Chiara Negrello ha iniziato il suo percorso fotografico quasi per caso, impugnando per la prima volta la macchina fotografica di suo zio e senza mai più separarsene. Spinta da una curiosità instancabile e dal desiderio di raccontare il mondo, Chiara — oggi residente nelle Filippine — utilizza la fotografia come una lente attraverso cui leggere la realtà, comprenderla e restituirla con empatia.
In questa intervista ci parla della forza di cambiare continente, di lasciarsi tutto alle spalle e di affrontare le proprie paure più profonde. Parla anche di come il confronto con fotografi provenienti da culture diverse arricchisca la sua visione e le permetta di cogliere il mondo con uno sguardo ancora più aperto e consapevole. Pur restando fedele alla realtà e al rigore del fotogiornalismo, le sue immagini riescono a trasmettere una forte carica emotiva, rivelando allo stesso tempo il suo lato personale e intimo. Il ritratto è quello di un’autrice certamente giovane, estremamente sensibile, in grado di trasformare gli incontri in un’occasione di ascolto e le fotografie in un’opportunità di connessione tra mondi e culture diverse.


Come e’ iniziato il tuo percorso nella fotografia?
Ho iniziato, come spesso accade, per caso prendendo in mano la macchina fotografica di mio zio e restando affascinata dal modo in cui vedevo il mondo attraverso il mirino. Quella curiosità iniziale si è fin da subito tradotta in una passione per raccontare storie, in particolare storie di persone e culture diverse dalla mia. La macchina fotografica è diventata il mio strumento per leggere il mondo e restituire quello che sento. Un punto di svolta fondamentale nel mio percorso è stato avere l’opportunità di accedere ad una borsa di studio di Reuters per frequentare l’International Center of Photography a New York. Sebbene fosse online per via della pandemia, l’esperienza è stata determinante per me. I mentori e i professori mi hanno dato gli strumenti e la preparazione per affrontare l’industria editoriale e presentarmi con una visione più chiara e consapevole.

Nel 2023 ti sei trasferita nel Sud-est asiatico, prima in Vietnam e poi nelle Filippine, dove vivi attualmente. Cosa ti ha spinto a un cambiamento così ‘radicale’? Quali sfide hai affrontato, sia a livello professionale che personale?
Nonostante l’amore che nutro per l’Italia e le sue molte interessanti sfaccettature, da sempre la fotografia mi spinge a superare confini, prima di tutto personali. Mi porta a superare le mie paure, i miei limiti e a darmi la spinta per esplorare luoghi che magari mi sembrerebbero in accessibili. L’Asia mi ha sempre affascinato, e dopo aver rimandato per diversi motivi, sono partita lasciandomi tutto alle spalle. A livello lavorativo, il più grande scoglio è stato ed è tuttora ricostruire un network da zero, e guadagnare la fiducia delle persone per lavorare in un contesto così diverso. Personalmente, vivere in Asia mi rende felice e sento che questo è il posto giusto per me in questo momento della mia vita. Se devo trovare un aspetto negativo, onestamente, mi mancano molto i miei amici.


Incontro molti fotografi asiatici che lavorano nel campo del fotogiornalismo contemporaneo. E una delle domande che spesso rivolgo loro e’ se esista una differenza tra lo stile fotografico “occidentale” e quello “asiatico”. Sono curiosa di sapere che cosa ne pensa una giovane fotogiornalista italiana impegnata a raccontare storie culturalmente diverse dalle sue origini.
Quando parliamo di differenze tra fotografi locali e non, credo che non si tratti tanto di stili diversi, quanto di prospettive diverse. È affascinante poter mettere insieme due punti di vista, quello mio, che può essere più ampio, e quello di fotografi locali, che è più specifico e profondo rispetto al luogo. Il confronto con i fotografi locali arricchisce il mio lavoro, aiutandomi a capire meglio le dinamiche della comunità in cui vivo, ma anche a creare un ponte tra la mia visione e le esperienze personali che poi fotografo.

A proposito di questo, il tuo trasferimento dall’Italia all’Asia ha influenzato il tuo approccio alla fotografia. Se sì, in che modo?
Il mio approccio alla fotografia è rimasto lo stesso dal punto di vista professionale, ma è sicuramente è cambiato a livello personale, il che mi rende più felice. Da quando sono in Asia, ho comprato una vecchia fotocamera compatta, che è diventata la mia compagna di viaggio. Ho riscoperto il piacere di fotografare la vita quotidiana, senza la pressione di farlo per lavoro. Questa macchina, così lenta e macchinosa, mi costringe a rallentare, a osservare diversamente. È un modo per tornare alle origini di quello che che mi ha colpito della fotografia, per esplorare senza nessuno scopo quello che mi circonda, se non per il piacere di farlo.


Hai raccontato molte storie legate a temi come la giustizia sociale, le disuguaglianze e ‘l’empowerment.’ Tra i tuoi lavori, quello che mi ha colpito di più è Like the Tide, dedicato alle pescatrici di vongole nel delta del Po: un progetto intimo che esplora “una comunità di donne impegnate in una professione tradizionalmente maschile”. Come è nata l’idea di raccontare questa storia? E com’è stata la tua esperienza nel realizzarlo?
Vero, una delle storie più significative che ho raccontato è quella delle pescatrici nel delta, che mi ha toccato profondamente. Quando ho sentito parlare del loro lavoro durante un viaggio di esplorazione del luogo pensando ad un progetto diverso, è stato naturale per me avvicinarmi a loro. Quando mi sono trasferita nel delta, vederle lavorare con tanta determinazione è stata un’ispirazione incredibile, non solo come fotografa, ma soprattutto come donna. Queste donne sono entrate in un’industria maschile senza mai perdere la propria identità, sfruttando le proprie qualità femminili e trasformandole nella forza che le caratterizza. La loro devozione alla famiglia e il modo in cui si prendono cura delle persone che amano mi hanno ricordato tanto la mia infanzia, ed è stato proprio questo legame emotivo a permettermi di raccontare la loro storia con tanta profondità.


Quali sono le storie raccolte in Asia che ti hanno colpito di più e perché’?
La storia che mi ha colpito di più è quella delle donne filippine che lavorano nel campo dell’annotazione dati per l’AI. Si parla molto di questa tecnologia, ma raramente si cerca di capire da cosa sia composta o si esplora il suo reale impatto umano. Viaggiando nelle zone rurali per raccontare le loro storie, sono rimasta sorpresa dalla loro competenza a riguardo. Queste donne mi hanno ricordato più che mai che, dietro ogni innovazione, c’è sempre una grandissima componente umana. Nonostante tutto il rumore negativo che, anche giustamente, circonda l’AI, il loro lavoro mi ha dato speranza. Penso che lo sviluppo tecnologico che stiamo affrontando sia un processo irreversibile, ma la tecnologia può portare opportunità se viene affrontata in modo etico e responsabile.

Dal 2023 sei Canon Ambassador. Cosa significa per te rappresentare un marchio come Canon? Quali responsabilità comporta questo ruolo?
Essere nominata Canon Ambassador è stato un traguardo enorme. Sono davvero grata che Canon abbia visto qualcosa in me, soprattutto considerando che ero ancora agli inizi della mia carriera. Avere un brand così prestigioso al mio fianco mi dà un grande supporto pratico e mi sta davvero supportando nel mio percorso. La sfida più grande per me, oltre a rappresentare il brand al meglio, è quella negli ambienti educativi. Quando tengo workshop, soprattutto con i giovani, sento la responsabilità di essere un punto di riferimento, di parlare a chi mi guarda con ammirazione. Penso che sia un grande onere, ma è anche molto stimolante.


Ci sono fotografi a cui ti sei ispirata e che ammiri particolarmente?
Mi è difficile nominare dei fotografi specifici, perché sono affascinata da chiunque faccia questo mestiere con passione. Non importa se si tratti di un fotoreporter, di un fotografo di food o di moda, ciò che conta è che lo facciano con uno scopo, dando il massimo delle loro capacità e riflettendo sulle scelte che prendono. Questo è per me un grande stimolo a continuare a perseverare. Sono convinta che ci sia molto da imparare anche dai fotografi amatoriali, dalla passione viscerale che spesso vedo e dalla libertà espressiva che li guida. Tuttavia, se parliamo di ispirazione visiva, trovo che la pittura, più che la fotografia, sia quello di cui davvero mi “nutro”. La pittura fiamminga, ad esempio, con la sua precisione nel gioco di luci e ombre, mi affascina profondamente. Soprattutto nelle scene a lume di candela, così come mi perdo nei dettagli di un quadro rinascimentale o barocco.
Silvia Dona’