OLTRE L’APPARENZA: DALL’IMPERMANENZA DELLE COSE ALLA RICERCA DELL’ESSENZA. Intervista a Giovanni Maria Sacco

La fotografia non può più, o non ha mai potuto, rappresentare il mondo, ovvero l’altro e il diverso da sé, ma la fotografia può rappresentare solo sé stessa, la materia fisica che ne forma la struttura primaria e costitutiva” (Giovanni Chiaramonte).

“La fotografia non è la rappresentazione della realtà, è la sua ‘traduzione’, la trasposizione cioè di un insieme di segni che, una volta ordinati, assumono significato” (Edward Steichen).

Può la fotografia essere uno strumento di riflessione oltre che un atto di cattura visiva? Può penetrare la realtà delle cose e andare oltre l’apparenza? Attraverso lo strumento fotografico si possono creare metafore che rimandano a qualcosa di più profondo, che ha a che fare con la sfera della filosofia e della ricerca interiore?

Probabilmente sì, se ci immergiamo nella ricerca fotografica di Giovanni Maria Sacco (Roma, 1954) che negli anni si è concentrata “sull’essenza e il mistero degli oggetti e delle forme del nostro quotidiano e sul senso generale di impermanenza nel mondo”, cercando il limite “tra ciò che esiste e la sua rappresentazione, con la consapevolezza che la sua natura – l’essenza delle cose – non si esaurisce in ciò che è immediatamente percettibile e manifesto”.

Pioniere dell’informatica negli anni Settanta e per trent’anni docente universitario, fin da bambino Sacco ha seguito la sua vocazione per la fotografia, sviluppandola prima tra gli anni ’70 e ’80 e poi dopo gli anni Duemila attraverso l’uso di fotocamere digitali Sony e a pellicola, da 6×6 a 20×25 cm, alla ricerca della bellezza sia nel declino e nell’impermanenza delle cose che nella loro atemporalità. Le sue immagini hanno spaziato dall’architettura (con una predilezione per gli edifici razionalisti, le rovine archeologiche e le industrie) alla natura morta, dal ritratto ai nudi, con lavori esposti in Italia e all’estero, dall’Europa alla Cina, da New York a Dubai, ricevendo – dal 2015 in poi – numerosi premi a livello internazionale (Architecture Master Prize, International Photo Awards, Fine Art Photography Awards, Prix de la Photographie Paris, ecc.).

La sua produzione fotografica, una cui selezione è stata recentemente esposta a Torino presso Riccardo Costantini Contemporary nella mostra “Presente Remoto” a cura di Alessia Locatelli, rappresenta un “continuo invito a guardare la realtà oltre come la si vede, addentrandosi in una dimensione altra e sconosciuta continua”, con fotografie – caratterizzate da una profonda connotazione metaforica – in cui è presente solo “tutto e solo ciò che serve, niente di più, niente di meno”, sulla base del principio del Rasoio di Occam, attraverso “uno studio accurato delle tecniche di rappresentazione, […] una precisa composizione del frame e l’uso attento e consapevole della luce” che prende spunto dalla pittura: “un connubio tra abilità e creazione che muove verso l’osservazione dettagliata e un’indagine sull’immanenza degli oggetti” (A. Locatelli).

A partire dai primi scatti, con cui il fotografo cattura atmosfere esotiche di città asiatiche con una Kodak Brownie Fiesta, egli si apre progressivamente a suggestioni paesaggistiche, “misurando già il suo sguardo sulle dimensioni e i tempi sospesi dei luoghi isolati e silenti”: in Sad America (1981), infatti, raffigura i grandi landscapes americani e luoghi non più abitati con immagini in bianco e nero di straight photography in cui è racchiusa in nuce l’idea – che lo accompagnerà tutta la vita – del “tempo come abbandono”, che passa per l’isolamento decadente degli edifici e per una natura che si riappropria dei suoi spazi, spingendosi oltre le evidenze empiriche per indagare ciò che trascende l’esperienza dei sensi, spunto di riflessione sulla ricerca di immortalità dell’uomo e sulla caducità delle cose.

©Giovanni Sacco, Sad America

Da questo primo lavoro, dopo una lunga pausa, dal 2012 l’indagine di Sacco si evolve in maniera spontanea verso l’archeologia industriale, portandolo a fotografare – con scatti a colori o in bianco e nero – ampi e silenziosi spazi di lavoro abbandonati che, nel mantenere le tracce di una vita precedente, ben rappresentano dal punto di vista materiale il concetto di caducità.

Tra questi in Carceri d’invenzione (2020) Sacco rende omaggio – senza volerle replicare – alle omonime “visioni” fantastiche, ardite e deliranti di Giovan Battista Piranesi (dal 1750) raffiguranti immensi, labirintici e claustrofobici spazi bui popolati da catene e macchinari – che nei secoli hanno influenzato letterati, architetti e artisti dal Romanticismo al Surrealismo – cercando di replicare i medesimi sentimenti di angoscia, paura e smarrimento.

©Giovanni Sacco, Carceri d’invenzione

Lo stesso avviene in All things devoured, che ha vinto il Bronze in Book>Fine Art al Moscow International Foto Awards del 2017, in cui 80 fotografie di luoghi abbandonati e in decadenza, in cui la tristezza lascia spazio alla bellezza, mostrano le conseguenze del passare del tempo quale metafora della condizione umana.

Silent Theatres (2023) edito da Kehrer Verlag, con cui l’autore ha recentemente vinto il primo premio categoria libri al Tokyo International Photo Awards, rappresenta invece il seguito di questi progetti, con una “narrazione visiva” che, attingendo da un vasto archivio fotografico costruito in diversi anni, parte dalla raffigurazione di fabbriche abbandonate – in cui regna lo stesso silenzio di un teatro dopo l’ultimo spettacolo – per divenire metafora della morte, intesa come epilogo delle fatiche umane e delle speranze: luoghi prima brulicanti di voci, rumori, persone e attività improvvisamente arrestano la loro corsa, cadendo nell’oblio di “un silenzio che avvolge spazi, oggetti, memorie”. Attraverso un bianco e nero scuro e ad alto contrasto il fotografo cerca di raffigurare la bellezza che si nasconde in questi luoghi, nonostante la rovina e il decadimento silenzioso.

© Giovanni Sacco, Silent Theatres

Il tema della lenta ma dignitosa decadenza delle cose come forma dell’estetica, unito a quello del tempo che avanza e dell’inevitabilità della morte, è diversamente declinato in ‘Memento Mori’ (2021), ove l’autore – attraverso curate, colte e raffinate nature morte su fondi neutri ispirate alla tradizione pittorica classica, che mostrano una profonda conoscenza della luce e della tecnica – raffigura vasi di fiori appassiti che, pur avendo perso la loro originaria forma e colore, sono inaspettatamente belli.

Una rielaborazione di questa serie si ritrova in Applied MetaphysicsGround Truth (2014), con cui egli ricerca la “verità di base” (la verità immanente delle cose) attraverso la metafisica applicata all’arte visiva, unendo la raffigurazione di soggetti floreali e oggetti quotidiani – che emergono dal buio attraverso luci in still life e fondo scuro tipico della pittura nordica – con l’innovazione della tecnica di acquisizione in altissima risoluzione dell’immagine: se da un lato il buio amplia l’effetto drammatico del soggetto, astraendolo dal tempo e dallo spazio e rendendolo simbolo, dall’altra gli scatti di oltre 400 Mpixel, eseguiti con grande perizia e difficoltà tecnica attraverso una monorotaia Sinar di grande formato, permettono stampe di grandi dimensioni a livello iperrealistico, mostrando una tale quantità di dettagli da trascendere la visione normale, in un percorso che conduce a guardare l’essenza interiore e invisibile delle cose, “tra un soprannaturale presentato come parte integrante del quotidiano e una realtà così esasperata nei particolari da risultare ingannevole”.

Questo bisogno di indagare oltre l’apparenza attraverso oggetti quotidiani sottratti al contesto, per suscitare emozioni inedite, è strettamente legato alla metafisica – branca della filosofia che studia l’essere in quanto essere, al di là di ciò che appare fisicamente e che noi percepiamo – che ha ispirato in pittura la scuola di De Chirico, le cui ambientazioni atemporali e misteriose influenzarono movimenti artistici come Valori Plastici, Neue Sachlichkeit e il Surrealismo, e in letteratura i poeti metafisici, che caricavano la realtà di interrogativi attraverso metafore non comuni ed eccessive.  

© Giovanni Sacco, Motta D’Affermo, Messina

Da qui nasce il progetto Metafisica Concreta, edito da Contrasto (2024), oggetto di una recente monografica a Milano presso Galleria Still a cura di Benedetta Donato, che rappresenta un “viaggio fisico e mentale nella forma metafisica – che qui è anche sostanza – e nei suoi simboli”, attraverso una “narrazione di grande impatto, che segue il ritmo di un tempo sospeso e si articola in una sequenza inaspettata dei diversi soggetti ripresi, dei mondi posti in dialogo in quanto pertinenti a uno stesso universo concettuale”  (B. Donato).

In questo lavoro – il cui titolo è un ossimoro (perché la metafisica trascende la percezione e non può pertanto essere concreta) e la cui traduzione inglese rappresenta un’ulteriore metafora (concrete significa sia concreto che cemento: Metafisica di pietra, dunque) – si alternano fotografie in bianco e nero, anche su pellicola di grande formato, raffiguranti luoghi misteriosi e stranianti avvolti nel silenzio e per lo più privi della presenza umana, con dettagli di rovine, statue o architetture del Novecento Italiano, omaggio alle Piazze d’Italia e ai manichini di De Chirico. Qui la fotografia è un mezzo per rivelare l’interpretazione della metafisica da parte dell’autore: se da un lato infatti il rigore minimalista e l’assenza di decorazioni degli edifici raffigurati sottolineano la vera essenza delle cose trascendendo l’apparenza, dall’altro gli archetipi architettonici in chiave moderna (archi, pilastri, colonne) rappresentano qualcosa che è immune allo scorrere del tempo. Le immagini in bianco e nero, ridotte all’essenziale e dal forte impatto emotivo, sono caratterizzate da un’attenta scelta compositiva e da un sapiente dosaggio della luce e dei contrasti, mai eccessivi: i soggetti “non sono colti in un’istantanea, bensì persistono in una condizione di sospensione metafisica, simile a quella realizzata in pittura da Piero della Francesca, Edward Hopper e Vilhelm Hammershøi”, sottraendoli al tempo cui appartengono per portare l’osservatore in una dimensione altra e sconosciuta.

© Giovanni Sacco, Metafisica Concreta

Ma come approfondire meglio questi temi così complessi? Facciamolo direttamente con le parole dell’autore.

Quando e come è nata la sua passione per la fotografia e come si è sviluppata nel tempo?

Io fotografo dall’età di 8 anni, anche se in maniera più seria dal 1972. In un primo periodo, che è durato fino al 1981, mi sono interessato di fotografia di paesaggio, ma poi ho smesso per una ventina d’anni – durante i quali ho progettato e realizzato grandi sistemi software – anche perché avevo l’impressione che la qualità delle mie immagini non raggiungesse gli obiettivi che mi ero posto. Usavo una pellicola GAF 640, tra le invertibili più veloci dell’epoca, per cui bisognava spedire il rullino in Olanda dove ci voleva più di un mese per lo sviluppo, vedendo così il risultato del lavoro solo mesi dopo, il che era frustrante. Ho ricominciato a fotografare negli anni Duemila, anche se in maniera diversa, grazie all’avvento del digitale – dal risultato immediato – e dopo una maturazione personale che mi ha permesso di migliorare la qualità della mia fotografia.

Cos’è per lei la fotografia? Che significato ha e cosa cerca di raccontare attraverso l’obiettivo?

La fotografia è per me una necessità. Van Gogh diceva di sentirsi vivo solo quando dipingeva: pur non essendo così estremista mi rendo conto che quando fotografo ho una percezione più forte della realtà, perché non mi limito a guardare ma cerco di entrare dentro le cose. Con la fotografia – come mi è capitato con l’informatica – colmo un mio bisogno di creare: è una specie di maieutica che tira fuori cose inespresse. I miei temi principali – o meglio quelli che mi interessano di più – sono la morte, ossia l’impermanenza delle cose, e la metafisica, che è il contrario, poiché ricerca ciò sta dietro le cose e non muore, la realtà vera. Trovo la bellezza ovunque, anche nei fiori marci, che fotografo come metafora della morte e del disfacimento. Potrei rappresentare questi temi direttamente, come i teschi in un memento mori o i cadaveri di Witkin, ma non è così che voglio raccontarli, perché preferisco usare suggestioni e metafore. In genere non amo spiegare le fotografie, ma mi sono reso conto che spesso è importante creare un contesto e un filo conduttore tra le immagini, come in Carceri di invenzioni, il cui titolo, richiamando Piranesi, rende evidente cosa voglio esprimere.

Prima di dedicarsi alla fotografia a tempo pieno ha insegnato informatica per 30 anni. Esiste un legame tra questi due mondi, apparentemente così lontani?

Esiste un legame, ma nella nostra epoca sembra scomparso. In passato – quando i pittori erano anche scienziati – non c’era separazione tra arte e scienza, mentre oggi purtroppo gli artisti ritengono aridi gli scienziati e questi ultimi raramente si interessano di arte. L’informatica è un’area molto ampia che ne sta assorbendo altre, dalla filosofia alla logica: ad esempio, all’università io insegnavo interazione uomo-macchina, che è un’area informatica basata in buona parte sulla psicologia cognitiva. Se si vuole trovare una connessione tra i due mondi partirei dall’astrazione e dalla semplificazione, che in qualche modo li unisce: c’è un interessante saggio di Arthur Koestler – “The act of creation” – dove l’autore cerca di dimostrare che artisti, scienziati e buffoni utilizzano un medesimo procedimento, trovando relazioni tra concetti apparentemente indipendenti che altri non vedono: questo è interessante e può fare da ponte tra arte e scienza.

Temi come l’abbandono e il decadimento sono ricorrenti nei suoi progetti, dalla serie “Memento mori” ai silenzi vuoti delle fabbriche di “All Things Devoured” o “Silent Theatres”. Da dove nasce questo interesse? Qual è il suo rapporto con la morte?

Quello che mi ha aperto gli occhi è stato un evento fortuito sulle Alpi piemontesi, in Alta Val Susa e Chisone, quando nel 1975 ho avuto modo di frequentare quei luoghi oltre la stagione sciistica, girando su strade innevate tra villaggi allora abbandonati, miniere, cave, piccole fabbriche, senza nessuno e in un silenzio totale: era un esempio di cose che morivano con dignità, simbolo di bellezza, interesse che da allora mi ha sempre accompagnato diventando uno dei temi principali. Questo (“Le plaisir de mourir sans peine” del 1975-76 – ndr) è stato anche il mio primo libro fotografico, stampato a mano su carta fotografica in due soli esemplari e legato da bulloni, come fece Depero negli anni Venti, senza però che io lo sapessi. Per quanto riguarda il mio rapporto con la morte non ne ho particolare paura, temo piuttosto di perdere la lucidità o l’autonomia e dipendere da altri, però è un rapporto asimmetrico, perché, mentre non ho paura della mia morte, mi devasta quella di chi amo.

© Giovanni Sacco, Silent Theatres

Le sue fotografie hanno una forte componente pittorica. A chi si ispira? Quali sono i suoi riferimenti principali in pittura e in fotografia?

Oltre che nella scuola metafisica, il cui motto era “dipingere ciò che è invisibile”, in pittura mi riconosco nel Realismo magico, in Felice Casorati e, per certi versi, nell’iperrealismo e nei Simbolisti, come Franz Von Stuck, un simbolista minore ma interessante. Il mio lavoro però non si riferisce a pittori specifici – anche se ho fatto foto alla Casorati con ciotole e uova (nel mio caso di porfido) – ma è un distillato di immagini che provengono da questi mondi. In fotografia mi interessa invece il pittorialismo (Alfred Stieglitz e Julia Margaret Cameron) e il lavoro di Sarah Moon, che trovo incredibile dal punto di vista poetico, o di Paolo Roversi, sempre in un’ottica di trasfigurazione della realtà. Altri fotografi che trovo interessanti, anche se non mi influenzano, sono Arthur Tress, con il suo The Dream Collector, un libro fotografico sconvolgente degli anni ’70 sugli incubi dei bambini realizzato con il minimo necessario, di cui ho una prima edizione, e i cecoslovacchi Jan Saudek, Josef Sudek e Miroslav Tichy, che si era costruito una macchina fotografica di cartone e fotografava le donne della sua città. Tra i pittori invece De Chirico, per la sua poetica, ma anche Piero della Francesca, Edward Hopper, Vilhelm Hammershøi e Giovan Battista Piranesi. Ho poi forti riferimenti nella filosofia, nel taoismo, per l’importanza del vuoto (“dalla sostanza deriva la forma, dal vuoto deriva l’utilità”, per cui la brocca dà forma alla sostanza, ma è grazie al vuoto che si può versare qualcosa), e nel buddismo Mahāyāna, per l’idea che quello che vediamo non è ciò che esiste e ciò che esiste è dietro il “velo di Maya”, che nasconde la vera realtà.

Ha fotografato molti ambiti, dall’architettura al ritratto, dalla natura morta al nudo. Esiste un filo conduttore che unisce questi diversi temi?

Nel mio sito web ci sono quattro citazioni, di cui due rilevanti, che mi rappresentano. Una è di Walt Whitman: “Io sono grande, contengo moltitudini”, e una di Don Juan di Carlos Castaneda: “Per me esiste solo il viaggiare su sentieri che hanno cuore, su qualsiasi sentiero che abbia cuore”. Ho molti e diversi interessi che catturano la mia attenzione e hanno risonanza in me, ma credo siano tutti legati da un filo conduttore che è il mio sguardo, con cui voglio annullare il tempo e vedere le cose – come dicevano i teologi – sub specie aeternitatis e non sotto l’aspetto di ciò che succede. Inoltre con la mia fotografia cerco di dare una visione universale dei soggetti ritratti, evitando riferimenti evidenti.

In ogni progetto lei utilizza una tecnica diversa, alternando colore e bianco e nero, immagini contrastate e pittoriche, fino alle fotografie ad alta risoluzione di “Ground Truth”. Come seleziona la tecnica più adatta? Qual è il significato di queste scelte?

Io odio la routine e amo la sperimentazione, quando non è fine a se stessa (anche se credo non sia mai fine a se stessa perché apre altre prospettive). Ogni mio progetto ha una sua chiave: in Silent Theatres ho usato un bianco e nero molto contrastato per raffigurare la sensazione che si ha quando si entra in questi luoghi con residui di fumi di anni, così come la carta scelta per il libro è neutra tendente al freddo per dare maggior risalto al bianco e nero. In Metafisica concreta, che vuole dare l’idea di qualcosa di eterno e indifferente all’uomo, ho usato sempre il bianco e nero, che esalta la forma (mentre il colore distrae), però con una gamma tonale ampia e fotografie su pellicola di grande formato stampate su carta di colore caldo. In memento mori, in cui il bianco e nero non avrebbe fatto emergere la bellezza dei fiori e l’impatto dei colori, ho scelto invece una resa pittorialista per renderli ancora più belli e portarli al di là della realtà contingente. Un progetto a cui sono molto affezionato, seppur molto complesso, è infine Ground Truth, il cui scopo è quello di vedere le cose come effettivamente sono, con l’occhio di Dio, grazie ad immagini a 400 MPixel, risoluzione che all’epoca non offriva nessuna fotocamera digitale e che ancora oggi richiede macchine molto costose. L’idea, mutuata dall’iperrealismo in pittura, era quella di avere foto da stampare a grandissima dimensione (a Torino in mostra ce n’era una di 3×3 m), con una qualità tale da poter vedere sia l’immagine nel suo complesso sia, avvicinandosi, poter scorgere dettagli minimi ed essere risucchiati – in un certo senso – all’interno dell’immagine stessa. In questo progetto ho usato oggetti comuni quali archetipi, posti su un piedistallo di legno con sfondo nero (per dimostrare che il resto non ha importanza) e con un’illuminazione dall’alto come dall’Empireo. A differenza di Metafisica Concreta, in cui volevo mostrare qualcosa che esiste al di là della realtà, in questo progetto cerco di far vedere oltre il visibile, come le cose realmente sono. Una persona in mostra ha detto che non aveva mi visto le cose in quel modo: secondo Gombrich questo è il compito dell’arte.

Lei ha spesso immortalato edifici industriali, sia abbandonati, quali rovine contemporanee o “Carceri di invenzione”, sia vivi e pulsanti, sempre però fotografati in modo poetico. Cosa la affascina di questa architettura? Ha una preferenza tra la dimensione “in uso” e quella “abbandonata”?

Mi interessa sicuramente di più la dimensione abbandonata, ma in generale mi affascina il lavoro e l’idea di una società in azione, anche se delle industrie in attività posso fotografare solo l’esterno per problemi di accessibilità. Ci sono fabbriche veramente fantastiche come la raffineria di Ferrara, che ho fotografato di notte chiamandola “La città di Dite”, perché assomiglia a quella cantata nell’Inferno di Dante, con tubi, fumi, luci di temperature diverse, rumore, anche se quest’ultimo purtroppo non si può trasportare in fotografia. Quello che oggi trovo disturbante è vedere grandi industrie rase al suolo per far spazio a centri commerciali, chiaro esempio di una società fondata sul lavoro che fa spazio a una società fondata sul consumo, il che non è un buon segno.

©Giovanni Sacco, La città di Dite

Nelle sue fotografie si percepisce l’applicazione del “rasoio di Occam”, alla ricerca dell’essenzialità e dell’eliminazione di ogni superfluo, che in architettura trova traduzione nel motto “Less is more” di Mies van der Rohe. C’è una correlazione tra la sua rappresentazione dell’essenzialità in architettura e del nudo femminile?

Il rasoio di Occam è strettamente legato al concetto di “eleganza matematica”: sembrerà strano ma la dimostrazione di un teorema che viene fatta con il minimo di passi necessario è considerata elegante. Io penso che la semplicità sia elegante di per sé: tutto e solo ciò che è necessario, anche se è importante che ci sia tutto e che la cosa funzioni. A partire da questa chiave di lettura il mio interesse per il corpo femminile è lo stesso che ho in architettura per la forma, i volumi, le luci, non necessariamente erotico, anzi per nulla erotico (che è un modo diverso di porsi davanti ad esso). C’è un legame molto stretto per me tra architettura e nudo: anche qui cerco un significato universale, con un espediente che è quello di fotografare il corpo dal collo in giù, eliminando i volti, che sono meno universali in quanto riconoscibili.

©Giovanni Sacco, Cristiana NSFW

Nel suo ultimo lavoro – “Metafisica concreta” – lei cerca di indagare oltre la realtà attraverso l’essenzialità: come è possibile cogliere con uno scatto l’essenza delle cose, che per sua natura è irraggiungibile?

Questo è il problema generale dell’arte. Flavia Concina in un saggio sul mio libro cita il correlativo oggettivo, un concetto elaborato dal poeta T. S. Eliot per il quale alcuni oggetti concreti possono suscitare, senza necessità di spiegazione, qualcosa di inesprimibile, divenendo “oggetti metafisici”. Il mio modo di operare è per metafore e suggestioni e si basa sul concetto di essenzialità, atemporalità e bellezza, oltre alla quasi totale assenza dell’uomo, in modo da suggerire qualcosa di inquietante, con immagini spiazzanti, poco viste (almeno per ora), che danno l’idea di straniamento.

Come ha scelto i luoghi e le architetture da fotografare, da rovine archeologiche ad edifici del Ventennio come Tresigallo (la “città metafisica” per eccellenza), fino a icone della modernità come la tomba Brion di Carlo Scarpa o il cimitero di Aldo Rossi a Modena? Quanto tempo ha dedicato a questo progetto e come ha selezionato le immagini?

Il progetto è iniziato nel 2019, anche se nel libro ci sono immagini scattate prima. Il nucleo iniziale è nato infatti come campagna fotografica di edifici razionalisti poco noti fuori da Roma, tra cui Tresigallo, le colonie dell’Adriatico, Predappio, Forlì ecc. Mi sono però reso conto che con quelle immagini non avrei voluto fare un libro sull’architettura, ma sulla metafisica, usandole per suggerire qualcosa di straniante, misterioso ed eterno: ho iniziato così a selezionare fotografie che rappresentassero un concetto simile, legate da un medesimo filo conduttore.

In questo progetto all’architettura si affianca la scultura. Cosa simboleggiano i due soggetti?

La scultura è la rappresentazione congelata della vita, misteriosa ed eterna. La statuaria per me costituisce un ponte tra l’architettura e il corpo umano, legando due temi a me cari.

© Giovanni Sacco, Torino

Lei non utilizza mai didascalie, evitando così di identificare i luoghi e le architetture. È una scelta che mira a estrapolarli dalla loro realtà concreta? Inoltre, la presenza umana appare raramente, eccetto nei ritratti. Qual è il motivo di questa assenza?

Identificare i luoghi che fotografo è inessenziale, visto che il mio scopo è una rappresentazione universale, misteriosa e indifferente all’umanità. Trovo che la presenza umana nei luoghi che fotografo, come nelle architetture o nelle fabbriche abbandonate, sarebbe un disturbo. Non a caso in “Metafisica concreta” c’è una sola presenza umana, una donna in bicicletta davanti al Municipio di Tresigallo. Citando scherzosamente Linus “amo l’umanità, ma è la gente che detesto”, soprattutto se si posiziona davanti a me mentre fotografo.

Le architetture fotografate sono davvero universali e atemporali o risentono in qualche modo del contesto storico e sociale che le ha create?

L’architettura non è di per sé atemporale, soprattutto quella razionalista, che ho detestato a lungo prima di trovarvi la bellezza, come la trovo in Sironi e in altri. Sono sicuramente legate al loro tempo, ma questo non mi interessa, perché per le loro caratteristiche suggeriscono una atemporalità e rappresentano delle metafore, delle visioni come in un prisma, che ha riflessi diversi in base a come lo si guarda. Se pensiamo che l’architettura di Regime degli anni Venti è una costola del Modernismo, mentre in Germania il Bauhaus fu considerato sovversivo, anche il contesto storico diventa più complesso da decifrare. Ciò che mi affascina del Razionalismo italiano è che sia stato molto influenzato da De Chirico, che, per la prima e forse unica volta al mondo, ha creato – non solo dipinto – la città.

© Giovanni Sacco, Tresigallo, Metafisica Concreta

Ogni sua fotografia è autonoma o è legata ad altre in un racconto più ampio? Come si sviluppa il legame tra le immagini all’interno di un progetto?

Le mie foto sono raramente autonome, perché in genere lavoro per serie: è cambiato molto dalla mia prima fase, in cui cercavo l’immagine bella, alla seconda, in cui cerco di raccontare qualcosa. Lo sviluppo delle serie dipende da molti fattori: in alcuni casi è immediato, con un tempo limitato, quasi aristotelico, come per un progetto sulle Ninfee di Monet, che ho fatto in due sole sessioni: mi ero accorto che la gente che osservava questi enormi quadri esposti a Parigi sembrava entrare direttamente nel dipinto e mi è venuta l’idea di fotografarla senza farmi notare. Ho avuto l’idea ed è stato veloce. Lo stesso è avvenuto per l’enorme acciaieria-cokeria di Völklingen, in Germania, che, dopo il fallimento, è stata acquistata dalla regione, che l’ha “congelata” recuperandola come museo e oggi si può visitare esattamente com’era, permettendomi di fare fotografie difficili da individuare temporalmente. A parte questi casi, però, in genere non è così. Può esserci infatti una foto che per aggregazione ne porta altre per somiglianze, colori o forme: una crescita quasi vegetale che può andare avanti anni e cambiare di significato, con una nuova chiave di interpretazione.

La Sicilia appare frequentemente nelle sue opere: c’è un legame speciale con questa terra?

In Sicilia sono stato due volte per periodi abbastanza lunghi. E’ una terra che amo molto perché è un riassunto della nostra civiltà, ricca di un po’ di tutto, in un panorama che è già interessante di per sé, arido, impervio, soprattutto all’interno. In Metafisica concreta ci sono, oltre ai templi di Agrigento, anche viadotti non finiti e dighe abbandonate, che rappresentano l’oggi. Una cosa che amo fotografare in Sicilia è il venerdì santo ad Enna, una ricorrenza meravigliosa con persone incappucciate in processione, molto interessante anche dal punto di vista fotografico.

Quali sono i suoi progetti futuri?

Tra i prossimi progetti, o meglio tentativi, mi piacerebbe fare una campagna fotografica in Sardegna, dalle miniere abbandonate alle città di fondazione, che trovo molto affascinanti, in quanto create dal nulla con tutti i servizi. Un altro argomento che mi interessa sono le cave e le montagne scavate. Vorrei infine continuare con un progetto di più ampio respiro sui nudi, magari come terzo libro.

In bocca al lupo allora per i suoi nuovi progetti, e ancora complimenti per la sua fotografia e per quello che rappresenta!

Patrizia Dellavedova

Foto di copertina: ©Giovanni Sacco, Autoritratto.