“Volevo fare del cinema e quindi decisi di cominciare con la fotografia…e mi sono fermato qui” (A. Ballo).
“Non ce ne rendevamo ancora conto, ma [fin dall’inizio] avevamo un chiaro interesse per l’oggetto ed era già evidente la nostra visione del modo in cui riprenderlo” (M. Toscani Ballo).
“Tutti i nostri amici erano e sono, architetti e designer. Il nostro mondo era quello e quindi quella fu anche la nostra specializzazione fotografica” (M. Rebuzzini).
“La mia fotografia è una fotografia d’uso; cioè non è una fotografia che puoi fare e attacchi al muro perché è bella, [ma] serve per illustrare un oggetto e magari venderlo” (A. Ballo).
“In quegli anni soltanto Aldo Ballo aveva uno studio grande, ordinato, pulito; soltanto Aldo Ballo sapeva usare tutti gli apparecchi necessari, tutti gli obiettivi, tutte le luci, tutte le camere oscure, tutti gli acidi e le acque, tutte le pellicole, le lastre, gli ingranditori, e così via. Insomma tutti gli accorgimenti per fare una bella fotografia, una molto bella fotografia, una fotografia sicura, acuta, splendente, perfetta (E. Sottsass).
“I suoi interni respiravano, avevano una concezione dello spazio intelligente” (Gae Aulenti).
In queste brevi ma significative affermazioni è condensata la storia e forse l’essenza stessa dello Studio Ballo+Ballo, fondato da Aldo Ballo e dalla moglie Marirosa Toscani Ballo: il più importante studio fotografico italiano per la fotografia di design, attivo dagli anni Cinquanta per quasi mezzo secolo, con cui i due maestri hanno contribuito a creare e diffondere l’immagine del design italiano a livello internazionale: a loro è dedicata la mostra BALLO&BALLO – Fotografia e design a Milano, 1956-2005, esposta fino al 3 novembre 2024 al Castello Sforzesco di Milano.
La mostra, curata da Silvia Paoli e prodotta da Comune di Milano-Cultura, Castello Sforzesco e Silvana Editoriale, in collaborazione con Enti e collezioni pubbliche e private, è parte del progetto vincitore del Bando Strategia Fotografia 2023 promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura, a seguito della generosa donazione dell’archivio fotografico dello studio – avvenuta nel 2022 da parte di Marirosa – al Civico Archivio Fotografico del Comune di Milano, istituzione che, dal 1933, conserva un patrimonio inestimabile di fotografie dal 1840 ad oggi, in continua crescita. L’archivio, a seguito della donazione, attraverso un progetto di studio e valorizzazione ha catalogato le oltre 200.000 immagini provenienti dallo Studio Ballo (negativi, provini, diapositive, positivi), oltre ai materiali archivistici correlati (schedari e quaderni d’inventario), pubblicazioni e arredi originali.
L’esposizione è completata da un ricco catalogo in italiano-inglese edito da Silvana Editoriale, che, oltre alle splendide fotografie esposte in mostra, presenta una serie di approfondimenti, apparati scientifici, saggi, immagini d’archivio, bibliografia, volti a mettere in luce lo straordinario percorso cronologico e storico dello studio, che ha raggiunto livelli di eccellenza incarnando “alla perfezione i fermenti e le dinamiche culturali che hanno caratterizzato l’evoluzione del design italiano” (T. Sacchi).

Lo studio
Cerchiamo però di conoscere meglio i protagonisti di questa vicenda, iniziata a Milano nel Dopoguerra, nell’epoca del boom dell’immagine, in un vivace contesto economico e culturale.
Marirosa Toscani (Milano, 1931-2023), sorella dell’altrettanto noto fotografo Oliviero Toscani e figlia maggiore di Fedele Toscani, fotoreporter del Corriere della Sera, sin dal 1949, mentre frequenta il Liceo Artistico di Brera, inizia a lavorare per il padre all’agenzia Rotofoto (da lui fondata nel 1945 dopo aver partecipato, insieme all’amico Vincenzo Carrese, alla fondazione della Publifoto), distinguendosi fin da subito – al pari dei colleghi maschi – per le sue fotografie, una delle quali sull’alluvione del Polesine viene pubblicata sulla rivista Life.
Nel 1950 conosce Aldo Ballo (Sciacca, 1928 – Milano, 1994), un giovane siciliano che, dopo aver frequentato il suo stesso liceo, si iscrive ad architettura al Politecnico di Milano (senza terminarla), entrando a far parte della Rotofoto insieme a Marirosa. Nel frattempo, però, collabora anche con quello che diventerà lo Studio di Monte Olimpino, a Como, di Marcello Piccardo e Bruno Munari, dedicato alla sperimentazione cinematografica e pubblicitaria, in cui è favorito l’incontro tra artisti e intellettuali. La sua è una formazione trasversale, con esperienze nel mondo della fotografia di reportage, della scenografia e del montaggio cinematografico, cui si uniscono frequentazioni di architetti, artisti e critici d’arte, di cui Aldo esegue ritratti e immortala opere, tra cui Lucio Fontana, Gillo Dorfles, Arnaldo e Giò Pomodoro, Gio Ponti e, soprattutto, Bruno Munari, con cui lavorerà in maniera continuativa fotografando quasi tutte le sue creazioni.
Nel 1953, dopo il matrimonio, inizia un periodo pioneristico in cui Aldo e Marirosa lavorano per la rivista “Domus”, il TCI, AGIP, la RAI e con le aziende più all’avanguardia dell’epoca dal punto di vista culturale come Pirelli e Olivetti, intensificando sempre più le collaborazioni con designer, art director, architetti e grafici, oltre che con l’ufficio pubblicità della Rinascente, uno degli ambienti più fecondi per lo sviluppo della grafica pubblicitaria, con cui la loro fotografia, quale “strumento efficace nel processo formativo della sensibilità rispetto alla forma e quindi al design”, dialoga per creare manifesti, locandine e opuscoli pubblicitari, permettendo al design italiano di prendere coscienza di sé, anche grazie alla nascita nel 1954 – per un’intuizione di Gio Ponti – del premio “Compasso d’oro”, il più autorevole premio per valorizzare la qualità degli oggetti di produzione industriale.

Abbandonato definitivamente il reportage, che obbligava a precise scadenze temporali, “Aldo e Marirosa scelgono di definire tempi e spazi del proprio agire: la costruzione graduale dello studio, sempre più ampio, attrezzato e aggiornato sul piano tecnico, dove il lavoro fotografico raggiungerà livelli di precisione e organizzazione inimmaginabili per l’epoca, risponde a questo scopo, creare un luogo dove tempo e spazio possono essere rigorosamente determinati e controllati in vista del raggiungimento di risultati sempre più alti” (S. Paoli).
Nel 1956, infatti, aprono lo studio “Aldo Ballo Fotografia”, che, grazie al consolidarsi di una serie di rapporti, anche di amicizia, si dedica quasi esclusivamente alla fotografia di design, tanto da diventare il più importante studio del genere – di cui fino ad allora non esistevano fotografi specializzati – collaborando sia con architetti e designer tra cui Gae Aulenti, Cini Boeri, Ettore Sottsass, Pier Giacomo e Achille Castiglioni, Enzo Mari, Alessandro Mendini, sia con importanti aziende – storiche o di recente costituzione e desiderose di farsi strada nel mondo del design – come Cassina, Danese, Zanotta, Brionvega, Alessi, Arflex, Kartell, Artemide, Tecno, Driade, B&B Italia, Venini, e molte altre: lo studio diventa così un “palcoscenico sul quale veniva immortalata, in un flusso ininterrotto, la gran parte dei prodotti realizzati dalle industrie del design di quel periodo” rendendo i Ballo “co-protagonisti del nascente sistema del design, che contribuiscono a definire grazie all’autorevolezza delle loro immagini” (P. Proverbio).

Fino agli anni Sessanta Aldo lavorerà parallelamente anche per l’architettura, fotografando i cantieri della Milano contemporanea realizzati da alcuni dei più importanti progettisti del tempo, tra cui Gardella, Zanuso, Caccia Dominioni, BBPR e Gregotti, ponendo grande attenzione alle relazioni tra edificio e contesto urbano e con un uso sapiente e calibrato della luce: tra queste spiccano le note immagini delle stazioni della linea 1 e 2 della metropolitana milanese di Albini e Bob Noorda e dell’allestimento della pinacoteca del Castello Sforzesco.
Siamo in un’epoca in cui nelle riviste “si avverte […] il tramonto della stagione dell’illustrazione e l’utilizzo sempre maggiore, fino a diventare pressoché esclusivo, della fotografia” (A. Saibene), con la nascita – anche grazie al contributo delle aziende più innovative – di riviste di arredamento, a cui i Ballo attribuivano “una grandissima considerazione”, perché servivano a “mostrare gli oggetti d’uso con grande forza, con grande serietà” (M. Toscani Ballo): è per questo che non può mancare la presenza delle loro immagini su “Domus”, “Ottagono”, “Abitare”, “Amica” e, soprattutto, “Casa Vogue”, il più importante periodico italiano dedicato al design e all’arredamento. Per quest’ultima, in particolare, dal 1968 al 1993 i Ballo firmano quasi tutte le copertine, le “aperture” redazionali dedicate alle novità (con immagini di oggetti e ambienti accostati ad opere d’arte), servizi pubblicitari, di interni o per il Salone del Mobile, oltre a case di artisti o servizi sull’architettura (tra cui quelli sulle ville palladiane e sugli edifici di Carlo Scarpa, Guido Canali e Le Corbusier). In tutti i casi la loro fotografia, dagli still life alle articolate composizioni di oggetti e arredi, “è in dialogo con i testi e mai subordinata”.

Attraverso uno stile inconfondibile, rigoroso ed essenziale, erede della lezione del Movimento Moderno, nella fotografia dello Studio Ballo l’oggetto di design, decontestualizzato su fondale neutro in cui il piano d’appoggio è appena intuibile, diventa “scultura, monumento, secondo stilemi che hanno origine nella fotografia del secondo Ottocento”, ma si “innestano, più modernamente, sulla New Vision di Molhoy-Nagy”, attraverso una “visione nitida, essenziale, luminosa e priva di ritocco” (S. Paoli), spesso ravvicinata, basata su precise regole compositive e stilistiche e sull’uso sapiente della luce, controllata e direzionata all’interno dello studio: una “luce diffusa di Piero della Francesca” (E. Astori).

“Lontane da una mera catalogazione visiva degli oggetti, le fotografie di Aldo Ballo portano a spostamenti valoriali e a un vero e proprio cambio di paradigma nella fotografia di design” (S. Paoli), prima caratterizzata da una tradizione figurativa che imponeva pesanti scenografie per gli oggetti industriali: le immagini dei Ballo non hanno infatti solo una funzione descrittiva, ma propongono una lettura critica degli oggetti, anche grazie a un confronto diretto con i progettisti, che li porta a “cercare di comprendere l’oggetto da riprendere per restituirlo nel migliore dei modi” (P. Proverbio), interpretandolo per “dargli un’anima”, perché “sono gli oggetti stessi che dichiarano di avere un certo tipo di immagine” (A. Ballo): “da solo, con un elemento di confronto, quando ci sembra opportuno quando è richiesto, o ambientato. Prima di scattare lo guardiamo per giorni, lo abbandoniamo, lo riprendiamo e via via” (M. Toscani Ballo).

Si ha così il superamento della semplice ‘riproduzione fotografica’, intesa come “ripetizione delle relazioni esistenti tra gli oggetti, spazio, tempo” verso la ‘produzione fotografica’, che “si fonda sul rigoroso controllo della luce ma anche sulla capacità di estrarre, ridurre, eliminare per non inficiare la comprensione dell’oggetto, innalzato a icona significante di un’idea progettuale” (S. Paoli).
Lo Studio Ballo diventa così emblema della “nuova fotografia”, essenziale, pulita, aderente ai valori di modernità del nuovo design italiano, contribuendo, in maniera determinante, alla sua affermazione a livello internazionale, consacrata dalla mostra al MoMA di New York del 1972 Italy: The New Domestic Landscape, volta a far comprendere che il design “significava qualcosa di più della semplice creazione di oggetti destinati a soddisfare esigenze funzionali ed emotive; […] non solo prodotto dell’intelligenza creativa, ma anche esercizio dell’immaginazione critica (E. Ambasz). Le immagini del catalogo della mostra, sia di repertorio che frutto di nuove campagne fotografiche, vengono affidate ai Ballo, allora all’apice del successo, contribuendo a legittimarne la notorietà, grazie alla riconoscibilità dello stile, che diventerà termine di paragone per tutti i fotografi successivi impegnati in questo genere.
Lo studio, che solo nel 1975 assumerà la denominazione “Ballo+&Ballo”, facendo emergere Marirosa dall’anonimato, sarà da lei portato avanti dopo la morte del marito – avvenuta nel 1994 – rimanendo attivo fino al 2001, seguito da un’attenta opera di sua valorizzazione e conoscenza.
La mostra
Sulla base di queste premesse la mostra, esposta negli spazi interrati del Castello Sforzesco, si propone di restituire il lavoro dello studio attraverso fotografie, riviste, oggetti di design e videoinstallazioni, con un ricco e interessante allestimento (soprattutto se ci si sofferma ad ascoltare i video e le testimonianze dei protagonisti), realizzato da E20 Progetti e firmato dallo Studio Azzurro, le cui origini – nel 1982 – sono strettamente legate allo Studio Ballo, con cui uno dei fondatori – Fabio Cirifino – collaborò dal 1964.

Lungo le pareti della Sala Viscontea sfilano, in sequenza cronologica, un centinaio di fotografie – iconici ritratti di oggetti che hanno segnato la storia del design – che consentono di cogliere l’evoluzione dello stile dei Ballo, sensibile agli stimoli provenienti dall’arte del tempo e dalla frequentazione di artisti e gallerie, a partire dalle prime immagini in bianco e nero degli anni Cinquanta, tra cui quella notissima della macchina da scrivere Olivetti “Lettera 22”, esposta alla Rassegna della fotografia Italiana a Sesto San Giovanni del 1959 quale emblema del nuovo modo di fare informazione pubblicitaria, fino agli anni Novanta, adeguandosi al mutato clima degli anni Settanta e Ottanta, dove “gli oggetti hanno perso quel senso di necessità dei decenni precedenti” e passando per la “rivoluzione a colori”: se infatti “ancora si possono fotografare in bianco e nero la radio “Cubo” e la TV “Black ST201” di Richard Sapper e Marco Zanuso per Brionvega, non è più possibile farlo con la poltrona “Sacco” di Zanotta o la macchina per scrivere “Valentine” di Ettore Sotssass” (A. Saibene).




Sono però le creazioni di Aldo Rossi, Mendini e, soprattutto, di Sottsass, a portare “un certo scompiglio” nel design e, conseguentemente, nelle immagini dello Studio, inducendole a “rompere con la solita luce morbidissima (A. Ballo).
Ad immagini in cui l’oggetto rivive nei volumi e nella forma, con “oggetti trattati come soggetti, fotografati da soli, a lasciar intuire una storia quasi personale, ambientazioni che sembrano non aver nessuna necessità della presenza umana” (Studio Azzurro), come la pesciera Sambonet, il gettacarte di Enzo Mari per Danese o il bicchiere Smoke di Joe Colombo, se ne alternano altre in cui compare una presenza viva, come il cane della coppia usato per la lampada Moloch di Gaetano Pesce o la poltrona Joe di Poltronova, ad altre ancora in cui è preponderante l’attenzione compositiva, con due o più elementi sapientemente disposti nello spazio, come le sedie Aprile di Gae Aulenti o Follia di Terragni, il divano Serpentone di Cini Boeri, lo spremiagrumi Juicy Salif di Philip Starck per Alessi o i vasi di Sottsass per Vistosi, fino ad arrivare alle “ultime raffinate composizioni, tra andamenti curvilinei e delicati giochi di luce e ombra” (S. Paolino) delle sedie Cafè chair di Starck per Baleri, della macchina per scrivere ET1250 Olivetti o della parete divisoria Cartoons, Compasso d’oro 1994.



A fare da contraltare alle immagini a parete, una serie di teche espone materiali originali (fotografie, riviste, libri), che mostrano sia il rapporto dello studio con l’editoria sia le sperimentazioni fotografiche di Aldo, tra pop art e arte cinetica, tra cui le immagini optical – con modelle e proiezioni luminose – realizzate nel 1966 per la rivista “Popular photography italiana” o quelle per il libro di poesie del fratello Guido, caratterizzate da movimenti di macchina, sovraesposizioni, doppie esposizioni, montaggi. Da notare anche quelle per Bruno Munari del 1957 per la serie delle “forchette parlanti” e dei gesti per il “Supplemento al Dizionario Italiano”, “accomunati dallo stesso gusto per l’ironia e il sovvertimento delle convenzioni”.


Completano il racconto – al centro della sala – una serie di set fotografici, video e installazioni con oggetti di design, in prestito dall’ADI Design Museum e dalle Raccolte d’Arte Applicata del Castello Sforzesco, e oggetti originali appartenuti ai due fotografi, tendenti a rappresentare l’ambiente di bottega e le modalità di lavoro dello studio, evocandone l’andirivieni e i momenti quotidiani (i processi fotografici, l’allestimento del set, l’archiviazione), cercando di restituire “la qualità di un’esperienza unica, il ‘laboratorio’ dello studio Ballo, ma anche il clima e il modo di lavorare di un’era conclusa, quella della fotografia analogica” (S. Paoli, F. Tasso).
“A metà tra il laboratorio artigiano e la sala di montaggio cinematografica, con un molto milanese culto del lavoro ben fatto e un maestro attorniato da un gruppo di giovani che lo aiutano a captare i segnali di quel che arriva da fuori” (A. Saibene), lo studio rappresentava infatti anche un luogo di formazione e crescita culturale: era “un luogo di lavoro vivo, pulsante, creativo, non distante dal mondo, che conserv[ava] quella manualità nel fare e quel rapporto diretto con persone e cose proprio della dimensione artigiana” (F. Cirifino).
Considerato il “più moderno, attrezzato ed efficiente di tutta Milano, [caratterizzato da] rigore, disciplina, razionalità scientifica e ricerca continua della perfezione” (S. Paoli), possedeva un’ampia dotazione di attrezzature per le varie fasi di lavoro (ripresa, sviluppo, stampa bn o a colori, costruzione del set delle scenografie), spazi per archivio, biblioteca di fotografia e spazi di incontro, qui in parte ricreati.


Attraverso le installazioni in mostra è pertanto possibile entrare in questo mondo, a partire dalla fase preparatoria, prima attraverso il “lavoro in cerchio” tra Marirosa, Aldo e i vari interlocutori, poi con lo studio dell’oggetto, schizzi e impaginato: “io disegnavo, facevo un menabò e insieme ragionavamo. […] Il Ballo cercava la luce, la composizione e io mi occupavo degli oggetti da inserire per far vivere l’immagine” (M. Toscani Ballo).
Le fotografie erano realizzate con banco ottico Sinar in appositi set entro una “scatola” prospettica con “limbo” bianco, pareti smussate, luci e attrezzature sofisticate: uno spazio continuamente reinventato, “ad imitazione dello spazio reale e con tutti gli elementi della realtà: un’operazione stimolante [che permetteva], mediante un metodo di lavoro scenografico, un ampio grado di sperimentazione” (A. Ballo). La stampa passava attraverso la camera oscura e i provini, talvolta pulita e “spuntinata” da mani femminili, con “uno sgarzino per schiarire e pennellini e china per scurire” (Studio Azzurro).
L’archivio – di cui in mostra è esposto l’armadio in cui venivano riposte le scatole Kodak con i negativi su pellicola o vetro e le diapositive – rivestiva un’importanza fondamentale, con Marirosa che compilava inventari e registri, quaderni fitti di informazioni per la catalogazione o dettagli tecnici come l’apertura del diaframma e il tempo di esposizione.

Completata la presentazione dello studio, “il racconto si fa più confidenziale” nella Sala dei Pilastri del castello, dove grandi ritratti di importanti designer, realizzati dai Ballo tra il 1979 e 1981 come da tradizione ottocentesca del ritratto in studio, sono posti in dialogo con le immagini degli oggetti da loro progettati, mentre alcuni protagonisti del design, della fotografia e dell’arte italiana, attraverso videointerviste, “si passano il testimone in un montaggio a sei schermi sincronizzati”, dando vita a un racconto corale che restituisce ciò che i Ballo hanno rappresentato: “un ritratto a tutto tondo di un periodo fondamentale per la storia dell’industria, del design, dell’arte e della cultura italiana tutta” (S. Paoli, F. Tasso).

Patrizia Dellavedova
Foto di copertina: Macchina per scrivere portatile “lettera 22”, Marcello Nizzoli per Olivetti, Compasso d’oro 1954©Studio Ballo+Ballo, 1957. Ove non specificato le immagini sono dell’autore.