Nel linguaggio formale della fotografia, nei suoi ingranaggi e nelle sue regole, nella tessitura della sua superficie, si gioca spesso la reale portata del suo messaggio. Lo scatto non è, come è facile comprendere, solo il suo contenuto, il suo soggetto: è anche il modo in cui è stato reso visibile dall’autore dell’immagine. Entro i margini dell’esposizione, ovvero nell’equilibrio che si stabilisce tra le ombre e le luci dell’immagine, è talvolta contenuto tutto ciò che l’autore ha da dire su ciò che ha avuto di fronte.
Ho in mente un’immagine precisa quando penso questo, ed è una delle fotografie scattate da Gabriele Basilico in occasione del suo primo viaggio a Beirut, nel 1991, durante cui realizzò il noto lavoro sull’architettura distrutta della capitale libanese dopo i feroci scontri della guerra civile.
Un paio di anni fa vidi dal vivo gli scatti di questo lavoro, e in particolare mi colpì l’immagine di cui parlo in questa sede. Guardando con calma la grande stampa, infatti, e soffermandomi sull’edificio sventrato in primo piano sulla destra, mi accorsi che nonostante gli spazi interni fossero inghiottiti dall’ombra, era comunque possibile riconoscere alcuni dettagli, e farsi un’idea precisa di cosa quelle stanze contenessero. A questo punto guardai il cielo, nella stampa, ovvero la zona più chiara: anche lì, nonostante il biancore, era possibile distinguere il contorno delle nuvole. In buona sostanza c’era tutto, tutto era stato salvato nell’esposizione della lastra.
Niente viene sacrificato da Basilico in questa veduta, riuscendo a comprimere in esposizioni perfette ogni dettaglio celato apparentemente dall’ombra più scura, e salvando al contempo i dettagli delle aree più bianche: in questo senso la tecnica diventa vero e proprio linguaggio, capace di trasmettere un messaggio e di condensare l’atteggiamento e la visione dell’autore nei confronti del soggetto. Così nei pozzi d’ombra dei vuoti delle porte e delle finestre troviamo gli immaginabili lasciti dentro le abitazioni abbandonate, lo strato sottopelle leso quanto la superficie. Salvare tutto ciò che è rimasto di un luogo che già è stato deturpato suggerisce una presa di coscienza completa di fronte al disastro, e carica le immagini del fotografo milanese di una precisa missione di recupero e salvaguardia. “Salvare”, d’altronde, è un termine che appartiene al gergo fotografico, quando appunto non si brucia niente nell’immagine esponendo correttamente le luci e le ombre. Nello scatto in questione questo termine assume un significato più ampio, e diventa il metodo con cui Basilico ha provato a non forzare ulteriormente la sintesi a cui il paesaggio già per altri fattori era stato ridotto, rendendogli anzi dignità di completezza nonostante gli evidenti buchi visivi al suo interno, al suo panorama mutilato.
Se, come avevamo accennato parlando del lavoro di Antonio Biasiucci, il nero pieno è l’assenza totale di materia, l’esperienza visiva più vicina al nulla che si possa fare attraverso la fotografia, Basilico ci porta a considerare il significato della sopravvivenza, in immagine, di tutto ciò che resta di un soggetto reale. Anche il semplice calcolo dell’esposizione può diventare allora riflesso del pensiero, del nostro modo di intendere cosa abbiamo di fronte, una scelta anche morale.
Carola Allemandi
La fotografia analizzata in questo articolo è tratta dalla pubblicazione “Ritorni a Beirut – Back to Beirut” a cura di Giovanna Calvenzi dell’editore Contrasto che si ringrazia per aver concesso l’autorizzazione a pubblicarla.
Foto copertina: 1991 © Archivio Gabriele Basilico, Milano