“Credo che il luogo sia innanzitutto un fatto concettuale, cioè un fatto di cultura: se si opera a Parigi, a Barcellona, a Milano o a Roma, le condizioni sono diverse. Capire queste diversità e conoscerle, diventa, per chi si accinge a progettare, una necessità, in quanto si deve operare in continuità con la tradizione di un luogo”.
“L’architettura è spazio concreto, cosa positiva che si costituisce con la città dove fatti privati e fatti collettivi partecipano alla trasformazione della natura con l’azione della ragione e della memoria”.
“Spazi e cose hanno un’anima, una vitalità che deve essere percepita da colui che ne fruisce, stabilendo un contatto e una comunicazione intellettuale ed emotiva” (Gae Aulenti).
Fino al 12 gennaio 2025 alla Triennale di Milano – negli spazi della Galleria progettata da Gae Aulenti alla fine degli anni Novanta – è esposta la prima grande retrospettiva su una delle voci femminili più significative dell’architettura italiana del Novecento.
La mostra, a cura di Giovanni Agosti in collaborazione con Nina Artioli, Nina Bassoli e l’Archivio Gae Aulenti, tra “rigore scientifico e palpabile umanità” ripercorre sessant’anni di carriera dell’architetto, cercando di tratteggiarne un “ritratto intellettuale” attraverso il racconto di un’intensa storia umana e professionale in cui attività e vita personale si intersecano con la cultura dell’epoca, “con un occhio di riguardo agli intrecci tra architettura e le altre arti, ma anche tra cultura e politica”.
Va premesso che, per “restituire il senso di una vita, fatta di costanza e fedeltà, ma anche di dètour e abbandoni”, l’esposizione – a differenza di altre mostre di architettura – non è esclusivamente fotografica o documentaria, ma offre, attraverso un allestimento inusuale e immersivo a cura dello studio Tspoon, una visione alternativa e complementare alla fotografia che tende alla “resurrezione dell’effimero”, fatta di una sequenza cronologica di 13 ambienti che, senza soluzione di continuità, si incastrano l’uno nell’altro in maniera quasi cubista, proponendo fedeli ricostruzioni in grandezza 1:1, ricche di dettagli, relative ad alcune tipologie di lavori dell’architetto (allestimenti, negozi, appartamenti, scenografie, musei, metropolitane e aeroporti), che ne riassumono l’attività professionale in un arco di tempo che va dal 1964 al 2012, “dall’Italia del boom a quella dell’altro ieri”.
Qui la fotografia, raccolta insieme a disegni, modellini, lettere, appunti, riviste e altri documenti storici dell’archivio di famiglia in teche dietro le quinte di una messinscena quasi teatrale, fa da contraltare – quale testimonianza in “bianco e nero” – ad una ricostruzione “a colori”, in un continuo rimando tra presente e passato, esperienza e racconto, realtà e ricordo: ciò che nell’attraversare ambienti compenetrati viene semplicemente evocato da una narrazione asciutta e asettica si trasforma – al di là di una parete – in un ricco e approfondito racconto per immagini che dà vita a ciascuna delle storie rievocate, esponendo il rigoroso metodo di lavoro, l’immaginario e la vita di Gae e testimoniando la sua lunga carriera di grafica, architetto, designer e scenografa, iniziata con i grandi maestri del Dopoguerra (Ernesto Nathan Rogers e Giuseppe Samonà) e portata avanti con entusiasmo instancabile attraverso una continua ricerca, un approccio trasversale e un rifiuto per le specializzazioni.
In questo percorso di progettazione globale la fotografia, tra le sue passioni, rappresenta una costante, punto di partenza e arrivo delle sue creazioni, spesso immortalate da grandi fotografi e pubblicate sulle riviste dell’epoca. Lei stessa, in casa o al lavoro, in cantiere o in barca, da sola o a fianco di grandi personaggi, è spesso soggetto di fotografie di noti fotografi come Ugo Mulas o di colleghi come Ettore Sottsass, incarnando una “personale iconografia che ha attraversato, pressoché indenne, le mode, mentre i capelli mutavano colore e il viso si popolava di rughe”.
La mostra è accompagnata da una Guida, scritta da Giovanni Agosti ed edita da Electa, che, oltre alle opere esposte, raccoglie una breve biografia dell’architetto e una sommaria bibliografia, affiancata da un catalogo contenente una cronologia illustrata, un regesto dei suoi lavori e il memorial dell’allestimento, cui si aggiunge un mazzo di carte, che funge da filo d’Arianna per districarsi nel labirinto della mostra attraverso 88 personaggi appartenenti ai suoi innumerevoli mondi. Questi ultimi, disegnati dalla figlia Giovanna Buzzi – nota costumista – e accompagnati da un testo di Agosti, contengono “pillole di storia, pubblica e privata, funzionali a ricostruire una commedia sociale e professionale” e un mondo oggi scomparso.
Ma chi era esattamente “la Gae”?
Molto più che un architetto, Gaetana Emilia Anna Maria Aulenti (Palazzolo dello Stella 1927 – Milano 2012), fu una figura centrale nella scena culturale e nella società dal Dopoguerra all’inizio del XXI secolo. Nata “per caso” in Friuli da una famiglia del sud e cresciuta a Biella, era una donna visionaria, tenace e indipendente, dalla forte personalità, autodefinitasi “spirito nomade e cittadina del mondo”, che ha testimoniato con la propria vita un costante desiderio di libertà e curiosità che, durante il periodo bellico, l’ha portata a formarsi tra Firenze e Torino, passando dall’Istituto Tecnico Commerciale al liceo artistico, fiancheggiando le lotte partigiane ed aderendo al Partito Comunista, per poi trasferirsi a Milano e laurearsi nel 1953 al Politecnico (una delle pochissime donne a farlo e ad esercitare la professione), per poi frequentare – pur restando sempre di sinistra – il mondo dei più ricchi capitalisti, passando dalla Parigi di Mitterrand alla Roma del Quirinale alla Venezia delle Biennali, con al centro – sempre – Milano. Nella sua professione spaziò dall’architettura al design, dalle scenografie agli allestimenti, dall’arredamento alla grafica, con una predilezione per i luoghi destinati alla fruizione dell’arte e della cultura, sempre però partendo da un approfondito studio dell’esistente, per creare “progetti in perfetta sintonia che parlassero la stessa lingua del contesto a cui erano destinati”.
Una delle prime passioni, all’origine della sua fortuna, è quella per la grafica: dal 1952, infatti, non ancora laureata, impagina la rivista aziendale della Olivetti, una delle società più all’avanguardia dell’epoca con cui collaborerà a lungo, costruendo un’importante rete di relazioni che la accompagneranno tutta la vita garantendole numerose opportunità di lavoro; allo stesso modo nel 1955 entra nella redazione della prestigiosa rivista Casabella-Continuità, allora diretta da Rogers, altra importante palestra e vetrina sul mondo dell’architettura (e non solo), all’apice della sua autorevolezza internazionale. Più tardi questo talento, pur passando in secondo piano, non scomparirà del tutto, concretizzandosi in inviti per mostre e inaugurazioni, volumi stampati o divertissement come l’illustrazione di un viaggio in Tunisia nel 1965.
In quegli anni, infatti, Gae viaggia spesso sola in giro per il mondo, dall’America all’Asia, dall’Africa all’Unione Sovietica, e qui, dominata dalla curiosità, studia e fotografa architetture e persone, registrando e annotando impressioni su agende e taccuini (soprattutto quelle della Olivetti disegnate da Enzo Mari), ma anche acquistando oggetti di ogni genere da cui ricavare, “talvolta in maniera insospettabile”, stimoli per le sue creazioni.
Lasciata la carriera universitaria – quale assistente di Samonà a Venezia e di Rogers a Milano – per darsi totalmente alla libera professione, nel 1969 trasferisce casa e studio in via Annunciata 7, iniziando un’intensa carriera soprattutto nel campo del design e dell’architettura di interni.
Nel 1962 progetta infatti la sedia a dondolo Sgarsul di Poltronova, che prende il soprannome dal nuovo amore Carlo Ripa di Meana (lasciato il marito Franco Buzzi Ceriani conosciuto all’università). A questo primo oggetto di design ne seguiranno molti altri, mai puramente decorativi ma concepiti per completare lo spazio in cui sono inseriti, realizzati per conto di Knoll, Fontana Arte (di cui sarà direttore artistico dal 1979 al 1996), Kartell e Artemide, tutti ritratti dallo studio fotografico Ballo & Ballo (di cui abbiamo parlato relativamente a questo genere di fotografia): tra questi si ricordano le sedie Locus Solus e April e la lampada Pipistrello, prodotte da Zanotta e Martinelli Luce, esposte nel 1972 – insieme a un “environment rosso” appositamente creato – al Moma di New York alla mostra dedicata al design italiano “Italy: the new domestic landscape”, o il tavolo con ruote, presente nella collezione permanente del Moma e del Centre Pompidou di Parigi.
Impegnata in ogni genere di progetto, all’inizio della carriera Gae allestisce numerosi negozi commerciali, come il Centro Fly di Milano (1966), breve esperienza pionieristica di negozio multimarca specializzato in mobili e oggetti per la casa di cui fu progettista e art director: era un ambiente di quasi 2.000 mq con scale mobili arancioni e motivi optical alle pareti, con uno spazio per bambini e uno per mostre temporanee (di cui la prima dedicata a Sottsass), in cui, oltre a mobili e oggetti di noti architetti e designer come Alvar Aalto, Magistretti, Zanuso, Sottsass e altri (tra cui la stessa Gae), si potevano acquistare opere d’arte, da Fontana a Warhol.
Di grande interesse anche i suoi negozi Olivetti: quello di Parigi caratterizzato da “una sorta di piazza bianca lucida con una capsula rossa al centro” in cui campeggiava la lampada Pipistrello, e quello di Buenos Aires concepito come un caleidoscopio di specchi su cui le luci (tra cui la lampada King Sun della Kartell, in alluminio e perspex, da lei appositamente disegnata) rimbalzavano avvolgendo il visitatore, mentre scaffali a gradoni accoglievano calcolatrici e macchine da scrivere.
Molti dei suoi mobili in plastica per la Kartell popolano gli spazi da lei progettati dalla fine degli anni ’60 per la Fiat, dove arreda filiali e concessionari (per cui metterà a punto anche un manuale), progetta esposizioni per saloni automobilistici ed allestisce negozi, in Italia e all’estero, per i quali a Zurigo e Bruxelles idea un nuovo modo di esporre le automobili, disponendole sulle pareti con effetto pop art, attraverso una rampa inclinata che crea una sorta di movimento centrifugo, “facendo quasi entrare la strada tra le mura dell’edificio”.
Con la FIAT Gae collaborerà a lungo, anche alla luce di un rapporto di amicizia con Marella e Gianni Agnelli, per i quali arreda nel 1969 un appartamento a Milano (“Casa di un collezionista”), creando “uno spazio modernissimo, dalle pareti bianche laccate con impianti illuminotecnici e acustici ad hoc” in cui esporre opere di arte contemporanea, da Bacon a Lichtenstein, a testimoniare il gusto dei proprietari.
Questo intervento, anche grazie alle fotografie di Ugo Mulas, diventerà una pietra miliare nella sua carriera per quanto riguarda le residenze private, sebbene il suo primo progetto del genere – a Milano San Siro – risalga al 1956, non più esistente e documentato dagli scatti di Carla De Benedetti su Casabella. Da qui inizia una serie di committenze private per abitazioni e case di vacanza di illustri personaggi – spesso riprodotte sulle riviste di settore e popolate dai suoi oggetti di design (così come le sue case, che fungono anche da studio e in cui opera in “contiguità talvolta totale”): in tutti i casi nei suoi progetti cerca di “precisare uno spazio, definire una struttura, già tanto compiuta e completa in sé, in modo che entrando in questi ambienti vuoti sembrino già perfettamente pieni e ci si stia benissimo, abitando uno spazio già tutto risolto” (G. Aulenti), a cui ognuno può aggiungere la sua personalità. Tra questi in mostra è riprodotto il salotto dell’appartamento per la famiglia Brion (titolari della Brionvega) di San Michele di Pagana, in Liguria, raggiungibile attraverso una innovativa scala esterna.
Da segnalare anche la spettacolare Grotta rosa a Conca dei Marini in Costiera Amalfitana per l’ingegnere Lolli (per cui arreda case a Milano, Roma, Londra, in Sardegna e a Cannes), ma anche l’altana del palazzo fiorentino del nobile Emilio Pucci, punto di riferimento per la moda italiana, dove crea un “blocco autonomo, come un grande oggetto industriale, tutto in acciaio inossidabile, indipendente dall’involucro che lo contiene”, popolato da mobili e lampade da lei stessa disegnati, da cui osservare la cupola del Brunelleschi. Per lo stesso committente nel 1970 Gae realizzerà anche – unica esperienza del genere – il giardino di Granaiolo in Valdelsa, tra una collina boscosa e un fiume, trasformando – in base alle coeve esperienze di Land Art – un giardino all’italiana di inizio secolo in una “armonia naturale”, in cui la conformazione del terreno viene esaltata da terrazze erbose degradanti e gradinate in cemento.
Se design e architettura di interni occupano una parte importante della carriera dell’architetto, la sua preferenza va però agli spazi per l’arte e la cultura, con una commistione di generi che dà origine “all’arte nell’arte” in grado di emozionare, stimolare ed educare, affermando quella funzione sociale che è per lei una caratteristica imprescindibile dell’architettura.
La partenza in questo campo è proprio dalla Triennale di Milano, istituzione che la accompagnerà costantemente fino al 2012 quando, pochi giorni prima della scomparsa, conseguirà, insieme all’amico Vittorio Gregotti, il premio Medaglia d’oro all’architettura italiana. Qui nel 1951, non ancora laureata, aveva collaborato all’allestimento di una mostra di studenti di architettura, e, nel 1964, aveva vinto il Gran premio internazionale alla XIII Triennale dedicata al “Tempo delle vacanze” con la Sala “L’arrivo al mare”, in cui sagome di donne “gioiosamente abbaglianti” più volte riflesse sugli specchi – omaggio alle “Deux femmes courant sur la plage” di Picasso – correvano libere nello spazio.
Seguiranno la mostra Olivetti, Formes et recherche, presentata a Parigi nel 1970 e poi a Barcellona, Madrid, Edimburgo, Londra e Tokyo: “uno dei risultati più altri della sua creatività e di una stagione imprenditoriale italiana”, ridisegnata a ogni cambio di tappa, con manifesto di Sottsass e musiche dei Beatles e dei Rolling Stones, e quella dell’artista bulgaro Christo alla Rotonda della Besana di Milano sul Valley Curtain (un gigantesco sipario arancione teso per 28 ore tra le gole del Colorado), caratterizzata da uno spazio labirintico “che si insinua tra le colonne dell’antico edificio”, con pilastri tardobarocchi e controsoffitti a varie altezze.
Risale invece al 1974 – dopo la visione della rivoluzionaria Walkiria di Wagner a regia di Luca Roncoroni alla Scala di Milano – il primo lavoro per il teatro e l’opera, a fianco dello stesso Roncoroni, con cui Gae inizierà un sodalizio professionale e un profondo legame di amicizia, firmando scene e costumi (questi ultimi disegnati dalla figlia Giovanna) per le Astuzie Femminili di Cimarosa al Teatro Mediterraneo di Napoli, dando avvio a una stagione in cui il teatro catalizza le sue energie, toccando l’apice di complessità teorica e progettuale tra 1976 e 1978 nel Laboratorio di progettazione teatrale di Prato. Qui si sperimentano nuove forme di comunicazione e di utilizzo dello spazio, messe a punto nello spettacolo Le Baccanti di Euripide – immortalato dalle fotografie di Marcello Norberth – con un’unica attrice in uno spoglio corridoio di un ex orfanotrofio, interrotto da una parete in mattoni, con sedie destinate a soli 24 spettatori.
Seguono La Torre, per cui Gae ricostruisce la reggia di Wurzburg in una fabbrica dismessa, e Caldéron di Pasolini, dove unifica spazio e platea del teatro Metastasio riportando sulle pareti della scena l’intero testo delle Poesie di Casarsa, spettacoli che le valgono nel 1979 il Premio UBU, il riconoscimento italiano più importante per il teatro. Questa lunga stagione, che passa per il Barbiere di Siviglia a Parigi, il Wozzeck a Milano e la prima esecuzione moderna di Viaggio a Reims a Pesaro, termina nel 1994 con la scenografia per l’Elektra di Strauss alla Scala, dove la reggia di Micene – in cui si consuma la tragedia di Elettra, Oreste e Climnestra – viene raffigurata come una macelleria, con animali sanguinanti appesi sullo sfondo.
“Io credo che non esista una ‘tipologia del museo’, ma esista ‘l’architettura del museo’. Credo che l’interno di un museo sia un insieme stabile con una stabile strutturazione e con una definita configurazione spaziale”.
“La visita di un museo è un acceleratore di coscienza, il problema è di imporre, quasi di produrre, un’inquietudine intellettuale e non un appagamento, perché la visione dell’opera d’arte è sempre inquietante ed è generatrice di domande” (Gae Aulenti).
Nel 1980 la vittoria al concorso per gli interni della Gare d’Orsay di Parigi si traduce nell’invenzione di un nuovo museo dove – d’intesa con lo storico dell’arte Michel Laclotte e in collaborazione con il light designer Piero Castiglioni – Gae disegna ogni dettaglio dell’allestimento, tra cui le lunghe panche su cui disporre le sculture, studiando il rapporto visuale tra il visitatore e più di 4.000 oggetti e creando una successione di sale, gallerie e spazi diversificati in cui le opere ottocentesche sono perfettamente inserite nell’edificio storico, attraverso soluzioni innovative e raffinate – seppur all’epoca criticate – in cui “l’estrema varietà delle opere esposte trova una cornice versatile ma unitaria che le valorizza senza rinunciare alla sua identità architettonica”.
Da questa importante e faticosa esperienza, oltre che una notorietà a livello mondiale, nasce per Gae un nuovo corso di prestigiosi progetti museali, a partire da Palazzo Grassi a Venezia (di proprietà FIAT dal 1983), ove arreda gli spazi e allestisce esposizioni (iniziando con Futurismo & futurismi), alternando “soluzioni espositive classiche e sorprendenti a un tempo”, passando poi per Parigi, Barcellona, San Francisco, Istanbul, Roma, Torino e Tokyo, in Giappone, paese che le ha conferito il Praemium Imperiale.
Nella maggior parte dei casi si tratta di riuso e trasformazione di edifici storici, in cui l’architetto opera senza stravolgerne la struttura e l’identità, attraverso interventi riconoscibili che giocano sui contrasti, con ambienti a misura del visitatore a confronto con la monumentalità originaria, rispettando l’esistente e raccordando vecchio e nuovo, in modo da trasformare i limiti in risorsa, quale occasione di interazione tra architettura ed arte. Partendo infatti dal presupposto che “il contemporaneo deve integrarsi con il passato” e che “il contenitore dipende dal contenuto”, ogni museo che Gae realizza ha una specificità in relazione alle opere esposte, le quali definiscono l’allestimento, nel quale gli elementi espositivi non sono subordinati, ma generano un dialogo con quanto esposto.
Il viaggio nella sorprendente carriera di Gae continua attraverso sperimentazioni in varie branche dell’architettura, da scuole materne a mense aziendali, da residenze a termovalorizzatori, da luoghi della cultura, tra cui lo Spazio Oberdan di Milano (trasformazione del Cinema Giardini di Porta Venezia in centro culturale per esposizioni e sala cinematografica d’essai sede della Cineteca Italiana), a spazi urbani, in cui lei progetta in stretta relazione con il contesto esistente.
A Milano infatti, sua città di elezione (in cui anni prima aveva coordinato il progetto “Milano invece di Milano”, idea visionaria mai realizzata che prevedeva “l’esclusione metodica delle automobili private dal centro della città”), reinventa piazzale Cadorna, con l’obiettivo di “ricucire” e connettere i vari elementi della piazza attraverso la creazione di uno spazio pubblico da restituire ai cittadini disseminato di colonne, pensiline colorate e tettoie in vetro, in cui campeggia il monumento Ago e Filo di Oldenburg e Van Bruggen.
Allo stesso modo a Napoli, dove – all’interno del progetto Stazioni dell’arte – realizza le fermate della metropolitana Dante e Museo collocandovi riproduzioni delle opere del Museo Archeologico Nazionale e fotografie di Mimmo Jodice, cura il ridisegno delle rispettive piazze, derivante dalla ricerca di un’unità dello spazio, così come nel progetto di piazza San Giovanni a Gubbio, da lei donato alla città.
Ed è proprio nella sua amata Umbria, dove possiede una casa di campagna fra le colline, che, con l’ultimo lavoro da lei inaugurato – l’Aeroporto internazionale dell’Umbria S. Francesco d’Assisi, i cui rossi padiglioni (il suo colore preferito) dialogano con il paesaggio circostante – il viaggio di Gae, così come la mostra, si interrompono, concludendo il racconto di un’incredibile vicenda espressiva, estesa ben oltre i confini dell’architettura, che vale la pena di raccontare.
Patrizia Dellavedova
Foto di copertina: XIII Triennale – Arrivo al Mare, Publifoto, 1964 – © Triennale Milano. Ove non diversamente specificato le foto sono dell’autore.