Dalla prima immagine scattata da Robert Cornelius (1839) e Nadar passando per Sander e Lange, Avedon e Leibovitz, Penn e Ritts fino ai giorni nostri, il ritratto fotografico ha sempre avuto una importanza centrale nel testimoniare l’individuo e raccontarne le proprie peculiartità, i propri sogni e le proprie sofferenze.
Dalla cartes de visite alla ricerca antropologica, dalla fotografia segnaletica a quella sociale, dall’autoritratto al fashion, il ritratto fotografico ha spaziato in ambiti ben più ampi di quel che si può immaginare ed ancora oggi rimane uno dei generi più praticati. Nel tempo ha perduto la sua veste di foto famigliare di ricordo per rimanere per lo più fortemente ancorata agli ambiti commerciali.
Ho avuto la fortuna di incontrare Enzo Dal Verme, ritrattista italiano di fama internazionale, ormai quasi 10 anni fa ad uno dei suoi primi laboratori e da subito ne ho apprezzato la filosofia, l’approccio e soprattutto lo stile.
Enzo Dal Verme è conosciuto per avere ritratto celebrità come Donatella Versace, Laetitia Casta, Marina Abramovic, Bianca Jagger, Wim Wenders.
Le sue immagini sono state pubblicate da Vanity Fair, l’Uomo Vogue, The Times, Marie Claire, GQ e tante altre riviste.
Oltre al ritratto si occupa anche di reportage, spesso legati ad iniziative sociali, come la serie di ritratti di Eroi Urbani scattati in Asia, Europa, America, Africa e Medio Oriente che documentano i successi di persone comuni che, rimanendo fedeli alla propria ispirazione, realizzano piccole e grandi imprese a beneficio di tutta la comunità.
Dal 2010 insegna i suoi fortunati workshop di ritratto nel corso dei quali gli studenti allenano la propria sensibilità ed esplorano il rapporto tra fotografo e soggetto. L’impostazione introspettiva, intima e riflessiva dei suoi corsi ha attirato un pubblico anche eterogeneo che varia da fotografi professionisti fino ai fotoamatori.
Alla sua attività di fotografo commerciale affianca una programmazione di mostre con i suoi lavori più personali. Enzo ha esposto in diverse gallerie in Italia e all’estero e in alcuni festival tra cui Arles.
Qual’è la tua personale storia della fotografia e quando nasce in te la consapevolezza che il ritratto è la forma di espressione che preferisci?
Ho cominciato a pubblicare le mie foto verso la fine del millennio scorso (sembra un sacco di tempo fa!), nel 2001 la decisione di chiudere la mia agenzia di comunicazione per dedicarmi solo alla fotografia. All’inizio ero un po’ allo sbaraglio, tanto entusiasmo senza un orientamento preciso. Poi, poco a poco, diventò chiaro che il ritratto era il genere che mi stimolava maggiormente. Il mio lavoro si sviluppò da subito principalmente nell’editoria. Negli anni precedenti avevo avuto la fortuna di lavorare (come art-director o con altre funzioni) sia nella moda che nella pubblicità con tanti fotografi diversi. Il valore di quell’esperienza si sarebbe poi rivelato molto importante. Io non avevo memorizzato schemi luci e impostazioni tecniche, ma avevo assimilato anni di discussioni tra professionisti dell’immagine su come migliorare l’impatto di certe fotografie. Senza che me ne rendessi davvero conto, tutti quegli incontri mi avevano aiutato a maturare un occhio fotografico.
Quali sono i grandi fotografi ritrattisti del passato a cui ti ispiri, se ce ne sono, e quali lezioni ti hanno lasciato?
Devo confessare di non avere mai studiato fotografia e di avere conosciuto i grandi fotografi poco a poco. Ci sono tante immagini che mi hanno emozionato per motivi diversi e in momenti diversi della mia vita. Alcuni scatti di Irving Penn hanno una forza incredibile per l’equilibrio della loro composizione. Amo l’intensità dei personaggi fotografati da Berenice Abbott. Considero i ritratti di Herb Ritts strepitosi per la loro eleganza ed essenzialità. Ho una passioncella per Peter Lindberg e ammiro la sintesi pulita di Avedon. Potrei continuare con un lungo elenco di nomi: Bruce Weber, Mappelthorpe, Cartier Bresson… e rischierei di dire delle banalità.
In realtà non mi ispiro a nessuno di loro per scattare, l’ispirazione è qualcosa che accade dentro di me. In genere non ho un’idea precisa di come sarà il risultato finale, ma riconosco quando mi sto avvicinando.
Recentemente, mi hanno fatto notare che le mie immagini hanno un’impostazione semplice, un volto e un gesto, come nei quadri della tradizione ritrattistica italiana.
In effetti, ci sono alcuni artisti che mi hanno affascinato durante i miei studi di storia dell’arte. Ad esempio Giovan Battista Moroni, pittore cinquecentesco famoso soprattutto per la sua capacità di coniugare la fedeltà al soggetto (anche con le sue imperfezioni fisiche) con l’indagine introspettiva. Nei suoi ritratti mi hanno sempre colpito l’intensità e la quiete che caratterizza gli sguardi.
Faccio fatica ad ammettere che quelle tele abbiano influenzato il modo in cui fotografo, ma fanno parte della mia formazione e appartengono al mio linguaggio.
Il ritratto è uno dei generi fotografici più complicati perché pone faccia a faccia due persone: qual è la tua filosofia, quale l’approccio e quanta importanza ha l’empatia?
Osservo i soggetti delle mie foto come se fossimo due onde nello stesso oceano. Due onde uniche e irripetibili, ognuna che nasce, si sviluppa e poi si dissolve come nessun’altra. Ognuna ha caratteristiche esclusive e senza eguali. E nello stesso tempo entrambe sono acqua, oceano, la stessa cosa. Scattando a volte riconosco qualcosa di me nella persona che fotografo, altre volte rimango sbalordito da come siamo diversi.
Capita che il nostro incontro sia difficile, il più delle volte fila tutto liscio. La piega che prendono le cose dipende da un’infinità di fattori, incluso il modo nel quale io rispondo alla situazione. A volte mi sento particolarmente entusiasta e curioso, altre volte qualcosa mi disturba. In ogni caso mentre scatto non mi limito ad osservare il soggetto, osservo anche me stesso perché ogni incontro presenta stimoli e difficoltà diverse. Se faccio attenzione, oltre a cogliere un aspetto di quella persona con la mia macchina fotografica ho l’opportunità di scoprire qualcosa di me. Questo è uno dei grandi privilegi di essere fotografo. Ed è anche uno dei motivi per cui io fotografo.
Quanto nelle tue fotografie di ritratto cerchi di evocare caratteristiche proprie del soggetto e quanto invece cerchi te stesso?
Una volta ero convinto di puntare il mio obiettivo su una sfumatura della profondità del soggetto e coglierla nella mia foto. Definizione esatta ma incompleta. Nella foto ci sono anche io. Sono io a sottolineare un aspetto che mi colpisce di quella persona. Sono io che decido di darle autorevolezza fotografandola dal basso in alto, di mostrare una versione più solare scegliendo quella luce particolare o di mostrare il suo lato birichino stuzzicando un’espressione furbetta.
E sono anche io che ho la responsabilità di fare in modo che la mia presenza nella foto sia solo il mio punto di vista, la visione da una certa angolazione di qualcosa che c’è veramente. Altrimenti non si tratta più di un ritratto di quella persona ma di una persona che si presta a recitare una mia fantasia.
Diane Arbus sosteneva «Credo davvero che ci siano cose che nessuno riesce a vedere prima che vengano fotografate». Dove si può spingere la fotografia di ritratto in questo senso?
Una fotografia non mostra solo il soggetto, ma anche il punto di vista del fotografo. Ci mostra “cose che non esistono più” da un certo punto di vista e “cose che nessuno riesce a vedere” perché l’attenzione selettiva di ognuno si posa su aspetti diversi dello stesso contesto.
Dal momento nel quale viene scattata, un’immagine fotografica comincia ad invecchiare. Se pensiamo alla fotografia come qualcosa che documenta un avvenimento, quell’attimo immortalato non esiste più già nell’attimo successivo. L’espressione dei soggetti non è più la stessa, la situazione neppure. Ma se consideriamo la fotografia come uno strumento che ci consente di connetterci – per esempio – con l’essenza di uno stato d’animo, allora il tempo lineare passa in secondo piano e quell’immagine avrà potenzialmente la forza di evocare nello spettatore qualcosa che va oltre lo scorrere del tempo. A seconda di ciò che è riuscito ad immortalare il fotografo e di ciò che lo spettatore riesce a percepire, la stessa fotografia può documentare un attimo di esistenza passata, connettere con una particolare emozione, simboleggiare un momento storico e molto di più…
Ricollegandomi alla domanda precedente, nel ritratto ci sono margini per evocare senza mostrare e interpretare senza rappresentare?
A mio avviso sì e non è facile perché ogni persona che osserverà quell’immagine lo farà attraverso i filtri della sua storia personale. Il fotografo potrà usare il suo linguaggio, ma non avrà mai la certezza di come verrà poi percepito. Il rischio di essere fraintesi sembra aumentare man mano che ci si allontana da immagini immediate o didascaliche, ma non credo che questo rischio dovrebbe frenarci. Ci sarà sempre chi vedrà nelle nostre immagini qualcosa di molto lontano da ciò che vediamo noi.
La luce è fondamentale in fotografia e forse nel ritratto lo è ancora di più, cosa ne pensi?
La luce è uno degli ingredienti principali, ma non l’unico. Ci sono ritratti con un’illuminazione impeccabile che, di fatto, risultano un po’ vuoti perché non mostrano nulla di intimo del soggetto. Un ritratto è più interessante quando tocca lo spettatore e aiuta a sintonizzarsi con un certo stato d’animo. Una illuminazione d’impatto o una composizione armoniosa possano aiutare molto e, nello stesso tempo, un’immagine può cogliere un aspetto dell’essenza del soggetto anche senza l’aiuto di luci particolari.
Quali sono i tuoi lavori a cui sei più legato e quanto il coinvolgimento personale è di aiuto?
Mi piacciono alcuni scatti degli inizi della mia carriera, quando non avevo tanto la consapevolezza di cosa stavo combinando ma seguivo comunque mia intuizione. Poi ci sono alcune immagini che segnano delle scoperte o dei cambiamenti nel mio modo di fotografare: Le Baiser (che ritrae l’amore in una coppia di anziani), Carlo (il primo soggetto della mia fortunata serie Ritratti In Silenzio) o gli scatti recenti di Benedetta Barzini nei quali mi sono permesso di fotografare veramente come desidero io senza pensare troppo alle esigenze del photo editor o del direttore.
Tu hai scritto un prezioso libro “Marketing per fotografi“, ci puoi descrivere brevemente qual è il tuo intento?
Devo dire la verità? Io avevo proposto a Feltrinelli un libro sul ritratto, ma loro ne avevano appena pubblicati due e mi hanno chiesto un altro argomento. Avevo scritto diversi articoli sul marketing per fotografi ed è stato naturale andare in quella direzione. All’inizio ero titubante riguardo a un libro di marketing, anzi non avevo molta voglia di occuparmene, ma poi mi sono appassionato e scrivendo mi sono reso conto di quante cose conosco sull’argomento. Mi piace l’idea di mettere a disposizione di altri quello che ho imparato negli anni. Infatti ho anche deciso di condividere nel libro i contatti dei miei fornitori più difficili da trovare. Ne è venuto fuori un manuale molto ricco e pratico, zeppo di consigli concreti. Mi hanno scritto in tanti ringraziandomi, stupiti che condividessi quello che altri terrebbero segreto. Per me va bene così. È il punto di vista di un professionista che ha provato in prima persona molte strategie, esplorato diverse nicchie di clienti e… fatto anche tanti errori prima di trovare cosa funziona. Qualcuno mi ha anche chiesto se insegno dei corsi di marketing ma non ne ho intenzione. Però faccio volentieri delle presentazioni del libro nelle quali parlo della situazione della fotografia oggi dal punto di vista della mia esperienza che è lunga ed eclettica. Naturalmente non ho abbandonato il desiderio di pubblicare il libro sul ritratto, anzi ho quasi finito di scriverlo e c’è un editore interessato. Ma non ho ancora deciso per la pubblicazione e devo ancora dare gli ultimi ritocchi.
Perciò non è l’ennesimo manuale di ritratto?
Non è un manuale ma un’esplorazione di quegli aspetti del ritratto che raramente vengono presi in considerazione. I libri di fotografia parlano spesso di tecnica e di tutto ciò che si può misurare: la luce, la profondità di campo, le proporzioni… Ma una fotografia è fatta anche di cose che sono difficili da misurare: sensazioni, evocazioni, impressioni. Siamo abituati a pensare che le cose non quantificabili non siano logiche e dunque non siano davvero reali. Eppure la vita è fatta di tante cose così: chi ha mai sentito parlare di un chilo d’amore o di un etto di paura? Si può misurare la timidezza in centimetri? Tuttavia sono cose molto reali, anche se non si misurano. La presenza di questi elementi in un ritratto fa sì che non si tratti solo della riproduzione della forma di una persona, ma che venga svelato anche qualcosa della sua intimità.
Ormai da tempo hai anche intrapreso la strada della didattica. Nei tuoi workshop utilizzi un approccio lontano dalla tecnica per far capire quali sono gli elementi fondamentali per arrivare ad un ritratto non artificioso.
Insegnare mi piace moltissimo. Condivido le cose che mi avrebbe fatto comodo imparare all’inizio della mia carriera e gli aspetti che ritengo importante tenere in considerazione quando si scattano dei ritratti. In 20 anni da fotografo professionista mi sono confrontato con persone e contesti non sempre facili. Ho dovuto sviluppare la capacità a mettere a proprio agio i miei soggetti e adattarmi alle situazioni più critiche. Il mio approccio si è sviluppato poco a poco, imprevisto dopo imprevisto, errore dopo errore. Ho imparato l’importanza di sapere essere presenti e connettersi con la persona che devo fotografare anche se intorno sta succedendo il finimondo. Ho imparato a fare i conti con le mie preoccupazioni mentre scatto e fare in modo che non interferiscano con il risultato: le tratto al pari di condizioni di luce sfavorevoli o di uno sfondo problematico. Mentre si scatta un ritratto può succedere di tutto: difficoltà di comunicazione, eccessivo entusiasmo, antipatia, capricci… è importante sapere gestire la relazione col soggetto e anche i nostri momenti di difficoltà. E non solo. Occorre focalizzarsi sul risultato che si vuole ottenere ed essere nel contempo aperti a ciò che accade. Controllare la composizione, stimolare il nostro soggetto a mostrare qualcosa di interessante, essere creativi, sensibili, empatici, veloci e – perché no? – divertirsi.
E poi c’è la tecnica. Serve ad esprimersi, come le parole. E proprio come la grammatica e la sintassi da sole non bastano per scrivere un bel libro, la tecnica fotografica è solo un supporto, la base con la quale ci si esprime. Ecco perché non insegno tecnica, preferisco concentrarmi su ciò che si può fare una volta che la tecnica si conosce già. Anche pochissima tecnica, saper mettere a fuoco e impostare il tempo è sufficiente per partecipare a un mio workshop. Ma bisogna essere curiosi di cosa viene dopo. Avere voglia di fare tanta palestra creativa e confrontarsi anche con i propri piccoli disagi da fotografo per poterli superare e poi esprimersi con più facilità.
Come giudichi lo stato oggi della fotografia in Italia a livello di didattica, di consapevolezza, di proposte?
Quando visito gli eventi di Paris Photo o le mostre del Mese Europeo Della Fotografia di Berlino e penso a certe manifestazioni culturali dedicate alla fotografia in Italia mi viene la pelle d’oca.
Però abbiamo anche mostre straordinarie, per esempio quelle organizzate al Castello Di Stupinigi o al PAC di Milano. E poi apprezzo molto alcune piccole realtà che con pochi mezzi ma tanta passione riescono a dare vita ad iniziative interessanti.
In generale noi abbiamo tanti bravi professionisti, ma anche tanti incompetenti o persone che si approfittano della propria posizione per favorire chi vogliono. Ho letto critici tessere le lodi di improbabili fotografi e visto fotografi di grande talento non riuscire a sbarcare il lunario. In genere la meritocrazia è ampiamente ignorata. Non è una situazione favorevole. La fotografia per svilupparsi ha anche bisogno di fermento culturale, entusiasmo, opportunità. È stato così per i fotografi del Bar Jamaica a Milano negli anni ’60 e anche per i fotografi che negli anni ’80 hanno potuto sperimentare tanto grazie all’industria della moda. Oggi i fotografi non hanno la vita facile, sono tempi critici e occorre molta intraprendenza e creatività per continuare a fotografare, sperimentare ed esprimersi.
Potete trovare ai seguenti link sia il sito personale di Enzo Dal Verme sia la pagina dedicata ai suoi preziosi laboratori:
https://www.workshop-ritratto.it/
Mirko Bonfanti