Sperimentando Venezia

Ecomostro o salvezza di Venezia, progetto già antiquato o avanzata opera di rilievo mondiale, alternativamente –e secondo un ciclo direi stagionale– osannato o denigrato dalla stampa, comunque lo si etichetti il MO.S.E. (MOdulo Sperimentale Elettromeccanico) e le sue dighe mobili “alte come palazzi” ormai è entrato a pieno titolo nella categoria delle opere di pubblico interesse, quelle “famose”, quelle di cui tanto si parla ma spesso poco si conosce. Quelle che fanno discutere distrattamente le casalinghe nelle code ai supermercati, e scuotere la testa ai vecchietti nei mezzi pubblici.

Discussioni che, più di effettivi scambi di idee, suonano come generale biasimo su come il mondo sia caduto in basso, su come ai vecchi tempi simili inutili costose diavolerie faraoniche non servissero eppure tutti si vivesse felici e contenti, sui politici mangiasoldi e in definitiva su come oggi non ci siano più le stagioni di una volta.
Ma tant’è: perché se da un lato è vero che si tende a diffidare di ciò che è nuovo e sconosciuto (specie di un progetto il cui acronimo prevede proprio la parola “Sperimentale”), è innegabile che negli ultimi cento anni la frequenza delle acque alte sia aumentata spaventosamente (lo dice anche Wikipedia), dando luogo a simpatici siparietti per la gioia dei turisti che, inguainati in stivaloni di gomma alti fino alla vita, si divertono a fotografare subacquei che si “immergono” in piazza San Marco neanche fossero a Disneyland; euforia più raramente condivisa dai negozianti che, a ogni marea eccezionale, sono costretti a sospendere le vendite, spostare la merce e ripulire i negozi, imprecando come tante formiche impazzite per evitare che l’acqua entrando faccia danni su danni. 
E il giorno dopo, daccapo.

Non che i veneziani non siano abituati all’acqua; Venezia e le sue isole sono terra di confine tra suolo e mare; ogni giorno le navi portano schiere di visitatori che intasano le strette calli per poi di nuovo andarsene –preferibilmente sollevati nel portafoglio- ancora via mare, permettendo però con l’obolo che pagano durante la traversata la sopravvivenza della città-museo.
Con l’acqua Venezia vive, convive, magari gioca; a Natale non è strano vedere per i canali imbarcazioni dove i regatanti sono vestiti a tema… 
Però quando è troppo è troppo: le acque alte sono sempre più frequenti, sempre più invasive, causano sempre più danni; i giornali strillano “marea da record”, “marea eccezionale”, “marea straordinaria” per poi ripetersi il giorno dopo, e quello dopo ancora, fino a esaurire i sinonimi; e qui arriva un punto in cui anche i vecchietti smettono di scuotere la testa, le casalinghe parlano d’altro e a questo punto cruciale -forse proprio perché una Disneyland è più pratica e fruttuosa di un’Atlantide- entrano in scena le dighe mobili.

Per me – uno dei veneziani che lavora al MOSE – è un po’ difficile schierarmi da una parte o dall’altra, perché da un lato le trasformazioni che ha portato sulle tre bocche di porto di Venezia sono effettivamente rilevanti, e chissà se tra cent’anni gli effetti sulla laguna saranno proprio quelli previsti oggi; d’altro canto però a furia di vedere progetti, schizzi, modellini, pianificazioni, simulazioni, sondaggi, modelli di calcolo, modifiche, proposte, collaudi, confesso che realizzare il MOSE mi sembra davvero una buona idea. Forse studiare progetti ancora più avanzati sarebbe stata un’idea ancora migliore, certo, ma continuare a temporeggiare probabilmente non lo è.
E poi ci sono anche benefici effetti collaterali: sulle nuove scogliere e terrapieni si ritrovano varie specie di uccelli che hanno ampi spazi per nidificare; sui massi sommersi che formano la protezione dei fondali si sono insediate colonie di pesci e altri organismi marini, rendendo le scogliere subacquee “formidabile punto di concentrazione” e “paradiso per i pescatori sportivi e i subacquei”, tanto far nascere l’ipotesi di un futuro parco marino (a detta del Corriere della Sera).

Ero proprio nel cantiere della bocca di porto di Malamocco un inizio dicembre con la mia compattina Canon Powershot SX110IS, 9 Megapixel e zoom ottico 10x in uno spazio davvero modesto, che attualmente rappresenta (insieme alle pile di ricambio) la mia intera attrezzatura –per motivi principalmente di ingombro e praticità– quando si è scatenata la furia degli elementi. 
Mi è piaciuto subito il cielo che, mentre si alzava un vento feroce, ha virato verso minacciose tonalità giallognole e bluastre, conferendo ad alcuni tozzi pilastri costruiti da poco (dove ora sorgono i primi smisurati cassoni di calcestruzzo che faranno da alloggiamento alle dighe mobili sul fondo del canale) un’aria che mi è parsa quasi sacrale, vista l’indubbia somiglianza con il Mausoleo dell’Olocausto di Peter Eisenmann a Berlino. 
Un accostamento azzardato, o irrispettoso? Forse esattamente l’opposto; infatti, mentre Peter Eisenmann ha eretto le sue lapidi squadrate per non far dimenticare il passato, i pilastri su cui oggi sorgono i monumentali cassoni del MOSE potrebbero servire, domani, a ricordare che per Venezia ci può essere un nuovo futuro.