Visual journalism. Conflitti. Identità. Impegno. 

La guerra in Ucraina ha segnato un punto di non ritorno nel campo del fotogiornalismo? Cosa sta cambiando e cosa lo era già dopo l’ingresso di nuove tecnologie e la crisi dell’editoria del 2008? Si è aperta l’era del visual journalism? 

Questa sono le domande sottese alle interviste di 17 fotografi di varia nazionalità e di differente età anagrafica, ugualmente impegnati nella documentazione del reale attraverso la fotografia, ma non tutti presenti in Ucraina, che il giornalista Enrico Ratto ha raccolto in un libro dal titolo “Visual Journalism. Conflitti. Identità. Impegno.” edito da Emuse. 

A fine febbraio del 2022, allo scoppio della guerra, i media tradizionali si sono trovati senza copertura e nel precipitare degli eventi e nella conseguente fame di news, hanno chiesto ai fotografi sul campo, principalmente freelance, di prestarsi al newsmaking. Alcuni hanno accolto la proposta, altri hanno preferito non accettare. 

Alessio Paduano che nel suo lavoro si focalizza su immigrazioni, crisi umanitarie e ambiente, racconta: «le chiamate di alcune televisioni italiane sono arrivate dopo circa una settimana dal mio ingresso nel Paese, cosi ho avviato una corrispondenza con un programma tv italiano. Un’esperienza nuova e molto formativa». 

Jean Marc Caimi e Valentina Piccinini, interessati all’aspetto umano di ogni storia, evidenziano alcune criticità che si sono create nei primi tempi: «si crea un vero e proprio mercato selvaggio di immagini con il fotografo che beneficia di un’offerta di lavoro inaspettata e si trova in una posizione difficile fra la richiesta continua di notizie, spesso in modo superficiale, e la necessità di lavorare». 

Alfredo Bosco, anche lui partito all’indomani dello scoppio della guerra, sottolinea il fatto che: «è stato un fenomeno italiano, per questo ero demoralizzato, perché vedevo colleghi francesi partire con gli assegnati, con la copertura assicurativa, la diaria giornaliera, il giornale copriva le spese e forniva tutta la strumentazione necessaria alla sicurezza». 

Fabio Bucciarelli, da sempre impegnato a documentare conflitti e conseguenze umanitarie della guerra, precisa: «i fotografi hanno tutta l’autorevolezza per dare notizie da luoghi in cui gli inviati della televisione non sono arrivati, o non sono ancora arrivati. Ripeto il punto uno: dipende da chi è il fotografo, dalla sua credibilità. Non è il fotografo in quanto tale, è la persona». 

Si aprirebbe qui una lunga digressione su cosa significhi essere freelance in Italia, in modo particicolare in zone di guerra, con il problema di anticipare le spese sperando di rientrarvi e di non poter contare su una copertura assicurativa ad esempio. 

Gli spunti che le puntuali domande di Enrico Ratto sollevano in merito a cosa significhi essere un fotogiornalista oggi sono molteplici e individuano alcune necessità comuni. 

Lentezza e approfondimento infatti sono due tematiche che ricorrono spesso perché le storie hanno bisogno di tempo e profondità per essere cercate, seguite e raccontate. 

Christofer Occhicone, che vive a Kiev da più di quattordici anni e da oltre quattro anni lavora a un progetto a lungo termine sugli effetti del sistema sovietico degli orfanatrofi, sottolinea: “sono un residente del paese, pago le tasse qui. Penso che forse questo mi permetta anche di avvicinarmi di più, sento di averne diritto». 

Alessandro Cinque, fotoreporter che si è stabilito a Lima per raccontare le problematiche relative all’attività mineraria sulle popolazioni indigene, concorda: «scegliere un posto, informarti su quel posto, viverci, stabilire una relazione di lealtà e rispetto con la popolazione». 

Carolina Arantes, il cui focus è il tema dell’identità, aggiunge: «per fare questo lavoro occorrono immagini a lungo termine che lavorino in profondità. Per questo penso che le mostre e i libri diventeranno una componente molto importante dell’informazione». 

A proposito di strategie da mettere in campo per muoversi oggi nel mondo del giornalismo Tommaso Protti, che da San Paolo si dedica a progetti a lungo termine, spiega: «il mio approccio è stato sempre quello di usare gli assegnati per lavorare con i giornali, e grazie a questi poter continuare i progetti a lungo termine». 

Paolo Woods, che oltre a essere fotografo documentarista è direttore artistico dal 2022 del festival di fotografia Cortona On The Move, affida al festival una funzione attiva nel processo di creazione: «un festival non dovrebbe limitarsi a riproporre quello che è stato stampato nelle riviste, o mostrare i fotografi che vendono di più. Un festival come Cortona On The Move dev’essere un luogo di produzione» 

È ancora più variegata la riflessione che emerge in merito ai cambiamenti della professione per alcuni necessari per altri evitabili, mantenendo una metodologia tradizionale. 

Lorenzo Tugnoli, impegnato in Afghanistan e Yemen, precisa: «penso di aver un approccio al fotogiornalismo molto classico, faccio questo lavoro in modo antico. Vado in giro con un giornalista e insieme lavoriamo su una storia». 

Ilvy Njiokiktjien, fotografa indipendente e giornalista multimediale, afferma invece: «mi sono resa conto che molte storie funzionano davvero bene quando si combinano tutti questi mezzi». 

Éric Bouvet, freelance dal 1990 che ha coperto tutti i principali conflitti del mondo, è convinto della necessità di cambiare: «avevo un incarico di Polka, era minimo, ma questo mi ha permesso di mettere in moto la macchina. Ho attivato i social network, ho fatto un crowdfunding per produrre un giornale e così sono andato avanti a fare il mio lavoro». 

Un’altra tematica su cui insiste Enrico Ratto sfiora il delicato confine tra attivismo e impegno. 

Aline Deschamps, interessata alle questioni identitarie, afferma: «fotogiornalisti della vecchia generazione, per lo meno la maggior parte di loro, dicono: mostra i fatti, è il tuo lavoro. Il dovere della neutralità è qualcosa a cui molti credono. Non è il mio caso, penso che sia necessario essere umili e lucidi. Per me nulla è neutrale, a partire dalla scelta dell’argomento». 

Chloé Sharrock, concentrata ora sui temi religiosi, riporta: «se facciamo delle foto e non siamo interessati all’argomento o non crediamo a ciò che stiamo fotografando, si sente subito. Quando sei molto impegnato in quello che fai, riesci a trasmettere i messaggi con più forza». 

Paolo Verzone, da anni impegnato sulla tematica dell’identità europea, sintetizza: «fare giornalismo non è raccontare un’opinione personale, è partire da un punto di vista personale, verificarlo e raccontarlo». 

Interessante anche la dimensione corale che a tratti emerge come ad esempio in Bénédicte Kurzen, che negli ultimi anni si è occupata di Africa: «collaborare è diventata una necessità. Perché non fare della fotografia uno spazio collettivo? Questa pratica non è nuova, penso a Susan Meiselas, a Jim Goldberg». 

Indagando le dinamiche del fare fotogiornalismo oggi, tenendo conto della presenza della tecnologia e della nuova percezione del tempo, Enrico Ratto ha messo a nudo le criticità ma anche le risorse di un mestiere che forse ha cambiato nome, Visual Journalism, ma in questo suo processo di trasformazione resta sempre determinante nel far emergere una storia tra mille storie. 

www.enricoratto.it 

www.emusebooks.com 

ISBN9788832007596 (carta), 9788832007602 (epub)
Formatocopertina flessibile, ebook (epub), kindle (mobi)
Pagine104
Rilegaturabrossura

Valeria Valli