Il ritorno e le relazioni alla XIX edizione del Festival di Fotografia Europea di Reggio Emilia

La diciannovesima edizione del Festival di Fotografia Europea, in programma dal 26 aprile al 9 giugno 2024 nella bella, accogliente e multietnica città di Reggio Emilia, coincide con le elezioni per il parlamento europeo. Accostare i due eventi sembra di poca importanza, ma non c’è dubbio che tra i tanti manifesti elettorali sparsi per la città, quello più curioso ha come slogan “più Italia, meno Europa”. Una curiosa coincidenza, fortunata, sebbene auspicabilmente necessaria, che evidenzia il drammatico contrasto tra chi si immagina lontano dal mondo, chiuso nei suoi confini, stretti, da difendere dall’esterno; e chi al contrario dello stesso mondo si sente cittadina e cittadino, libera e libero da ogni confine. 

«Tutti gli esseri viventi, infatti, sono collegati fra loro in un “corpo globale”, in cui i confini si dissolvono o si compenetrano». (Daisy Hildyard, The Second Body)

Il Festival di Fotografia Europea ancora una volta alimenta la riflessione e il dialogo, ancora una volta avvalendosi della preziosa collaborazione dei tre curatori: Tim Clark, Walter Guadagnini e Luce Lebart, diversi per cultura, ma uniti dalla comune sensibilità e passione per la fotografia. Il titolo scelto per questa edizione è: “La natura ama nascondersi”. 
Titolo affascinante, seducente, di forte impatto, che cerca di inglobare – per usare le parole della presentazione – la potenza di una natura che molte volte cela la sua essenza ai nostri occhi, ma che sempre più la rivela in modi distruttivi, in un processo continuo che può essere inteso come un’oscillazione tra l’essere e il divenire

Eppure, φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ, il famoso frammento 123 di Eraclito che ha ispirato i curatori, non significa affatto che “la natura cela la sua essenza ai nostri occhi, ma che sempre più la rivela in modi distruttivi”; diversamente φύσις è il sorgere continuo, l’ordinamento originario, e ha la caratteristica φιλεῖ di non rivelare da dove nasce κρύπτεσθαι. Il movimento originario, la Natura, φύσις, esprime l’inconoscibilità della costituzione delle cose che appaiono in natura, non è possibile farne esperienza. Questo fraintendimento è così evidente che il processo di antropizzazione è arrivato fin nella lingua, attraverso una traduzione adattata per attribuire una peculiarità propria delle persone, l’amore, alla natura. Abbiamo imparato a conoscere un diverso modo di funzionare della natura, un funzionamento indotto dal comportamento umano, tra l’altro, i cui esiti sono devastanti per un gran numero di essere viventi, ma non per la natura, che non ama e quindi non soffre. 

I festival fotografici degli ultimi anni (e questa diciannovesima edizione del Festival di Fotografia Europea di Reggio Emilia è una delle migliori esperienze in tal senso), non mostrano la devastazione della natura, ma la desolazione dell’animo umano che ha perso la passione, l’amore, la curiosità, il desiderio, la creatività; che ha dimenticato cosa significhi essere nel mondo, che ha messo da parte lo spirito di fratellanza e sorellanza, per abbracciare l’interesse personale; che ha detto addio agli altri per abbracciare sé stesso; che non ha più la capacità di immedesimarsi nei problemi, nella gravità degli eventi, sconvolgenti come solo le guerre possono esserlo, come solo le inondazioni, le malattie. Disprezziamo la vita, disprezziamo il vivere, disprezziamo la natura inconoscibile. Alziamo i muri per respingere le persone, che non sono mai bisognose, ma sempre con intenzioni cattive; allo stesso tempo non ci facciamo problemi e abbattiamo le barriere che ci proteggono dai virus letali. Blocchiamo ciò che possiamo vedere e toccare, lasciamo entrare ciò che non possiamo vedere e controllare. Un cortocircuito. Abbiamo perso fiducia nella vita.

Il problema è così drammatico che la stessa fotografia, da sempre incaricata di mostrare la realtà, da sempre accettata come capace di mostrare il vero, non è più sufficiente. Sempre più spesso è necessario andare oltre la fotografia, oltre l’immagine. Un progetto strettamente fotografico non è più compreso, non è più interiorizzato, il suo messaggio non è più condiviso. Lo si capisce bene con la mostra “An Act of Faith: Bitcoin and the Speculative Bubble” di Lisa Barnard che rifiuta il canone estetico della fotografia per concentrarsi sul concetto. La mostra è una delle dieci ospitate ai Chiostri di San Pietro che, sebbene abbia un suo spazio, diversamente dalle altre è presente su tutto il piano, lo è per un suono fastidioso che accompagna la visita a tutte le mostre, un suono sordo e persistente, non si capisce da dove viene, ma è capace di richiamare il valore strettamente documentario della fotografia. Il suono non è immediatamente fotografabile, ma è in grado di creare un’immagine in chi ascolta, di alimentare la curiosità – non per altro, per sapere da dove viene – per scoprire che produrre Bitcoin richiede uno sforzo ambientale notevole, il suono fastidioso, le cui conseguenze inevitabili e disastrose sono facilmente intuibili, sempre il suono fastidioso. Un allestimento brutto, come brutte sono le ragioni apparentemente necessarie della produzione di Bitcoin.

Analogamente, il progetto, anche questo senza ambizioni estetiche, di Bruno Serralongue intitolato “Community Gardens of Vertus, Aubervilliers” è un documento prezioso della stupidità delle persone: distruggere gli orti cittadini, necessaria attività umana, per fare spazio a nuove costruzioni per i giochi olimpici di Parigi 2024, superflua attività umana.

C’è poi il documento fotografico del fotografo indiano Arko Dattointitolato The Shunyo Raja Monographies, una trilogia in corso d’opera e a Reggio Emilia è possibile apprezzare una selezione dai primi due capitoli. Questo progetto si discosta molto dalla fotografia “breaking news”, la fotografia dell’ultima ora, preferisce raccontare la vita di tutti i giorni, cosa significa essere alle prese con gli effetti del cambiamento climatico, in questo caso il territorio del Delta del Bengala e l’innalzamento del mare, ogni giorno tutto il giorno. È il cambiamento climatico documentato nella sua quotidianità, nella sua drammaticità, non nel suo essere evento. È la storia di una zona altamente popolata, dove le persone si sono ritrovate e si ritroveranno a essere rifugiati climatici. Persone che cercano di combattere un nemico invisibile – le suggestive fotografie notturne rappresentano proprio questo, è un’area priva di elettricità, la notte rende tutto invisibile per l’appunto –, un nemico fluido, che arriva da ogni direzione, l’acqua. Non possiamo che constare l’inevitabile, ma soprattutto la mancanza di progettualità nel trovare una soluzione, che non è solo quello di prevenire, ma anche di rimediare all’accaduto.

Allo stesso tempo, è condivisibile l’approccio fotografico di proporre una fotografia comunque poetica per documentare la paura, la devastazione, affidandosi anche al bello per richiamare l’attenzione sul cambiamento climatico, ovvero un problema globale e non circoscritto. A tal proposito, il progetto di Matteo de Maydaintitolato There’s no calm after the storm si pone in continuità con le drammatiche testimonianze di eventi di difficile previsione e contenimento, in questo caso, la tempesta Vaia che ha colpito il Nord-Est dell’Italia, con lo scirocco che soffiava a oltre 200 Km/h e ha abbattuto 14 milioni di alberi. Che la fotografia non è più grado di sensibilizzare chi guarda lo dimostra l’allestimento di questa mostra, dove alle immagini tradizionali vengono affiancate quelle meno tradizionali, ma sempre più frequenti, come quelle di archivio, quelle satellitari, quelle al microscopio, ma soprattutto la componente materiale che in questo caso si avvale di tronchi di alberi, di insetti in una teca, di una video installazione e di un sonoro.

Concludo con il progetto più importante esposto in questa edizione del Festival di Fotografia Europea, Mediations di Susan Meiselas, fotografa di Magnum Photos dal 1976, ma soprattutto President of Magnum Foundation, due realtà da non confondere. La prima è la nota agenzia fondata tra gli altri da Robert Capa che ha come scopo quello di vendere le fotografie; la seconda, invece, è nata nel 2007 grazie ad alcuni membri di Magnum Photos ed è una organizzazione non profit con il nobile intento di espandere “creativity and diversity in documentary photography, activating new audiences and ideas through the innovative use of images.”. Magnum Foundation si concentra su progetti globali focalizzati sulla giustizia sociale e sui diritti umani. La mostra allestita a Palazzo Magnani è la prima retrospettiva in Italia e vale da sola l’intera esperienza del Festival. Allestita con molta cura, Mediations permette di apprezzare i lavori più significativi della fotografa americana, diventata famosa con il reportage nelle aree di conflitto dell’America Centrale, in particolar modo con gli scatti della rivoluzione nicaraguese. C’è molta fotografia, molta in bianco e nero, ma ci sono anche libri, installazioni, video, a ulteriore dimostrazione di quanto il messaggio affidato alle sole immagini fotografiche non sia più sufficiente. La mostra si apre con il suo autoritratto, sospeso, seduto, in un atto di riflessione, quella di una persona attenta alle persone e alle loro storie. È la poetica di una grande fotoreporter, quella di essere fisicamente dietro l’obiettivo, ma coinvolta sul piano delle emozioni, delle sensazioni, della psicologia. È una mostra che indaga l’umanità e il modo nel quale si esprime, principalmente attraverso il linguaggio della violenza, quella della guerra, quella domestica, fino ad arrivare all’assurdo, quella come ricerca del piacere con il reportage Pandora’s Box. È anche una mostra che descrive le profonde contraddizioni della fotografia che rischia di generare messaggi opposti, come nella fotografia “Molotov Man” che è finita per diventare l’icona dell’insurrezione, tanto da essere impressa anche sulle magliette, una delle quali presente in mostra. Non era questo l’intento di Susan Meseilas e a richiamare l’attenzione su questa ambiguità c’è il confronto da l’idea di chi fotografa e quella di chi poi utilizza le immagini, facendo una selezione differente, proponendo una impaginazione differente. Mediations, come l’intero festival, è una mostra che ha al centro il tema del ritorno e delle relazioni.