È possibile dare vita a un’immagine che possa evitare forme di documentarismo in cui, da una parte, il potere preserva se stesso e costruisce la propria verità, e dall’altra crea prassi paternalistiche, in grado solo di alimentare quella che i due registi colombiani Luis Ospina e Carlos Mayolo definivano “pornomiseria”? Un’immagine, insomma, che parli di quello che rappresenta senza trasformarlo in spettacolo, per dirla con Guy Debord. Sì, è possibile. E lo è se si utilizza creativamente il mezzo foto-cinematografico, se dalle riprese documentarie traspare uno sguardo critico e non neutrale. La neutralità, infatti, ci astrae dal reale, con il rischio di guardare ad esso in maniera tematizzante, e renderlo quindi estetico e spettacolare, privo di implicazioni. Sappiamo, tuttavia, che porre lo sguardo sulla realtà, traendone delle immagini, implica un chiaro e preciso posizionamento.

Il lavoro di Ospina e Mayolo, in questo senso, è esemplare, in quanto si presenta come irriverente e impertinente critica a quel cinema miserabilista che si serve dell’immagine della povertà per creare molta ricchezza, e poca consapevolezza. I due registi sudamericani, nel 1977, firmano con questo proposito Agarrando pueblo (The vampires of poverty), una pellicola appartenente al genere del falso documentario (mockumentary), in cui i fatti ripresi, fittizi, sono presentati come se fossero reali attraverso la tecnica del documentario.
Il film vede due registi ingaggiati da una rete televisiva tedesca per girare un documentario sulla povertà in America Latina, scimmiottando in maniera sarcastica l’abitudine del ricco (l’Occidente, qui rappresentato dalla rete tedesca) di porre il suo sguardo mercificatorio su ciò che non lo è. In questo mockumentario si vedono immagini ambigue dove i due registi vanno alla ricerca di vittime (prostitute, senzatetto, etc.) per costruire un set pornomiserabilista che possa permettere loro di trasformare la miseria in oggetto di sfruttamento capitalistico, in grado di generare capitale simbolico ed economico. Siamo qui davanti a un posizionamento critico che mostra la pornomiseria sfruttando lo stesso linguaggio.

Nel 1977 esce anche un pamphlet intitolato Cos’è la pornomiseria?: la pornomiseria è una deformazione di ciò che nasce indipendente e diventa istituzionale. La miseria trasformata in merce è valvola di sfogo in quel sistema che l’ha creata e che ha impedito lo sviluppo di pratiche in grado di indagare la povertà nella sua natura e nelle sue cause. La miseria diviene spettacolo, così che gli spettatori possano ripulirsi la loro coscienza sporca e possano calmarsi ed emozionarsi. «Lo spettacolo è il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine» scriveva il filosofo francese Guy Debord. Lo spettacolo è la miseria a un tal grado di accumulazione da divenire immagine, potremmo dire noi.

Ma perché si parla di pornografia? Lo spiega chiaramente il collettivo letterario Ippolita nel libro Tecnologie del dominio. La pornografia, per la sua stessa etimologia, “riguarda il godimento di qualcosa che è visibilmente esplicito, che si guarda o si legge” 1. È chiaro che nella situazione corrente si può parlare di “pornografia emotiva” invece che di quella sessuale: si presenta all’utente-spettatore un contenuto eccitante in grado di provocare in lui le risposte emotive più varie, dalla gioia, alla tristezza, alla paura. Proprio per questa sua peculiarità, è spesso insita nei meccanismi che muovono gli attuali media commerciali, agendo sull’emotività del singolo, ma producendo una risposta collettiva: “ci s’indigna, ci si arrabbia, ci si terrorizza, tutti insieme”.2
Tuttavia c’è chi resiste ad uno sguardo voyeuristico in favore di immagini che evocano senza mostrare, immagini che gettano luce, come quelle di ORBIT ÆTERNA (2013) dell’artista Teo Ormond-Skeaping; immagini al limite della visibilità in cui viene messa in opera una particolare sofferenza visiva per poter mostrare l’orrore delle immagini della morte (per esempio quelle dell’ISIS), senza fare pornografia.


Come si legge sul sito dell’artista, il film considera il significato culturale dell’iconografia contemporanea del terrorismo dall’11 settembre all’insurrezione dell’ISIS, con l’intenzione di rivelare il ruolo che le immagini e i media giocano nel perpetuare la costante e infima paura del terrorismo, di essere sempre sotto attacco, e quindi la paura del futuro. Il riferimento visivo del film alle immagini del drone infrarosso (UAV) e alle immagini d’archivio è inteso a rivelare quanto falsamente le immagini a colori accentuino la dissociazione dell’immaginario del conflitto dalla realtà, agendo come una forza de-umanizzante che rende i luoghi del conflitto e i corpi di coloro che vediamo uccisi come alieni. Attraverso la costruzione di un ambiguo protagonista situato in un paesaggio desertico, la costruzione di immagini intende evidenziare un aspetto ambiguo della modalità di rappresentazione documentaria e della fascinazione nei confronti delle immagini di traumi.
Dice bene la filmmaker vietnamita Trinh T. Minh-ha: “[…] il lavoro artistico critico non offre né soluzioni immediate né gratificazioni immediate. Non ha un’efficacia diretta, ma agisce nei tempi lunghi, inseguendo gli spettatori, cambiando la percezione che hanno della vita“.3
Che ruolo può – e deve – avere l’arte in questa complessa situazione? L’artista, quello che non si dice politicamente impegnato ma che situa la propria pratica nel reale, riesce a dare dignità e riconoscere all’altro la possibilità di agire e di esistere. Il filosofo Paul Preciado parla di “sapere situato” come di una sempiterna necessità di vedere con l’altro e mai al suo posto, mettendo in atto una coalizione tra i soggetti che oggi sono resi vittime, e coloro che sono ancora in una posizione libera.
Sempre Trinh Minh-ha ci parla della necessità di spostare il punto di vista per scongiurare il pericolo di “parlare a proposito di qualcosa”, che manterrebbe vive le opposizioni binarie soggetto/oggetto, io/esso, noi/loro. Nel suo saggio Documentary Is/Not a Name, l’artista chiarifica bene questo concetto quando spiega che la divisione tra soggetto e oggetto perpetua una visione dualistica dell’interno-contro-esterno, come se l’immagine documentaria cogliesse una porzione di realtà “là fuori” per noi “qui dentro”. Minh-ha, quindi, teorizza e mette in pratica un riposizionamento critico in grado di riavvicinare soggetto e oggetto, mettendo in crisi lo sguardo unidirezionale e favorendo un approccio di condivisione.
Luna Protasoni
1. Ippolita, Tecnologie del dominio, Milano, Meltemi, 2017
2. ibid.
3. Minh-ha T. T., Don’t stop in the dark, in Galasso E. e Scotini M. (a cura di) Politiche della memoria. Documentario e archivio, Roma, DeriveApprodi, 2014