Quando la fotografa vietnamita Hiền Hoàng parla del suo lavoro, la conversazione scivola con naturalezza tra memoria, migrazione e la presenza silenziosa degli alberi. Dopo aver trascorso più di quattordici anni in Germania, si è recentemente trasferita a Londra per iniziare un Master al Royal College of Art, con l’intenzione di proseguire poi con un dottorato. Con una voce dolce ma colma di passione, racconta come è iniziato il suo percorso artistico: dall’esperienza della zia come lavoratrice vietnamita in Germania dell’Est negli anni Ottanta, alle questioni di identità culturale espresse attraverso il cibo, fino a un’esplorazione profonda e singolare di come i paesaggi e gli alberi conservino tracce di violenza e memoria.
Come artista multidisciplinare, Hiền oggi vive e lavora tra culture diverse, muovendosi con fluidità tra fotografia, performance, installazione, video, suono e collaborazioni scientifiche.


Il suo lavoro spesso parte da una domanda semplice che poi rivela un livello di complessità sociale molto più profondo. Il suo punto di partenza è stato la famiglia:
“Ho iniziato con Across the Ocean, un progetto su mia zia (…) quel lavoro mi ha portato a guardare più in profondità al Vietnam. Mi sono interessata al silenzio, ai pesi invisibili e intangibili – come mia zia portasse con sé il suo sogno ma anche la sofferenza di essere la prima della famiglia a migrare,” mi racconta.
Questo corpo di lavoro le è valso un posto da finalista al Discovery Award di Les Rencontres d’Arles nel 2023.
È affascinante ascoltare come sviluppa i suoi progetti attraverso un processo di ricerca accurato e rigoroso — linguistico, storico e corporeo. Nulla è lasciato da parte o trascurato.
Gran parte del suo lavoro nasce dalla sua esperienza di vita tra Vietnam e Germania. Riflette spesso sulle aspettative poste su di lei come donna asiatica in Europa, così come sulle pressioni diverse che avverte quando torna in Vietnam, dove ci si aspetta che incarni un’idea di “autenticità” culturale. Questa dualità- appartenere ovunque e in nessun luogo allo stesso tempo- ha plasmato un’opera che è insieme intima e analitica.
“In Asia Bistro, il cibo è diventato una metafora del peso – un contenitore che trasporta memoria, identità culturale e storia personale, ma anche un veicolo di cliché, discriminazione e del peso dell’essere percepiti come ‘altri’ quando si vive all’estero,” spiega.

In Scent from Heaven, ha spostato lo sguardo verso gli alberi, usandoli come “metafore di dolore, resilienza e memoria”. Ha ricevuto un Art Grant dal Ministero della Cultura e dei Media di Amburgo per portare avanti questo progetto, combinando metodologie scientifiche (CT ed EEG) e VR immersiva per esplorare la sofferenza e la trasformazione dell’albero di Aquilaria. In Vietnam, l’Aquilaria produce l’agarwood – una sostanza di immenso valore culturale ed economico – solo quando viene ferita. Questo paradosso, come la sofferenza generi qualcosa di prezioso, riecheggia il modo in cui anche i paesaggi custodiscono memoria.
“Gli alberi mi affascinano perché sono testimoni della storia. Alcuni hanno centinaia o migliaia di anni, osservano silenziosamente guerre, costruzioni e vite umane che scorrono. Una volta ho visto un bellissimo albero in un villaggio francese che poi ho scoperto essere stato usato per le esecuzioni nel Medioevo. Questa tensione, tra la quieta presenza dell’albero e la violenta storia umana che lo circonda, è qualcosa a cui torno continuamente.”
Sulla base di queste ricerche, il suo progetto del 2024 Garden of Entanglement mostra il crescente interesse di Hiền per i confini porosi tra esistenza umana e non umana. Sostenuta da un Art Grant della Commissione Europea S+T+ARTS, indaga la vita vibrazionale degli alberi attraverso misurazioni dinamiche e sonificazione. In collaborazione con scienziati che studiano la comunicazione delle piante, esplora come gli alberi rispondano a suono, vibrazione e movimento, sfidando l’idea che la natura sia silenziosa o passiva. La sua capacità di intrecciare narrazioni ecologiche con approcci artistici innovativi e basati sui dati le è valsa il prestigioso Foam Paul Huf Award nel 2024.
Il lavoro di Hiền resiste alla semplificazione. La sua arte è complessa, ambigua e intreccia sistemi diversi- culturali, biologici, emotivi e politici. Nella sua fotografia, tratta le immagini come spazi relazionali, modellati da gesti, suoni, memorie e dai corpi che li abitano.
Ascoltandola parlare, sono rimasta affascinata dalle sue riflessioni sul percorso artistico, su come affronta la natura mutevole dell’identità, l’eredità delle storie familiari e i processi delicati che guidano il suo lavoro. È un’artista che sa ascoltare in profondità – attraverso culture, lingue e persino specie diverse- alla ricerca di nuovi modi per comprendere gli spazi che condividiamo.

Come è iniziato il tuo percorso artistico? C’è stato un momento o un’esperienza che ti ha fatto capire che quella sarebbe stata la tua strada?
Ripensandoci, credo che il mio percorso artistico sia iniziato da bambina, leggendo libri sulla bellezza delle forme matematiche e guardando immagini dell’universo. Mio padre mi ha insegnato a disegnare e dipingere, e spesso sgattaiolavo nella stanza di mio zio, piena di manga e libri di storia dell’arte. Un giorno ho aperto per sbaglio la sua macchina fotografica e ho esposto la pellicola alla luce. All’epoca non capivo perché fosse così frustrato, ma quel momento, quando l’immagine si è bruciata e scomparsa, ha acceso in me la curiosità per la fotografia.
Diventare artista o fotografa non è mai stato qualcosa che i miei genitori incoraggiassero. Vedevano tutto questo come un hobby e volevano che studiassi qualcosa di più sicuro. Così sono andata in Germania per studiare teoria della comunicazione. Lì ho incontrato un cibo vietnamita dal sapore completamente diverso da quello che conoscevo. Quel gusto estraneo mi sembrò strano ma anche sorprendentemente liberatorio. Mi fece capire come l’identità possa trasformarsi.
Contrariamente alle aspettative dei miei genitori, decisi di dedicarmi seriamente alla fotografia. Gradualmente, il mio lavoro si è ampliato oltre la fotografia, includendo performance e installazioni, sia all’interno che all’aperto. Non avevo un soldo per l’arte, ma feci domanda per un finanziamento per la mia prima installazione all’aperto. Quando ricevetti la lettera di conferma, la prima volta che venivo pagata per creare, capii che quella era la strada che volevo seguire per tutta la vita.
In Asia Bistro e Made in Rice affronti i temi dell’identità, della migrazione e delle percezioni sociali degli immigrati, usando il cibo come simbolo. Perché proprio il cibo? In che modo pensi che la sua rappresentazione possa svelare o mettere in discussione gli stereotipi sugli immigrati vietnamiti e asiatici in Occidente?
Il punto di partenza di Asia Bistro in realtà veniva da qualcosa di molto semplice: gli involtini primavera che comprai per la prima volta a Berlino. Da quell’attimo banale iniziai una riflessione profonda che mi portò alla fotografia e poi all’arte. Per me il cibo è estremamente personale. Rivela chi siamo: le nostre memorie, la nostra cultura, perfino le nostre credenze. Eppure il cibo può anche essere massificato e consumato, diventando un simbolo conveniente per rappresentare un’intera cultura, trasformandosi così in un cliché.
Allo stesso tempo, il cibo è un’ancora di sopravvivenza per molti immigrati. Vendere cibo è uno dei modi più comuni per sopravvivere in un nuovo paese. È così per molti vietnamiti che aprono piccoli bistrò in Germania, come per le famiglie italiane che aprirono ristoranti quando arrivarono in America. Ma questi luoghi non sono solo attività commerciali; sono spazi sociali, dove le comunità si riuniscono, dove si ritrova un senso di casa e dove la cultura viene preservata.
Per questa doppia natura, conservazione e stereotipo, ho scelto il cibo come elemento centrale per parlare di identità, migrazione e discriminazione. In Asia Bistro e Made in Rice, manipolo il cibo combinandolo con materiali non commestibili e con azioni performative, per interrogare cosa consumiamo davvero quando mangiamo “cibo asiatico” in Occidente. Non si tratta solo dell’involtino in sé, ma delle immagini e delle aspettative che gli vengono associate: come vediamo, stereotipiamo o fraintendiamo una cultura. Trasformando il cibo in qualcosa di estraneo o inquietante, voglio invitare gli spettatori a ripensare cosa significhi “consumare” una cultura e come possiamo passare dal cliché a una comprensione autentica.

Hai descritto la tua pratica come un continuo interrogarti sull’identità, chiedendoti se sia davvero tua o se rifletta l’etichetta di “essere asiatica”. Guardando al tuo percorso, oggi come definiresti l’identità: qualcosa di stabile, di fluido, o piuttosto un campo di tensione sempre in trasformazione?
Per me l’identità non è mai sembrata qualcosa di stabile. Si muove costantemente tra ciò che penso di essere e ciò che gli altri vedono in me. Quando arrivai in Germania, mi veniva spesso attribuita l’etichetta di “asiatica”, come se quella parola potesse descrivere tutto ciò che ero. All’inizio cercavo di resistere, ma poi ho capito che anche resistere significa essere comunque definiti dal ruolo che la societa’ ti assegna. Da lì ho iniziato a interrogarmi su cosa della mia identità fosse realmente mio e cosa fosse il risultato di proiezioni esterne.
Nei miei lavori iniziali, come Asia Bistro e Made in Rice, ho usato la performance e la fotografia per esaminare queste proiezioni: come cliché e stereotipi visivi costruiscono un’immagine superficiale che gli altri si aspettano di vedere. Con il tempo, la mia idea di identità è diventata più fluida e relazionale. Non è qualcosa che possiedo, ma qualcosa che emerge dagli incontri: tra culture, lingue e storie. In questo senso, vedo la mia pratica come un atto continuo di ridefinizione. Non si tratta di trovare un sé stabile, ma di rimanere aperti al processo del divenire.
In Germania hai parlato delle pressioni a conformarti a certi stereotipi. In Vietnam, invece, ti capita di sentire la pressione opposta, quella di dover dimostrare autenticità o giustificare scelte considerate “occidentali”? In che modo questo movimento tra due contesti diversi modella il tuo senso di “casa” e di “identità”?
Sì, assolutamente. In Germania spesso sentivo la pressione di rappresentare o performare una certa “identità asiatica” che si adattasse alle aspettative: essere educata, esotica, laboriosa, silenziosa. Ma quando torno in Vietnam, affronto un’altra forma di pressione: dimostrare di essere ancora autentica, ancora connessa alle mie radici, e non troppo “occidentalizzata”. È come vivere tra due specchi che ti deformano in modi diversi.
Per molto tempo questa condizione intermedia mi ha fatto sentire irrequieta, come se non appartenessi a nessun luogo. Con il tempo però ho iniziato a considerare questa tensione come parte di me. Il senso di “casa”, per me, è diventato meno geografico e più relazionale: le persone con cui mi connetto, gli alberi con cui lavoro, le lingue attraverso cui mi muovo.


La tua ricerca spesso attraversa esperienze generazionali, come nel lavoro su tua zia, arrivata in Germania come lavoratrice ospite. Quanto la sua storia ha influenzato la tua? Ti capita di pensare che la possibilità di esprimerti in maniera più provocatoria attraverso l’arte sia un privilegio che a lei non era concesso?
Sì, decisamente. La storia di mia zia come lavoratrice ospite in Germania è stata un riferimento emotivo profondo nella mia pratica. Apparteneva a una generazione che portava con sé molte speranze e sacrifici, ma anche molto silenzio. Nelle lettere e nelle fotografie che mandava a casa appariva sempre allegra, ben vestita, orgogliosa. Ma dietro quelle immagini c’erano soffocamento e durezza della vita quotidiana: la lotta con la lingua, il clima, il cibo, e la consapevolezza costante di essere monitorata.
Quando iniziai a leggere le sue lettere e a guardare le sue foto, capii quanto della sua identità fosse costruita per gli altri: per la famiglia in Vietnam e per la società in cui cercava di integrarsi. Questa consapevolezza è diventata la base di Across the Ocean e Made in Rice, dove cerco di rivelare ciò che rimane non detto.
Sì, credo che la mia possibilità di parlare apertamente, di essere critica o provocatoria nell’arte, sia un privilegio che lei non ha avuto. Ma è anche una continuazione della sua storia. In un certo senso, è qualcosa che la sua generazione mi ha donato. Il suo silenzio ha creato lo spazio per la mia voce. Il mio lavoro diventa così un dialogo con loro, riconoscendo i loro limiti ma estendendo la loro voce in un’altra forma.


Il linguaggio è centrale nella formazione dell’identita’, soprattutto per chi migra. Quanto può pesare la mancanza di una lingua condivisa, e quanto invece l’arte può dire meglio delle parole quello che spesso resta indicibile?
Il linguaggio è allo stesso tempo un ponte e una barriera. Per gli immigrati, la mancanza di una lingua condivisa significa spesso la mancanza di appartenenza. Comprendi le cose diversamente, più lentamente, o a volte per nulla. C’è sempre un ritardo tra ciò che vuoi dire e ciò che riesci a dire. Questa distanza genera una forma di solitudine che non riguarda solo le parole, ma anche il modo in cui vieni visto e compreso.
Quando mi trasferii in Germania, sentivo spesso che i miei pensieri correvano più veloci del mio tedesco. Mi stavo traducendo continuamente, e attraverso questo processo ho capito quanto il linguaggio plasmi l’identità. Il momento in cui non trovavo la parola giusta era anche il momento in cui comprendevo quanto fragile potesse essere l’identità in una nuova lingua.
L’arte mi offre un altro modo per parlare attraverso materiali, immagini, suoni e gesti. Permette che emozioni e memorie siano espresse oltre le parole. Ciò che non può essere detto può comunque essere sentito. In questo senso, la mia pratica riguarda anche la ricerca di linguaggi oltre il linguaggio, creando uno spazio dove emozione, memoria e percezione possano essere vissute senza bisogno di traduzione.
Nel progetto Garden of Entanglement traduci le reazioni degli alberi in dati grazie alla collaborazione con scienziati. Ti sei mai chiesta se certi metodi scientifici possano risultare troppo riduttivi, o persino violenti, nel tentativo di rappresentare esseri viventi?
Sì, è una domanda che mi pongo spesso. I metodi scientifici sono utilissimi nel permetterci di percepire ciò che è invisibile ai nostri sensi, come vibrazioni, frequenze o movimenti microscopici degli esseri viventi. In Garden of Entanglement ho collaborato con scienziati per registrare e tradurre le vibrazioni sottili degli alberi in dati. Questo mi ha permesso di percepire le loro risposte alla presenza umana o ai cambiamenti ambientali in modi altrimenti impossibili.
Ma allo stesso tempo, i metodi scientifici possono essere riduttivi. Quando trasformiamo un essere vivente in numeri, rischiamo di perdere la sua complessità: le emozioni, la storia, la memoria. Un dataset può descrivere un movimento, ma non necessariamente un significato. Questa consapevolezza è diventata centrale nel mio lavoro: la tecnologia può rivelare e cancellare allo stesso tempo.
Quindi mi muovo tra questi due poli. Uso i dati non per affermare un’oggettività, ma per creare un altro livello di traduzione. Trasformando i dati in suoni, immagini o forme, cerco di restituire una sensibilità a ciò che era stato astratto. L’arte diventa un modo per completare ciò che la scienza da sola non può catturare: l’empatia invisibile tra mondi umani e non umani.


Nei tuoi lavori gli alberi diventano veri e propri archivi viventi. Se uno di loro potesse parlarti – attraverso vibrazioni, crescita o decadimento – che cosa pensi che direbbe?
Sicuramente gli alberi e le piante hanno un linguaggio molto diverso dal nostro. La scienza ci dice che comunicano attraverso frequenze, sostanze chimiche e segnali elettrici. Nella maggior parte dei casi non possiamo percepirli e quando lo facciamo spesso li interpretiamo male. L’odore che sentiamo dopo aver tagliato l’erba, ad esempio, ci sembra piacevole, ma in realtà è un segnale di allarme: un avvertimento che l’erba invia alle altre piante.
Quando parliamo di “un albero”, mi chiedo anche: quale albero? Un albero in città, circondato dal cemento? Un albero in una foresta? O l’albero davanti a casa dei miei genitori, dove sono cresciuta? Ogni albero vive in un ritmo diverso, in una rete diversa di relazioni.
Se potessi accedere al loro linguaggio, credo che un albero potrebbe percepirmi come percepisce qualsiasi altro essere vivente: forse come un altro albero, forse come un animale che può aiutarlo o danneggiarlo. A seconda di questa percezione, potrebbe condividere con me conoscenze diverse: quali uccelli o insetti lo hanno visitato, come comunica con i suoi vicini tramite radici e micelio, o perfino come il mio corpo un giorno potrebbe tornare al suolo per nutrirlo.
La vita di un albero dura molto più della nostra. Una volta vidi un bellissimo albero in un piccolo villaggio francese, e scoprii che secoli prima era lo stesso albero dove avvenivano le esecuzioni. Ciò che per noi è orrore o gloria potrebbe non significare nulla per l’albero.
Sì, vorrei capire gli alberi, ma sono altrettanto affascinata dal fatto che probabilmente non ci riuscirò mai. Quella distanza, quel mistero, è ciò che li rende così profondamente belli.


La tua pratica è fortemente interdisciplinare, spazia dalla fotografia al video, fino alla VR, all’AR e al suono, e coinvolge ricercatori e specialisti di campi diversi. Ci sono artisti che senti particolarmente vicini al tuo modo di lavorare o che ti hanno ispirato nel tempo?
Sì, ci sono molti artisti che ammiro, ma per citarne alcuni direi Berlinde De Bruyckere, Cai Guo-Qiang, Hito Steyerl e An-My Lê.
Ammio Berlinde De Bruyckere per il modo in cui tratta i materiali come materia vivente, fragile ma potente, sempre carica di emozione e storia. Cai Guo-Qiang mi affascina per il suo uso di forze incontrollabili per creare momenti insieme distruttivi e poetici. Mi riconosco in quell’equilibrio tra controllo e abbandono, soprattutto quando lavoro con dati, materiali organici o sistemi viventi che hanno una propria autonomia. Hito Steyerl mi ispira nel modo in cui interroga la cultura digitale e la politica della tecnologia, ricordandomi che i media non sono solo strumenti, ma anche spazi critici di riflessione.
E An-My Lê è molto importante per me. Le sue fotografie di paesaggi e scene di guerra messe in scena risuonano profondamente con me. Mi sento vicina al modo in cui naviga l’essere dentro e fuori dalle storie che racconta- qualcosa che vivo spesso anch’io come artista vietnamita che vive all’estero.
Nei tuoi lavori parli spesso di assenze, memorie e intrecci tra umano e non umano. Se pensi al futuro, quale immagine, suono o sensazione vorresti che rimanesse come traccia del tuo lavoro, anche quando non ci sarai più a raccontarlo?
Se qualcosa dovesse rimanere del mio lavoro, credo che non sarebbe un’immagine, ma una sensazione: il silenzioso senso di essere connessi a qualcosa di più grande di noi. Forse sarebbe la vibrazione di un albero che risponde alla nostra presenza, o il suono del vento tra le foglie.
Gran parte del mio lavoro riguarda ciò che non può essere visto o facilmente tradotto: memoria, dolore, trasformazione. Se ci fosse una traccia da lasciare, spero che porti con sé quella sensibilità: che tutto è intrecciato, che bellezza e distruzione non sono mai separate.
La cosa più importante non è che le persone ricordino me, ma che ricordino una consapevolezza: che viviamo tra molte altre forme di vita che ricordano, respirano e resistono.
Silvia Donà