Monkey Man: un film che scimmiotta John Wick

“In un villaggio in una foresta dell’India, Kid cresce ascoltando le storie di Hanuman, il dio scimmia, narrate da sua madre Neela; finché il loro mondo non viene brutalmente distrutto. Anni dopo, Kid è diventato un combattente mascherato in un club di boxe clandestino, deciso a vendicare la morte della madre per mano del malvagio guru Baba Shakti e del suo scagnozzo, il poliziotto corrotto Rana Singh.

Spiace vedere come il cinema contemporaneo, si stia sempre più avvitando in una spirale di remake o film derivativi fatti male. Tuttavia il cinema d’autore è riuscito sempre a prendere un film e farne un buon se non ottimo remake. Si pensi al già ottimo “Scarface” (1932) di Howard Hawks che rifatto da Brian De Palma nel 1983 diventa, anche grazie a un Al Pacino e una Michelle Pfeiffer in stato di grazia, un capolavoro nella storia del cinema.

Quindi quando il regista Jordan Peele decise di strappare il film di Patel alla diffusione via streaming e di distribuirlo nelle sale cinematografiche, ci aspettavamo che la qualità fosse, se non eccelsa almeno ottima.

Monkey_Man_su_concessione_Universal_Studio
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Invece il film è un guazzabuglio, con alcune cose anche godibili se siete appassionati dei cosiddetti “film di menare”, ma alla fine è un film piatto, con poche intuizioni registiche, una sceneggiatura scritta male ma ancor peggio quello che è la cosa peggiore che possa accadere a questi film d’azione: poche scene di combattimento e un montaggio non all’altezza. Patel non si dimostra un bravo regista e mostra soprattuto tutte le sue incapacità e carenze come sceneggiatore. Andiamo ad analizzare la sceneggiatura in modo particolareggiato, così da farvi capire perché il film non funziona:

Anatomia di una Sceneggiatura Incompiuta

La sceneggiatura di “Monkey Man” rappresenta un caso studio intrigante di come le ambizioni narrative possano scontrarsi con le limitazioni di un’esecuzione acerba. La struttura in tre atti del film rivela immediate fragilità. Il primo atto, cruciale per stabilire le fondamenta emotive della storia, soffre di una compressione eccessiva. La presentazione del trauma fondante, ovvero la morte della madre di Kid, viene trattata con una superficialità che ne compromette l’impatto emotivo. La transizione verso il secondo atto, dove Kid emerge come combattente mascherato, manca della necessaria progressione drammatica per rendere credibile questa trasformazione. I personaggi sono mal gestiti. La figura del protagonista, il Kid, risulta piuttosto piatta e stereotipata, limitandosi a incarnare il ruolo del giovane traumatizzato senza approfondire le sfumature della sua personalità. La sua trasformazione in un vigilante mascherato sembra brusca e poco motivata, mancando di una progressione psicologica credibile. Il richiamo alla mitologia di Hanuman, pur affascinante, rimane un elemento decorativo, senza essere pienamente integrato nella narrazione e nel percorso di crescita del protagonista.

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L’antagonista Baba Shakti risulta eccessivamente stereotipato, limitandosi a incarnare il ruolo del guru malvagio senza sfumature più profonde. Le sue motivazioni rimangono vaghe, rendendolo un antagonista unidimensionale. Il rapporto con Rana Singh, il poliziotto corrotto, è solo accennato, perdendo così l’opportunità di creare una dinamica antagonistica più complessa e intrigante. La Figura Femminile è, purtroppo, un’occasione mancata  Sita, la donna che lavora nel night club, rappresenta un personaggio dal potenziale inespresso. La sua caratterizzazione risulta frammentaria, oscillando tra diversi archetipi femminili senza mai definire una vera identità. Pur venendo presentata inizialmente come potenziale interesse amoroso, la sua relazione con Kid non sviluppa una chimica convincente. Il suo passato da vittima del traffico di esseri umani, sebbene accennato, non viene approfondito a sufficienza per dare al personaggio la complessità che meriterebbe. La sua funzione nella narrazione rimane ambigua, fluttuando tra quella di alleata del protagonista e di semplice elemento decorativo. Le scene che la vedono interagire con Kid mancano della tensione drammatica necessaria a giustificare il loro legame.

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Inoltre si sarebbe potuto osare di più diversificando la provenienza della donna, scegliendo un paese dell’est Europa o ancor di più dell’Africa, invece che scegliere l’origine indiana. Scegliere una donna di religione musulmana avrebbe reso ancor più complesso il personaggio.

Il Sistema dei personaggi secondari non è sviluppato abbastanza. Mostra una preoccupante tendenza all’abbandono narrativo. Alphonso, inizialmente presentato come amico intimo e confidente di Kid, lascia un senso di incompletezza. La sua presenza iniziale prometteva un ruolo fondamentale nella trama, ma in seguito scompare senza una spiegazione soddisfacente. Il suo potenziale come contrappunto morale al protagonista, offrendo una prospettiva alternativa o sfidando le scelte di Kid, viene purtroppo trascurato.

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La Comunità Hijra pur presentando un potenziale innovativo per il genere action, viene purtroppo sfruttata in modo superficiale. Pur offrendo l’opportunità di esplorare sfaccettature interessanti della società indiana, il suo ruolo si riduce a una mera rappresentazione esotica. Manca un’analisi approfondita della cultura e del significato sociale di questo elemento, limitandosi a una descrizione stereotipata.

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Il cane randagio, simbolo visivo della solitudine di Kid, pur essendo un elemento potenzialmente potente, viene gestito in modo incoerente. La sua presenza intermittente non trova una giustificazione narrativa convincente e il suo potenziale simbolico rimane inesplorato. Le sue apparizioni sembrano casuali, non legate a un preciso sviluppo della trama. In definitiva, questo elemento viene introdotto e poi abbandonato senza un vero impatto sulla narrazione.

L’interazione tra i personaggi è semplicistica. I dialoghi risultano piatti e poco incisivi, mancando di quella profondità che potrebbe rendere le interazioni più interessanti. Le relazioni tra i personaggi non evolvono in modo organico, restando spesso statiche e poco significative. Le scene di gruppo, in particolare, risultano poco dinamiche e non contribuiscono a creare un vero senso di comunità. La rete di relazioni inizialmente presentata, come quella della delinquenza indiana, viene presto abbandonata, impedendo la costruzione di un ambiente sociale solido su cui fondare la trama. La gestione dei personaggi secondari evidenzia una carente profondità nella scrittura. I personaggi sembrano isolati in compartimenti stagni, con interazioni limitate e poco significative. Gli archi narrativi introdotti vengono spesso abbandonati a metà, privando la storia di un’evoluzione organica. Il potenziale drammatico delle relazioni tra i personaggi, soprattutto quelle femminili, rimane inespresso, con caratterizzazioni superficiali e stereotipate. Questa debolezza nella gestione dei personaggi di supporto compromette la credibilità dell’intero universo narrativo, rendendo la storia di Kid una vendetta solitaria invece di un’odissea emotiva più ricca e stratificata.

I dialoghi soffrono di una tendenza alla didascalicità che compromette la profondità delle interazioni tra i personaggi. Le conversazioni spesso mancano di sottotesto, limitandosi a veicolare informazioni plot-driven invece di rivelare sfumature caratteriali o tensioni drammatiche sottostanti. L’impiego dei flashback in questa narrazione, anziché arricchire l’esperienza del lettore, finisce per frammentarla. Le continue interruzioni temporali creano un ritmo discontinuo che distoglie l’attenzione dal flusso narrativo principale. Le transizioni tra presente e passato risultano spesso brusche, mancando di quella fluidità che renderebbe l’esperienza più immersiva. In particolare, i ricordi legati alla morte della madre, pur essendo un elemento chiave della storia, non apportano la profondità psicologica attesa. Lo spettatore comprende anticipatamente l’evento, annullando così l’effetto sorpresa e l’impatto emotivo che un ricordo così significativo dovrebbe avere. Sembra quasi che i flashback siano inseriti a forza, più per fornire informazioni che per approfondire la psicologia del protagonista.

La sceneggiatura ambisce a esplorare molteplici temi, intrecciando la vendetta personale di Kid con una critica sociale alla corruzione in India, elementi mitologici legati a Hanuman e una rappresentazione delle comunità emarginate. Tuttavia, quest’ambizione si scontra con una realizzazione superficiale. Ciascun filone narrativo, pur portando con sé un potenziale notevole, viene affrontato in modo frammentario, senza la profondità e l’integrazione necessarie. Il risultato è una trama che si disperde in diverse direzioni, senza riuscire a dare a ciascuno di questi temi lo spazio e l’attenzione che meritano. Il simbolismo nel film appare forzato e poco sviluppato.La maschera, emblema della nuova identità di Kid, rimane un elemento statico, incapace di evolversi e di riflettere la sua trasformazione interiore. Il parallelo con Hanuman, pur accennato, non viene approfondito, lasciando in sospeso un potenziale ricco di significati simbolici.

Infine il ritmo narrativo è caratterizzato da continui sbalzi, con accelerazioni improvvise che spezzano il flusso della storia e scene d’azione che interrompono piuttosto che culminare la narrazione. I momenti chiave mancano della necessaria costruzione drammatica, lasciando lo spettatore disorientato e insoddisfatto.

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La sceneggiatura di “Monkey Man” rivela l’inesperienza di Patel come sceneggiatore. Le buone intuizioni come l’intreccio tra vendetta personale e mitologia, la critica sociale, l’elemento action, non trovano una sintesi organica. Il risultato è un testo che, pur mostrando potenziale, non riesce a sviluppare pienamente nessuno dei suoi elementi costitutivi. Le debolezze della sceneggiatura si riflettono inevitabilmente sulla regia, creando un effetto domino che compromette l’efficacia complessiva del film. Ci si aspetterebbe che almeno la cinematografia possa ovviare a questi enormi buchi e problemi, con sequenze visivamente ben girate ma questo non accade così spesso.

Dietro la macchina da presa: un mix di alta tecnologia e sperimentazione

Per catturare l’energia frenetica e l’estetica cinematografica di “Monkey Man”, la troupe ha fatto affidamento su un arsenale tecnologico all’avanguardia. Al centro della produzione troviamo l’Arri Alexa Mini, una camera digitale rinomata per la sua versatilità e la straordinaria qualità delle immagini.

A completare il setup, sono stati scelti gli obiettivi anamorfici Anamorphic/i S35 Cooke, noti per la loro capacità di creare un’immagine dilatata e ricca di dettagli, e gli obiettivi Panchro/i Classic S35 Cooke, che conferiscono un tocco più classico e cinematografico. L’utilizzo di obiettivi anamorfici, con il loro caratteristico rapporto d’aspetto 2.39:1, immerge lo spettatore in un’esperienza visiva più ampia e coinvolgente, enfatizzando sia le sequenze d’azione più dinamiche che i momenti di maggiore intimità.

Tuttavia, non tutto è filato liscio durante le riprese. A causa di imprevisti tecnici e momentanei problemi di budget, in alcune occasioni è stato necessario ricorrere all’utilizzo di iPhone. Questa scelta, seppur inusuale per un film di questa portata, testimonia la flessibilità e la determinazione della troupe nel portare a termine il progetto.

Un’altra caratteristica distintiva della fotografia di “Monkey Man” è l’introduzione della “pendulum cam”, un’attrezzatura customizzata creata dal regista Dev Patel stesso per catturare scene d’azione da angolazioni inattese e dinamiche. Questa scelta conferisce alle sequenze di combattimento un’energia visiva unica, enfatizzando la coreografia e la fluidità dei movimenti.

La controversa “shaky cam” e la rappresentazione dei combattimenti

Ma è l’uso massiccio della “shaky cam” a dividere critica e pubblico. Questa tecnica, che consiste nel muovere la telecamera in modo irregolare e a volte brusco, è stata utilizzata in modo pervasivo per creare un senso di immediatezza e di coinvolgimento nello svolgersi dell’azione. Tuttavia, molti spettatori trovano questa scelta eccessiva, lamentando una difficoltà nel seguire le coreografie e nell’apprezzare appieno le abilità marziali del protagonista, Dev Patel stesso, cintura nera di taekwondo. L’eccessivo tremolio della telecamera, unito a un montaggio frenetico, finisce per offuscare la chiarezza delle sequenze d’azione, rendendo difficile per lo spettatore apprezzare la fluidità e la precisione dei movimenti.

Per gli amanti dei tecnicismi vogliamo spiegare bene le differenze tra Shaky cam e Pendulum cam perché si rischiano fraintendimenti.

La shaky cam e la pendulum cam sono due tecniche cinematografiche che sfruttano il movimento della telecamera per creare effetti visivi specifici. La prima, caratterizzata da movimenti irregolari e spesso bruschi, simula il punto di vista di un osservatore in movimento o in una situazione di stress, creando un senso di immediatezza e realismo. La seconda, invece, utilizza un movimento oscillante e controllato, simile a un pendolo, per generare riprese dinamiche e fluide, spesso utilizzate in scene d’azione o per enfatizzare la bellezza di un movimento.

TecnicaCaratteristicheEffettoUtilizzo tipico
Shaky camMovimenti irregolari, bruschiRealismo, immediatezza, disorientamentoInseguimenti, scene di panico
Pendulum camMovimenti oscillanti, controllatiDinamismo, fluidità, bellezza del movimentoScene d’azione, coreografie

Conclusioni

Nonostante le molte debolezze sopra elencate, “Monkey Man” ha anche alcuni meriti. Il film affronta coraggiosamente temi importanti come la corruzione, la disuguaglianza sociale e la violenza in India, utilizzando anche filmati di repertorio di vere proteste. Tuttavia, la critica ha sollevato dubbi sulla semplificazione della complessa realtà indiana e sull’omissione della popolazione musulmana, vittima di discriminazioni e violenze. La scelta di modificare digitalmente le bandiere color zafferano, simbolo del nazionalismo indù, per evitare controversie, è stata vista come un atto di autocensura che indebolisce la critica politica del film. Un altro aspetto interessante di “Monkey Man” è il modo in cui intreccia la mitologia indiana alla storia di Kid. Il film crea un parallelismo tra la vendetta del protagonista e il percorso eroico di Hanuman, il dio scimmia.

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Pur ispirandosi a “John Wick”, “Monkey Man” tenta infatti di distinguersi incorporando elementi della cultura e della realtà indiana. L’integrazione della mitologia, la critica sociale e la rappresentazione di personaggi marginali sono elementi che differenziano il film dal suo modello. Tuttavia, la sceneggiatura debole, la regia incoerente e il montaggio frammentario impediscono a “Monkey Man” di realizzare il suo potenziale e di emanciparsi dall’ombra del suo ispiratore. Ma anche solo di essere un film sufficientemente riuscito.

“Monkey Man” è un’opera ambiziosa con un messaggio forte, ma la sua realizzazione difetta in diversi aspetti. Nonostante l’impegno di Patel e la forza visiva di alcune sequenze, “Monkey Man” rimane un’occasione quasi del tutto mancata.