Gli esperimenti di Eastman avevano come obiettivo l’uso di un supporto più leggero e flessibile del vetro. Il primo approccio di Eastman fu stendere l’emulsione fotografica su carta rivestita con uno strato di gelatina insolubile fotosensibile, quindi caricare la carta in un portarullo, da usare sulle macchine fotografiche al posto dei supporti per le lastre di vetro.
Il sistema fotografico che utilizzava i portarulli incontrò un immediato successo.
La genialità di Eastman non era solo nelle capacità tecniche necessarie a produrre i materiali, ma anche nelle sue capacità di marketing, per le quali era decenni avanti alla sua epoca.
Anche la scelta del nome della sua azienda, Kodak, senza significato in sé, registrato nel 1888, viene così raccontato da Eastman: «Mi piaceva la lettera K, e volevo una parola veloce, rapida. E senza problemi per il marchio». Un nome facile da pronunciare in tutte le lingue del mondo, una parola breve ma robusta, e privo di significato linguistico, al fine di consentire una più facile protezione legale del marchio.
La fiducia di Eastman nell’importanza della pubblicità, per la società e il pubblico, era illimitata. I primissimi prodotti Kodak furono reclamizzati sui principali quotidiani e periodici dell’epoca.
Eastman coniò lo slogan “Voi premete il bottone. Noi facciamo il resto” per il lancio della prima macchina fotografica Kodak (la Kodak Camera) nel 1888 e, nel giro di un anno, divenne una frase nota a tutti. In un certo senso era una slogan perfetto per i moderni telefoni, anche in questo era stato un vero precursore.
Nel 1889 Kodak lancia la prima pellicola trasparente di nitrocellulosa della larghezza di 35 mm. Uno dei primi clienti è Thomas Alva Edison, che riesce così a ideare la prima cinepresa, Kinetoskopio.
Da allora, l’azienda ha ricevuto nove Oscar per i contributi tecnici e scientifici all’industria cinematografica.
Nel 1900 mette sul mercato la Brownie, una fotocamera a cassetta in cartoncino con una semplice lente che prendeva immagini quadrate su una pellicola 117.
Grazie alla sua semplicità e al suo basso costo di $1 (equivalente a $30 nel 2018) insieme al basso prezzo delle pellicole Kodak, la Brownie fu un successo con oltre 150.000 esemplari venduti nel solo primo anno di produzione. Una fotocamera dal prezzo finalmente accessibile, pensata per un mercato giovanile, che la Kodak voleva avvicinare maggiormente alla fotografia che si diffuse molto tra i soldati di guerra.
La Kodak diventò così un patrimonio della società di quei tempi, perché aveva dato a tutti in modo democratico il potere di fermare su carta i loro momenti. L’abitudine a fare fotografie, e conservare quei momenti importanti della vita divenne un’abitudine a livello globale, tanto da farli diventare dei “Kodak moment”.
Alcuni anni dopo, il “Viaggiatore del Tempo” protagonista del capolavoro di fantascienza “The Time Machine” di Herbert George Wells rimpiange di non essersene portata una al seguito: “Se avessi almeno pensato a una Kodak, avrei potuto in un attimo fotografare la momentanea visione di quel mondo sotterraneo che più tardi avrei esaminato a mio agio”.
George Eastman fu un gigante del suo tempo. La filosofia sociale che mise in pratica nella costruzione della sua impresa, non era all’avanguardia solo per l’epoca in cui egli visse, ma dovranno trascorrere molti anni prima che tali principi vengano universalmente riconosciuti e accettati.
Nel 1919, seguendo il suo principio della “distribuzione salariale” ai dipendenti, Eastman consegna loro un terzo delle sue aziende, per il totale di 10 milioni di dollari. Fa donazioni a istituti di ricerca e, per anni, finanzia il Mit (Massachusetts Institute of Technology) di nascosto, regalando 20 milioni di dollari, a nome Mr. Smith. Per l’istituto l’identità del benefattore resterà a lungo un mistero, tanto che, una volta, durante la cena annuale del Mit, lo stesso Eastman farà un brindisi a Mr. Smith, ma nessuno coglierà l’ironia del gesto.
Negli anni successivi è una crescita senza sosta: la Kodak diventa in poco tempo un punto di riferimento per le famiglie di tutto il mondo, il nome si diffonde, e così gli scatti. Il mondo cambia e Eastman decide di lasciarlo in quella maledetta notte del 14 marzo 1932.
La nostra storia però non finisce qui. Facciamo un passo avanti di quasi 40 anni, siamo nei ’70, la guerra del Vietnam si avvicina al suo termine, due grandi icone della musica come Jimi Hendrix e Janis Joplin ci lasciano e il presidente Nixon si dimette a seguito allo scandalo Watergate.
Nonostante Eastman l’avesse lasciata da molto tempo oramai, la Kodak continuava a dominare il mercato delle pellicole fotografiche con un clamoroso 90%. Tanto che Neil Armstrong, sulla Luna, scattò le fotografie con una Kodak appositamente creata.
Le sue fotocamere compatte, le Instamatic, andavano a ruba, tra il 1963 e il 1970, ne vennero prodotte più di 25 milioni.
Così, mentre la Kodak viveva il suo momento di massima espansione, il secondo elemento della nostra storia si apprestava a fare il suo ingresso in questa lunga storia. È il 1973 quando l’Ingegnere elettronico Steve Sasson veniva assunto, all’età di 24 anni, nella gloriosa Eastman Kodak.
Si fa fatica a pensare cosa possa fare un ingegnere elettronico in una azienda che produceva esclusivamente pellicole. Probabilmente era destinato a progetti poco importanti e così, quando gli venne assegnato uno studio sulle possibili applicazioni dei CCD, non gli sembrò di avere per le mani l’occasione della sua vita.
Il CCD (Charge-Coupled Device) è un circuito integrato inventato da Willard Sterling Boyle e George Elwood Smith nel 1969. È un Sistema a matrice di semiconduttori che permette di trasformare la luce in segnali elettrici.
Sasson ha una grande intuizione, e comincia ad ipotizzare un sistema per poter catturare le immagini attraverso il CCD, il quale di per se non era ovviamente in grado di archiviare immagini. Sasson allora provò a catturare e registrare l’immagine attraverso un processo nuovo per l’epoca, ovvero la digitalizzazione, cioè la trasformazione di impulsi elettrici in numeri.
Questo approccio costrinse Sasson a trasferire l’immagine dapprima in una memoria RAM e da lì su un nastro magnetico digitale.
Era il 1975 e Steve, incredibilmente, a 25 anni aveva realizzato il prototipo della prima macchina fotografica digitale (ai tempi non era ancora nato nemmeno il primo computer domestico).
La prima fotocamera digitale della storia viene assemblata con pezzi presi da altri sistemi, così Sasson, anticipando anche il telefilm McGyver, utilizzò una lente proveniente da una videocamera Super-8, un registratore digitale a cassette, 16 batterie al nickel cadmio, un convertitore analogico digitale e dozzine di circuiti fra loro collegati.
Il marchingegno era grosso, pesava ben 3 chili e mezzo, e aveva la strabiliante risoluzione di soli 0,01 Mp. Acquisiva le informazioni in digitale, le registrava su cassetta in 23 secondi e le rendeva visibili su uno schermo tv con risoluzione di 100*100px.
Il nastro poteva contenere 30 immagini. Un numero scelto di proposito tra 24 e 36. “Non volevo che contenesse solo una o due immagini, altrimenti la gente avrebbe detto: beh non è gran che utile. E non volevo che ne contenesse cento o mille, perché nessuno allora avrebbe apprezzato il concetto.”, (parole che oggi fanno venire i brividi).
Nel 1976 Sasson propone il suo prototipo a tutti i livelli della Kodak ma nessuno rimane molto impressionato di questa novità, anche perché la qualità dell’immagine era veramente scadente.
Nonostante Sasson assicurasse che con degli investimenti e un po’ di tempo tutto il processo sarebbe diventato più veloce e la qualità sarebbe migliorata, i vertici non sentirono ragioni, soprattutto perché tutto il business della Eastman-Kodak allora si basava sul rullino. Era l’azienda più grande del mondo sul settore pellicole, con 145.000 dipendenti e 16 miliardi di dollari di fatturato, ma evidentemente una visione del futuro molto miope.
Quando i dirigenti chiesero a Sasson in quanto tempo sarebbe diventata competitiva questa tecnologia egli rispose con la legge di Moore: «La complessità di un microcircuito, misurata ad esempio tramite il numero di transistori per chip, raddoppia ogni 18 mesi (e quadruplica quindi ogni 3 anni)».
Fatti due conti Sasson ipotizzò un tempo ragionevole di almeno 15-20 anni per questa rivoluzione e ventilò anche la possibilità di inviare le immagini ovunque attraverso le linee telefoniche! Allucinante visione del futuro, così avanti che la reazione dei vertici Kodak fu a dir poco freddina. Probabilmente preso per mezzo pazzo, Sasson venne rispedito nei suoi laboratori.
un articolo di Enrico Quattrini
La storia continua nel prossimo articolo