Fotografare la guerra del Vietnam, la Formula Uno e… qualche ragazza nuda. Intervista a Guido Alberto Rossi

Terza puntata della nostra esplorazione sulla trasformazione del mestiere del fotografo: come si scattava alla fine del secolo scorso?

Dopo avere ripercorso le trasformazioni del lavoro del fotografo negli ultimi vent’anni ed ipotizzato che cosa ci attende nel futuro, in questo articolo voglio andare più indietro nel tempo ed esplorare com’era la nostra professione qualche decennio fa. Per farlo, ho chiesto aiuto al collega Guido Alberto Rossi che ha pubblicato le sue prime foto nel settembre del 1966. Si trattava della copertina e del servizio interno di Sport Illustrato, un lavoro ben pagato ed arrivato in maniera piuttosto inconsueta. Come era andata? E come si lavorava in quegli anni? Ho fatto qualche domanda a Guido…

Ci racconti del tuo primo lavoro?

Nell’agosto del 1966 avevo 17 anni ed ero in vacanza a San Remo. Sotto gli ombrelloni dei Bagni Imperatrice, il nostro vicino di spiaggia si presenta e cominciamo a chiacchierare. Era Alberto Ballarin, il vice direttore di Sport Illustrato – il settimanale della Gazzetta dello Sport. Gli racconto della mia passione per le auto da corsa e delle foto che scatto attraverso la rete dell’autodromo di Monza, così lui mi invita a passare dalla redazione. Appena rientro a Milano mi precipito a trovarlo e gli faccio vedere le mie quattro foto in croce che, evidentemente, gli piacciono perché esce un momento dalla stanza e rientra consegnandomi una fascia da indossare sul braccio. Era l’ambitissimo lasciapassare per fotografi che ti consentiva di andare ovunque nei box tra le auto e tra i piloti, nonché negli spazi per fotografi e cineoperatori lungo il circuito, oltre l’odiata rete metallica.

E poi cosa è successo?

Avere il primo servizio pubblicato da una rivista prestigiosa e firmare anche la copertina mi aiutò molto. In quegli anni le cose erano più semplici: telefonavi ad una redazione, prendevi un appuntamento e, se le tue foto piacevano, cominciavi a lavorare. Il mio primo servizio era uno splendido biglietto da visita e non mi fu difficile trovare altri ingaggi. Infatti nel 1967 avrei dovuto fare la maturità – andavo al liceo linguistico – ma non mi presentai neanche e non ero dispiaciuto perché stavo iniziando il lavoro dei miei sogni: le cose promettevano bene.

La fotografia è una passione che ho ereditato da mio papà, stampavamo insieme in camera oscura. Purtroppo è mancato quando io avevo 14 anni e non ho più potuto condividere con lui il nostro hobby. Però ho avuto la fortuna di avere una mamma che mi ha incoraggiato e finanziato e così ho potuto continuare e alla fine è diventato il mio lavoro.

Jim Clark al Gran Premio di Monza, 1966 | © Guido Alberto Rossi

Gli ingaggi che hai trovato dopo il servizio per Sport Illustrato erano sempre di motori?

Non solo, ma le prime porte che bussai furono quelle dove sapevo che la mia copertina avrebbe fatto colpo. All’epoca c’erano diversi giornali specializzati: uno era Gente e Motori, un altro Quattroruote che – però – era inaccessibile perché avevano i loro fotografi interni.

In ogni caso, non fu difficile e spesso un pubblicato mi consentiva di trovare altri clienti. Per esempio, quando una rivista mi mandò a fotografare le auto della Iso Rivolta, alla direzione piacquero molto e cominciai a lavorare anche per loro. Era un’azienda a conduzione familiare, importavano i motori della Chevrolet e li montavano su carrozzerie che facevano a Bresso. Per loro scattavo le foto da pubblicare sulle brochure e cose del genere.

Come hai fatto a trovare clienti anche in altri settori?

Avevo capito che l’importante era conoscere più gente che potevi e, ad ogni occasione che mi si presentava, io non mi tiravo indietro. Tante relazioni aiutavano e io mi mostravo disponibile così le proposte arrivavano. C’era l’editore di Teens Motors che mi offrì di lavorare anche per altre due sue riviste: una di cucina e una erotica che si chiamava Adam. Andavo nei ristoranti a fotografare i piatti, una bella flashata e mi toglievo il pensiero. Per Adam era molto più divertente perché dovevo anche trovare le ragazze che si spogliassero. Ebbi un grande successo con una cassiera di un locale di un’area di sosta, poi con una cassiera di un supermercato e con la segretaria di un’assicurazione. Ero pagato 500 mila lire al mese per ogni rivista, che negli anni ’60 erano un pozzo di soldi. Purtroppo, però, dopo solo tre numeri Teens Motors chiuse i battenti e l’editore fallì senza pagarmi due mesi.

Ludovico Scarfiotti su una Ferrari F1 al Gran Premio di Monza, 1966 | © Guido Alberto Rossi

Lavorare per questo editore ti portò altri lavori?

Certamente. Man mano che mi presentavo con un portfolio sempre più ricco, diventava più facile trovare altri lavori. Avevo anche cominciato a scattare per gli uffici stampa delle case discografiche, però non mi piaceva l’ambiente e gli artisti che mi chiedevano di fotografare erano quasi sempre emergenti. Con qualche eccezione, una in particolare è stata una esperienza indimenticabile: Louis Armstrong al festival di San Remo nel 1968. Per i suoi ritratti mi ero fatto imprestare da un’azienda automobilistica una macchina con cui andai a prendere lui e la sua famiglia in albergo e poi guidai un po’ a caso alla ricerca di location interessanti. Quando ci imbattevamo in uno scorcio piacevole ci fermavamo, qualche scatto e poi si ripartiva. Oggi lavorare così con una celebrità sarebbe impensabile.

Hai ancora i ritratti di Louis Armstrong?

No, ci sono molti servizi che non ho più. In quegli anni, quando si scattava in diapositiva si dava tutto al giornale e poi non era detto che si riuscissero a recuperare le proprie foto. Spesso non c’era tempo di fare dei duplicati, il laboratorio aveva bisogno di circa tre giorni.  È un peccato perché tanti scatti sono andati persi per sempre.

Le aperture di due servizi per Teen Motors | © Guido Alberto Rossi

C’è qualche episodio divertente che ti ricordi?

Ce ne sono moltissimi perché quello era un periodo divertente, pieno di incontri. Tra fotografi ci si trovava nelle redazioni e si diventava amici, ci si aiutava a vicenda. Poi si andava ai festival, alle manifestazioni sportive… Passando tanto tempo fisicamente insieme tra colleghi, redattori, agenti… inevitabilmente gli episodi memorabili accadevano con facilità.

Una delle mie collaborazioni era con ABC che sembrava un giornale scandalistico, ma in realtà c’erano dei grossi nomi del giornalismo che scrivevano sulle sue pagine. Un giorno in redazione mi proposero di fotografare una modella nuda nel parco, era la ragazza (o meglio, l’avventura passeggera) di uno dei loro giornalisti. Dal momento che io ero di casa alla Iso Rivolta, chiesi se avrei potuto utilizzare una delle loro macchine. Per loro si trattava di pubblicità gratuita e, naturalmente, erano solo contenti di imprestarmi un’auto da fotografare e mi diedero una ISO Grifo. Così andammo in un parco e scattai parecchie foto in diverse situazioni con la ragazza al volante, sdraiata sul cofano, eccetera…

Quello che non sapevo era che l’auto che mi avevano imprestato era di un cliente ed era in manutenzione. Quattro giorni dopo avere scattato il servizio, mi chiamano concitatamente dalla Iso Rivolta chiedendo di mandare subito tutte le stampe fotografiche possibili in visione. Cosa era successo? La modella, spogliandosi, aveva dimenticato qualcosa sotto il sedile e la moglie del proprietario dell’auto aveva trovato un paio di mutandine molto sospette. Inutile raccontarle questa fantasiosa storia del servizio fotografico perché proprio non ci voleva credere! Insomma… valle a spiegare. C’era bisogno delle prove.

Il servizio con Vittoria Solinas e la ISO Grifo scattato per ABC (settimanale) e poi ripubblicato su Adam (mensile) | © Guido Alberto Rossi

Hai detto che tra fotografi ci si aiutava a vicenda…

Sì, io ho avuto la fortuna di capitare sempre con qualcuno che mi ha dato buoni consigli e dritte preziose. Fotografi più esperti di me che vedevano il mio entusiasmo e mi incoraggiavano.

Non avevate paura di rubarvi il lavoro?

No, tra gentiluomini non ci si fanno le scarpe. E poi di lavoro ce n’era parecchio e un servizio tirava l’altro. All’epoca andavi nelle redazioni con le foto pubblicate o non pubblicate e i fotocolor. Arrivavi all’appuntamento e guardavano le tue diapositive controluce col lentino. Io a un certo punto ne avevo montate una serie su un supporto di cartoncino ed ero all’avanguardia rispetto a presentarle in un normale plasticone. Mi ero anche fatto fare un timbro da mettere sulle stampe. Lo avevo copiato da un’agenzia americana perché vedevo che faceva la sua figura e, naturalmente, anche la presentazione contava.

Lavoravi solo con le redazioni?

No, mi ero proposto anche per i libri scolastici. Poi c’erano le aziende che conoscevo quando scattavo per qualche rivista che spesso finivano per chiedermi di lavorare per loro, come era successo con la Iso Rivolta. A Montecarlo, per esempio, avevo conosciuto l’ufficio stampa della Pirelli mentre fotografavo il Grand Prix. Ero diventato un po’ amico dei meccanici e grazie a quei contatti avevo incontrato tante altre persone. Ho lavorato anche tanto con la De Agostini e con loro si doveva giocare d’anticipo. Quando c’era la fiera dei cani mi suggerivano di andare a fotografarli tutti. Oppure quando c’era la fiera dei fiori. “Ma vi servono?”, chiedevo. “Adesso no”, mi rispondevano, “però tu intanto fotografa”. Infatti, prima o poi, mi chiedevano quelle foto per qualche enciclopedia a fascicoli.

Ho anche scattato dei servizi sulla polizia e sui carabinieri, sono nate delle amicizie che durano ancora adesso. Li invitavo a mangiare a casa mia con mia madre, ci raccontavamo un sacco di cose… Erano tempi diversi, adesso è tutto più superficiale e non c’è tempo di fare nascere sul lavoro le amicizie che ho vissuto io.

Da quello che racconti sembra che i lavori arrivassero quasi per caso, non hai mai cercato di individuare nuovi clienti da conquistare?

Come no? Certamente. Era importante individuare delle nicchie di mercato interessanti e farsi conoscere. Proprio come il Gran Prix di Montecarlo mi aveva permesso di lavorare per Pirelli, fotografando l’offshore ero riuscito a portare a casa dei clienti di nautica che avevano bisogno di promuoversi. Dopo avermi visto fotografare le regate, le prove delle barche, i cantieri… ormai ero una faccia conosciuta e mi chiedevano: perché non ci fai il catalogo?

Vela, regate a Porto Cervo, Sardegna | © Guido Alberto Rossi

Hai mai fotografato moda?

Mai. Anzi, solo una volta quando ho sostituito un amico per una sfilata ed è lì che ho conosciuto Gina Lollobrigida con cui ho poi avuto un rapporto di lavoro duraturo.

Un cliente fondamentale nella tua carriera?

Topolino! Ho lavorato per loro 10 anni. Ogni settimana c’era una scuola che andava in visita alla redazione e io dovevo fare una foto di gruppo, una col direttore… un mini servizio. Ogni settimana mi entravano 200 mila lire solo per quello. Poi c’era il servizio sullo sport e ogni tanto bisognava fotografare anche i personaggi intervistati. Oppure le gare di tennis, le gare di sci, il club di Topolino… I colleghi di Epoca o di Panorama non volevano lavorare per Topolino perché temevano che fosse poco prestigioso. Io sono contento di avere avuto quel cliente per così tanti anni.

Hai detto che hai lavorato con Gina Lollobigida, com’è andata?

Gina era una fotografa ed io sono stato il suo agente. Ma andiamo per ordine. Verso la fine degli anni ’70 avevo messo insieme un archivio considerevole e potevo contare su una rete di contatti niente male. Collaboravo con un’agenzia francese che un giorno mi chiese di provare a vendere dei loro servizi in Italia. Nel giro di una settimana ero riuscito a piazzare tutto.

Avevo capito come girava il mondo delle agenzie e, con due colleghi, cercammo di rilevare la Publifoto che – tra l’altro – rappresentava in Italia la Magnum. Era un’agenzia fortissima con un archivio proprio di immagini anche degli anni ’20. Non riuscimmo ad accordarci sul prezzo e nel 1977 decidemmo di fondare una nuova agenzia tutta nostra, la Action Press. Grazie ad Action Press, conobbi l’agenzia americana Image Bank che due anni più tardi mi propose di aprire una filiale in Italia. Così nel 1979 ero socio di due agenzie fotografiche e continuavo a fotografare. Imparai ad ottimizzare il tempo per mio lavoro: quando scattavo un servizio di attualità per Action Press, avevo l’accortezza di scattare anche delle foto diverse che avrei poi distribuito come stock appoggiandomi a Image Bank. Avere molte immagini, possibilmente di luoghi esotici o adatte ad un gran numero di utilizzi, si stava rivelando uno dei modi più lucrativi per fare il nostro lavoro. E c’erano anche altri vantaggi…

Nepal- Katmandu dettaglio del tempio Swayambhunath | © Guido Alberto Rossi

Quali?

Lo stock era un concetto nuovo che sarebbe diventato presto molto redditizio. Infatti tra la metà degli anni ’80 e la fine degli anni ’90, io guadagnavo circa 25 milioni al mese solo con lo stock. Ma non ero l’unico: tutti. Avevo tirato dentro Image Bank tanti colleghi e c’erano fotografi sconosciuti che guadagnavano anche di più perché viaggiavano tanto e producevano molte immagini. Lo stock non solo rappresentava un introito sicuro mensile, ma aveva il potere di farti conoscere a tanti clienti nel mondo e le opportunità si moltiplicavano. C’era un collega che, grazie allo stock, era stato chiamato negli Stati Uniti a fotografare per Sport Illustrated. Ha firmato per tre anni di seguito lo speciale costumi da bagno ed era pagato 100 mila dollari a numero per lavorare con le modelle più famose. Naturalmente, presentandosi ai produttori di lingerie e costumi da bagno italiani con quel portfolio strepitoso la sua carriera era decollata. Anche a me si erano aperte tante porte. Negli anni ’80 ho lavorato molto per Le Figaro, Sunday Times, Stern, Bunte… ogni tanto mi chiamavano per andare a fotografare dei personaggi e io partivo.

Come si è sviluppato il lavoro con le agenzie?

C’erano molti clienti sia per l’attualità che per lo stock, ma nel 2001 Image Bank fu rilevata da Getty. Non ci trovammo bene e nel 2004 gettai la spugna. Chiusi anche Action Press per aprire una nuova agenzia, Tips, che rappresentava parecchi fotografi ed aveva in esclusiva i video del National Geographic. Quel nome prestigioso ci aiutava a trainare tutta l’agenzia, ma il modo di lavorare stava cambiando e ci toccò imparare a fare i conti con nuovi problemi. I clienti stavano prendendo l’abitudine di chiamare tante agenzie contemporaneamente chiedendo a tutte di fare la stessa ricerca di foto di stock. Per mantenere i rapporti buoni dovevi cercare di accontentarli anche quando si trattava di una foto poco importante. Così c’era bisogno di molte persone che si impegnassero a frugare tra gli archivi per trovare un cagnolino in riva al mare o una signora col cappello rosso. Le collezioni di foto non erano ancora digitalizzate come adesso. Dovevamo essere veloci ed efficienti ed era una corsa contro il tempo e, naturalmente, al ribasso. Se volevi aggiudicarti quel cliente dovevi essere competitivo in tutti i sensi. Tips ha retto fino al 2014, poi ha chiuso e ci abbiamo perso perché ormai i ritmi erano insostenibili e i guadagni irrisori.

Contadino vietnamita | © Guido Alberto Rossi

Tu avevi anche le tue foto in altre agenzie?

Sì, avevo circa 500 scatti di guerra e di sport in una agenzia inglese (Picture Library) e fino al 2015 ricevevo ogni mese tra i 1.500 e i 2.000 euro. Poi quell’agenzia fu acquistata da Shutterstock e nel giro di poche settimane le mie royalties scesero a 50 o 70 euro mensili.

Non mi hai raccontato di Gina Lollobrigida…

L’avevo conosciuta nel 1979 alla sfilata perché ero arrivato in anticipo. Non c’era ancora nessuno e mi ero seduto su una sedia in prima fila armeggiando un po’ con i miei obiettivi prima di spostarmi nell’area riservata ai fotografi. A un certo punto, di fianco a me si siede lei, mi sorride e mi chiede se può guardare nella macchina col teleobiettivo. Ma certamente! E così mi sono ritrovato a parlare di pellicole e di ottiche come se fossi con un collega e non con una stella del cinema. In effetti ero con una collega, ma non lo sapevo. Gina mi disse che faceva anche lei la fotografa e mi invitò a darle del tu. Io avevo appena firmato per rappresentare in Italia Image Bank ed ebbi la sfrontatezza di proporle di entrare a farne parte. Il resto è storia.

L’inaugurazione di Image Bank a Milano fu un successo incredibile anche grazie alla sua presenza e dopo poco arrivò la richiesta di un cliente giapponese che le commissionò una campagna di whiskey. Gina era entusiasta, la foto molto impegnativa. Volevano che lei fotografasse un’orchestra davanti alla fontana di Villa D’Este a Tivoli. La giornata di scatti fu intensa e, verso la fine, uno dei giapponesi dell’agenzia pubblicitaria chiese a Gina se poteva scattarle una foto ricordo. Poi tutti a casa.

Dopo qualche mese, Gina andò a Tokio dove trovò i manifesti del whiskey con il suo scatto dell’orchestra pubblicato piccolo piccolo e, bella grande, c’era la “foto ricordo” che la ritraeva con la macchina fotografica al collo. “Ci hanno fregati!”, mi disse, “sono diventata la testimonial del Whiskey”. Ma non si arrabbiò, ci rise.

Vietnam, marines americani sul fiume Meade, 1968 | © Guido Alberto Rossi

Sei anche stato in Vietnam, vero?

Sì, tre volte. Non erano esattamente assegnati, però una lettera di presentazione dell’Europeo mi aveva permesso di accreditarmi presso l’esercito americano. In genere i fotografi italiani si fermavano una settimana, io la prima volta rimasi 3 mesi perché volevo fare le cose fatte bene.

Non indossavo il giubbotto antiproiettile con la scritta Press come si fa adesso, avevo la mia divisa come un soldato americano. L’unica differenza era che io avevo le macchine e la tessera stampa e loro le munizioni. Poi c’erano anche i fotografi dell’esercito americano e a volte si lavorava insieme. Noi fotografi eravamo molto corteggiati dagli uffici stampa delle forze americane perché grazie a noi potevano fare vedere al mondo come operavano. C’erano i marines, l’esercito, la marina e l’aviazione. Io passavo da un ufficio stampa all’altro e tutti volevano che andassi con loro. Mi proponevano un volo su un caccia, una gita sulla porta aerei, oppure volevano portarmi in elicottero durante un’operazione dei marines. Avevo solo l’imbarazzo della scelta.

L’unica cosa che gli americani ti chiedevano era di non pubblicare subito le immagini di morti o feriti perché volevano avere il tempo di avvisare la famiglia prima che uscisse su un giornale. Con me andavano sul sicuro: in quel primo viaggio le mie foto furono pubblicate solo dopo tre mesi, quando rientrai in Italia ed ebbi modo di sviluppare e scegliere tutto. Riuscii a vendere anche un servizio sulla televisione vietnamita a Sorrisi e Canzoni, non solo servizi di guerra. Poi c’erano le vendite alle testate estere.

Vietnam, Soldati americani in un momento di relax, 1968 | © Guido Alberto Rossi
Vietnam, elicotteri dell’esercito americano, 1968 | © Guido Alberto Rossi
Vietnam, soldato americano a bordo di una nave da sbarco 1968 | © Guido Alberto Rossi

Oltre a vendere i servizi all’estero, ti sono mai capitati degli assegnati per riviste non italiane?

Sì e si notava una grande differenza nel modo di lavorare. Quando scattavo per una rivista di turismo italiana, al massimo mi davano un volo e un alberghetto, ma non pagavano quasi mai da mangiare o altre spese. Con gli stranieri potevo fare una nota spese e avevo un anticipo per affrontare il viaggio. Ma la differenza non era solo quella. Non ho mai scattato un servizio per Le Figaro che non fosse parte di una operazione commerciale più grande. Quando mi avevano mandato a Cuba, per esempio, io ero tutto spesato per rimanere tre settimane e il servizio era di 20 pagine più la copertina. Si trattava di una operazione commerciale per portare l’attenzione dell’opinione pubblica sullo stile di Cuba ed era appoggiata da diverse aziende. Non mi ricordo i dettagli, ma c’era YSL che firmava le piastrelle ispirate a Cuba, Pernod che aveva appena comprato Havana Club… durante il mio soggiorno ero stato invitato ad una grande festa dove c’era tutta l’intellighenzia dell’Havana e avevo potuto conoscere i capi delle forze dell’ordine ed altri personaggi che mi erano poi tornati utili per realizzare il mio servizio. Infatti avevo scattato le foto aeree a bordo di un elicottero dell’esercito.

Hai fatto spesso foto aeree?

È una delle mie specialità, infatti su 36 libri che ho pubblicato, solo 6 non sono di foto aeree. Ho anche comprato un aereo per fotografare meglio, un Cessna 210T e col mio amico pilota Enzo Bianchini abbiamo fotografato a tappeto tutte l’Italia, buona parte dell’Europa e del Nord Africa. Per fotografare le gare di Offshore, però, usavo l’elicottero.

Foto aerea dell’entroterra di Cairns, Queensland, Australia | © Guido Alberto Rossi

Fai ancora foto di viaggi?

Adesso? Certo e le metto sul mio sito per mio piacere personale, ma non cerco più di venderle. L’ultima volta che ho provato a farmi un po’ di pubblicità non è servito, la professione del fotografo non è più quella che ho conosciuto io. Ogni tanto mi chiamano ancora per usare qualche mia foto per la copertina di un libro o un giornale. Mi offrono delle cifre bassissime pagate a 60 giorni. Io dico di no. Ci sono alcuni clienti esteri che non fanno una piega per il prezzo o per le modalità di pagamento, ma con i clienti italiani – specialmente quelli editoriali – non vale più la pena lavorare.

Ho anche tagliato i ponti con tutte le agenzie che mi rappresentavano e ho tolto tutte le mie foto di stock dal mercato. Le ho lasciate solo sul mio sito.

Giorgio Armani fotografato per la copertina de Il Mondo negli anni ‘80 | © Guido Alberto Rossi

Cosa ti ha fatto prendere questa decisione?

È stata l’ultima foto che ho venduto con una agenzia di stock, un ritratto posato di Giorgio Armani. Quando ho visto quanto ero stato pagato ho preso la mia decisione. Sai quanto? Ben 25 centesimi.

Enzo Dal Verme

www.enzodalverme.com
www.workshop-ritratto.it

1 replys to Fotografare la guerra del Vietnam, la Formula Uno e… qualche ragazza nuda. Intervista a Guido Alberto Rossi

  1. Il racconto di ricordi dal piacevole fascino descrittivo a cui Guido Rossi ci ha abituato. Molto bravo e interessante come sempre.

Comments are closed.