo diverso e vendere persino i capi delle collezioni vecchie rimasti in magazzino.

Se prima ai fotografi era richiesto di scattare foto aspirazionali che facessero venire voglia al pubblico di visitare i negozi, provarsi gli abiti protagonisti di quelle storie affascinanti ed acquistarli, a poco a poco le foto più richieste sono diventate quelle descrittive, cioè quelle che devono fare vedere bene il capo e dalle quali si può capire la consistenza del tessuto e decidere di acquistare qualcosa anche senza provarlo. Oggi si scattano ancora foto aspirazionali, ma molto poche e la maggior parte di immagini che la moda richiede sono descrittive. Cambiando la distribuzione, sono cambiate le esigenze ed ai fotografi è venuto (quasi) a mancare un committente importantissimo. A partire più o meno dal 2010, nelle redazioni sempre più decimate di riviste sempre più sottili, la frenesia di realizzare servizi di moda in giro per il mondo con fotografi innovatori e creativi è stata gradualmente sostituita dall’esigenza di realizzare foto rassicuranti che costassero poco. Oggi tante riviste hanno chiuso.

Ma torniamo ancora indietro nel tempo, negli anni nei quali l’editoria non era così in crisi e internet non aveva ancora rivoluzionato del tutto tanti aspetti della nostra società. Che si trattasse di foto di moda, di ritratti o di reportage, una parte molto importante del mio lavoro era il confronto con la redazione. Dal momento che io fotografavo e scrivevo (e lo faccio ancora), dovevo coordinarmi con più figure professionali. In genere, il direttore si assicurava che io capissi le esigenze del giornale, discuteva con me le nuove idee e mi faceva partecipe dei numeri in programma. Con il vice-direttore o il capo-redattore si affrontavano temi più pratici: quante pagine, il taglio, che cosa enfatizzare nei testi… L’art-director e i grafici avevano delle richieste sulle immagini: ricordati – se c’è tempo – di fare una foto verticale e una orizzontale delle situazioni più importanti, quando inquadri lascia lo spazio per eventuali didascalie e titoli, porta sempre più proposte per l’apertura, eccetera…

Le mie visite alle redazioni e i continui confronti con i professionisti eccezionali con i quali ho avuto la fortuna di lavorare, sono stati una scuola impareggiabile. Quando consegnavo i miei articoli, a volte mi facevano notare che avrei dovuto usare una struttura diversa, oppure aggiungere un esempio, accorciare un virgolettato e via discorrendo. Ho dovuto riscrivere dei pezzi, imparare a rispettare il taglio editoriale delle testate sulle quali pubblicavo, ascoltare ogni commento spietato e farne tesoro.

Per i reportage, in genere proponevo delle storie da scattare in giro per il mondo, i direttori accettavano e io partivo. Il mio lavoro cominciava molto prima di raggiungere la destinazione, mentre ero ancora a Milano o a Parigi (che per 15 anni è stata la mia seconda base) o impegnato a scattare in qualche angolo del pianeta. Prima di tutto cercavo dei contatti locali e mi documentavo molto bene sull’argomento che avrei dovuto fotografare. In questo modo, poi, riuscivo ad ottimizzare i tempi.

Verso il 2008 si è cominciato a parlare di citizen journalism e sono nate delle piattaforme per raccogliere materiale prodotto da non professionisti destinato alla pubblicazione. Alcune sono state veramente deleterie e promettevano “potresti vedere le tue foto pubblicate!” ad amatori felici di regalare i propri scatti (con conseguenze facilmente immaginabili). Altre hanno comunque contribuito alla virata del mercato, ma lo hanno fatto offrendo anche dei nuovi strumenti a professionisti come me. È il caso di Demotix che nel 2008 è apparsa in Beta come una ventata fresca nel panorama agonizzante del fotogiornalismo. Su Demotix potevamo caricare i nostri servizi ed arrivare alle redazioni di tutto il mondo in un batter d’occhio. A me era servito a vendere a clienti che non avrei mai raggiunto da solo. Ma sulla piattaforma non c’erano solo professionisti, c’erano anche – per esempio – dimostranti che nel bel mezzo di qualche rivoluzione, tra una molotov e l’altra, trovavano il tempo di scattare delle foto con il telefono e mandarla in tempo reale agli uffici di Demotix a Londra. Testate importanti come il New York Times che fino a quel momento dovevano pagare il viaggio ad un giornalista e ad un fotografo, pagare un fixer locale e tutte le altre spese, si sono trovati di colpo con la possibilità di acquistare per pochi dollari delle immagini scattate da postazioni che, probabilmente, i loro fotografi non sarebbero neanche riusciti a raggiungere. Fortunatamente, Demotix era gestita da professionisti in grado di garantire la qualità dei servizi proposti e il loro contributo al fotogiornalismo di quegli anni è stato importantissimo. Con l’acquisizione della piattaforma da parte di Corbis nel 2012 iniziò il declino di Demotix, la successiva cessione a Visual China Group e Getty nel 2016 ne sancì la scomparsa.

A parte Demotix e le sue le innovazioni, naturalmente c’erano sempre le agenzie di fotogiornalismo e io sono stato rappresentato da alcune di loro in Francia, Olanda, Germania, Inghilterra… anche in Australia dove un’altra piattaforma con una impostazione all’avanguardia mi aveva cercato. Se all’inizio mi era stato sufficiente vendere in Italia i servizi che scattavo in giro per il mondo, diminuendo i compensi mi fu utile cominciare a rivendere le mie storie in altri Paesi. Non sempre si trattava di guadagni interessanti. Ricordo un resoconto della mia agenzia di Parigi dopo aver venduto un servizio in Giappone: fu la goccia che fece traboccare il vaso! Quel prezzo, come altri, era così basso da farmi capire che neanche rivendendo più volte le stesse foto sarei riuscito a continuare in quel modo. Paradossalmente, più diventavo esperto e più diventava difficile guadagnare bene.

Negli anni precedenti – quando mi capitava di pubblicare anche tre o quattro servizi alla settimana tra ritratti, moda e attualità – mi sembrava di stare facendo una gavetta estenuante. Non sapevo che poi il mondo sarebbe cambiato così tanto da farmi rimpiangere quelle fatiche.

Oggi, nonostante ci sia un consumo bulimico di immagini e se ne continuino a produrre, scattarle non è più necessariamente remunerativo. In pratica la fotografia sta benissimo, i fotografi un po’ meno. E anche altre professioni che gravitano intorno alla fotografia risentono della situazione. Conosco una gallerista di grande talento che rappresentava fotografi eccezionali e oggi fa la cartomante. Un’altra gallerista molto brava con cui ho avuto il piacere di lavorare in passato, ha poi smesso per un impiego più sicuro: cassiera in un supermercato. Conoscendo la sua intraprendenza, credo che adesso sia diventata direttrice. In ogni caso ha dovuto cambiare. Anche un altro gallerista che conosco ora fa l’amministratore di condomini.

Io penso che prima o poi deciderò di fare il cuoco, o forse il giardiniere. Due mestieri che mi hanno sempre attirato. In ogni caso, per il momento ho intenzione di continuare a fotografare finché ne avrò la possibilità e la voglia. A volte penso che non ne valga più la pena, ma poi cambio idea.

Nonostante ci siano tante difficoltà e i tempi siano oggettivamente duri e imprevedibili, continuo a stupirmi della creatività che riesce a manifestarsi attraverso la fotografia. Vedo immagini frutto di ricerche interessanti, fotografi che sperimentano nuovi approcci oppure utilizzano vecchie tecniche in un modo diverso.

Sono stato fortunato a fotografare parecchio in anni nei quali ho potuto incontrare persone straordinarie e raccontare le loro storie. Ho scattato ritratti, viaggi, moda, celebrità…. Dal 2011 insegno miei fortunati workshop di ritratto e per me si tratta ancora di una grande soddisfazione.

Ora, assistere a questi cambiamenti così radicali nella fotografia e nella nostra civiltà è sicuramente difficile. Ci sono tanti bravi fotografi che non riescono più a fare il loro lavoro. Ci sono anche altri che hanno saputo reinventarsi. Adesso, più che mai, è importante sapersi adattare al mercato. Non sempre, però, si è capaci o si è disposti a farlo.

“Questa fotografia è vera?”, potrebbe chiedere adesso Harrison Ford a Zhora in Blade Runner.

Oggi possiamo permetterci fotografie vere, finte, di tutto e di più.

Che cosa risponderebbe Zhora, la replicante che avrebbe voluto rimandare la sua data di scadenza?

Enzo Dal Verme

Enzo Dal Verme

Workshop Ritratto