Joel Meyerowitz e Nicolas Slonimsky. L’innovazione come crescita espressiva

Nicolas Slonimsky è un nome poco conosciuto, sebbene il suo contributo alla musica del Novecento sia stato determinante. Il suo libro Thesaurus of Scales and Melodic Patterns è considerato una sorta di bibbia per chi vuole improvvisare o sperimentare. A rimanerne particolarmente affascinato fu Frank Zappa, divenuto uno dei musicisti più originali della musica rock proprio grazie all’influenza che questo libro ha esercitato su di lui. Un altro nome che ha subito lo stesso fascino e si è ugualmente lasciato ispirare è John Coltrane, il più grande sassofonista jazz di sempre, come scrive Ashley Kahn nel suo saggio A Love Supreme, dedicato alla storia di questo capolavoro musicale – per l’appunto di Coltrane – pubblicato in Italia da ilSaggiatore:
«Coltrane e molti colleghi condividevano un grande interesse per gli schemi tonali piuttosto che per le solite scale maggiori o minori. Alcuni trovavano ciò che cercavano nei libri di testo, per esempio gli esercizi scalari di Slominsky».

Musicista, compositore, critico musicale, Nicolas Slonimsky è anche autore di diverse pubblicazioni, tra cui il Lexicon of Musical Invective, pubblicato nel 1953, che Adelphi propone da qualche mese ai lettori nella collana “I Casi”, a cura di Carlo Boccadoro – autore anche di un pregevole profilo biografico dell’autore, ben più ricco di quello proposto da Wikipedia – con il titolo Invettive Musicali.
È un libro che raccoglie – non so dire se tutte, ma sicuramente molte – critiche rivolte alle composizioni musicali a partire da Beethoven. La particolarità, già evidente dal titolo, è che si tratta esclusivamente di critiche negative.

Protagonisti sono 43 compositori della musica classica, nomi oggi considerati grandi maestri, apprezzati per la loro genialità e per le idee musicali innovative, rivoluzionarie, ma che in questa raccolta finiscono per ricevere giudizi prevenuti, ingiusti, maleducati e singolarmente poco profetici. Le stroncature hanno un denominatore comune: prendono di mira la novità, la proposta musicale che si allontana dal linguaggio del passato, che introduce le prime dissonanze in un mondo che sta cambiando da un punto di vista sonoro – pensiamo ai suoni prodotti dalle fabbriche – e da un punto di vista sociale – con la nobiltà sostituita dalla borghesia.

Slonimsky, pertanto, si propone di mostrare che la musica è viva, è un’arte “in progress” e definisce questo approccio poco lungimirante con l’espressione: Rifiuto dell’Insolito, che dà il titolo al breve saggio posto al termine del Lexicon. È una storia alternativa della musica dell’Ottocento e del primo Novecento, in cui i grandi autori – o meglio, quelli che oggi consideriamo tali – sono stati svalutati nelle loro abilità compositive.
Prendiamo, ad esempio, il caso di Beethoven e della Nona Sinfonia, giudicata troppo lunga, ma soprattutto: «L’ultimo movimento con il coro è un guazzabuglio».

I compositori non sono presentati in ordine cronologico, ma alfabetico. Per ognuno di loro è proposta una selezione di stroncature tratte da giornali. La bellezza di questo Lexicon è che non ha un inizio né una fine: si può saltare da un autore all’altro senza necessariamente seguire l’ordine proposto.

In appendice c’è poi un interessante Insultario, fortemente voluto da Slonimsky. Già, perché la critica non si limitava alla musica, ma finiva spesso nell’insulto alla persona. In altre parole, se la musica è brutta, dipende dalla bruttezza del compositore che finisce per imbruttire chi la ascolta:
«La musica di Debussy conduce al deperimento e alla rovina del nostro stesso essere»,
e Slonimsky, nell’Insultario, alla voce “Aborto” riporta proprio Debussy. Nel saggio è anche possibile leggere una lunga citazione dal Sun di New York del 19 luglio 1903, dove viene fornita una descrizione poco educata dell’aspetto del compositore francese.

Il libro è anche una preziosa occasione per riascoltare – o scoprire – tanta di quella musica che oggi viene osteggiata definendola “colta”, in contrapposizione alla più orecchiabile “pop”. Slonimsky non sarebbe per niente d’accordo, e lo si capisce quando parla del jazz, che per i detrattori “ha determinato un declino della morale sessuale”.
Soprattutto, lo scrive Slominsky, il rifiuto dell’insolito non è una caratteristica esclusiva della musica, ma riguarda tutte le espressioni creative e artistiche: dalla danza alla letteratura, dal teatro alla pittura.

Anche la fotografia ha conosciuto la sua parte di resistenza al cambiamento, soprattutto quando alcuni autori hanno iniziato a mettere in discussione codici consolidati. Un caso emblematico è quello dell’uso del colore nel reportage, a lungo considerato inadeguato rispetto alla presunta purezza espressiva del bianco e nero. Il colore era ritenuto una concessione all’estetica, una distrazione dal contenuto, se non addirittura un tradimento dello spirito documentario. È in questo contesto che si inserisce il lavoro di Joel Meyerowitz, protagonista della grande mostra A Sense of Wonder in corso a Brescia — aperta fino al 25 agosto 2025, salvo proroghe — curata da Denis Curti.

A fare da ideale complemento all’esposizione arriva ora, il 6 giugno, l’omonimo volume edito da Skira, anch’esso curato da Curti. Si tratta di un libro stampato con grande attenzione, dalla qualità eccellente e dall’impaginazione curata, che raccoglie sessant’anni di fotografia — dal 1962 al 2022 — offrendo una selezione notevole e coerente del lavoro di Meyerowitz. In queste immagini, il colore non è un ornamento, ma una scelta precisa, parte integrante di un linguaggio che ha saputo trasformare la fotografia di strada e quella documentaria. Il colore diventa strumento per amplificare la tensione emotiva, restituire l’atmosfera di un luogo, di un tempo, di una scena; e così, pagina dopo pagina, Meyerowitz rinnova il nostro modo di guardare il mondo, restituendoci tutta la meraviglia — quel sense of wonder — che abita l’ordinario.

Parlando con Denis Curti della mostra e del volume, è emerso come, per molto tempo, il colore fosse considerato territorio dei dilettanti, di chi fotografava per fissare ricordi familiari o vacanze. “Non a caso la Kodak definiva, con un certo tono ironico, il rullino da 100 ASA come il rullino quattro stagioni, un’unica pellicola per coprire un intero anno di vita, dal compleanno al battesimo, dal mare alla neve, scattando magari 36 pose in dodici mesi. Una fotografia amatoriale, distante, inefficace sul piano narrativo e, quindi, esclusa dal linguaggio professionale.

A imporre le regole erano i grandi nomi del reportage: la Magnum, con il suo bianco e nero rigoroso, che diventava paradigma visivo in Europa e nel mondo. Lo stesso accadeva con il neorealismo italiano e con la scuola umanista francese: il bianco e nero era sinonimo di serietà, impegno, autenticità. Il colore, al contrario, veniva visto come una deviazione, un limite tecnico, un tabù culturale. Il monocromo era la norma; il colore, una provocazione.

Joel Meyerowitz è stato tra i primi a mettere in discussione questo dogma, non per spirito di rottura, ma per coerenza con la realtà. Il mondo è a colori e chi fotografa con l’intento di raccontarlo non può ignorarlo. Come ricorda Denis Curti: “Non si trattava solo del colore in sé, ma del potere della luce, del modo in cui la luce incide e trasforma il mondo visibile. In Meyerowitz, come si osserva nelle sue immagini raccolte nel volume edito da Skira, il colore è parte integrante della narrazione: determina l’atmosfera, guida lo sguardo, amplifica le emozioni. Le sue fotografie si popolano di volti, gesti, movimenti, ma anche di contrasti cromatici, ombre colorate, riflessi inattesi, piccoli racconti che si compongono nella mente dello spettatore.

La sua scelta, inizialmente, fu accolta con freddezza se non con ostilità. Non era solo il rifiuto del bianco e nero a scandalizzare, ma anche l’abbandono del piccolo formato e del “momento decisivo” bressoniano in favore del banco ottico, del cavalletto, dei tempi lunghi. Una vera eresia. Eppure, Meyerowitz ha avuto il coraggio di proporre un nuovo modo di vedere.

Non si è trattato soltanto di una rivoluzione estetica, ma di una dichiarazione d’intenti. “Una fotografia consiste nel decidere cosa includere e cosa escludere”, diceva Meyerowitz. Il colore, nella sua visione, non era un’aggiunta decorativa: era la fotografia stessa.

Federico Emmi

Immagine Copertina © Joel Meyerowitz, New York City, 1963

Scheda dei Volumi


Titolo: Invettive musicali
A cura di: Carlo Boccadoro
Collana: La collana dei casi, n. 158
Editore: Adelphi
Anno di pubblicazione: 2025
Lingua: Italiano
Formato: 14 × 22 cm
Pagine: 429
ISBN: 9788845939914
Prezzo: €28,00
Disponibilità: Disponibile anche in formato eBook (€14,99)

Descrizione:
Una spassosa e dissacrante antologia di stroncature musicali curata da Carlo Boccadoro, basata sull’opera del musicologo Nicholas Slonimsky. Un campionario di «giudizi prevenuti, ingiusti, maleducati e singolarmente poco profetici» rivolti a compositori poi riconosciuti come geni assoluti: da Beethoven a Rachmaninov, da Chopin a Debussy. Tra sarcasmi e disprezzo, la lettura si trasforma in un’antistoria della musica moderna, dove ogni innovazione è inizialmente percepita come una minaccia all’ordine sonoro costituito.

Titolo: Joel Meyerowitz. A Sense of Wonder 1962–2022
Autore: Denis Curti
Editore: Skira
Anno di pubblicazione: 2025
Lingua: Italiano
Formato: 24 × 28 cm
Pagine: 224
EAN: 9788857253923
Prezzo: €42,00
Disponibilità: In vendita dal 6 giugno 2025

Descrizione:
Realizzato in collaborazione con il Joel Meyerowitz Photography Archive di New York, il volume presenta oltre novanta immagini suddivise in capitoli tematici, attraverso le quali si ripercorre una carriera che ha rivoluzionato la street photography introducendo l’uso del colore come elemento narrativo. Dagli anni Sessanta a oggi, Meyerowitz ha documentato con sensibilità e profondità la complessità del mondo contemporaneo, ponendosi in dialogo con autori come Robert Frank, Garry Winogrand e Diane Arbus. L’intimità, la luce e l’immediatezza sono i tratti distintivi del suo sguardo.

Note:
Il volume, curato da Denis Curti come la mostra in corso a Brescia, si distingue per l’elevata qualità di stampa e una raffinata impaginazione, che valorizza appieno l’impatto visivo e la forza narrativa delle fotografie.