In una splendida giornata di primavera, con l’aria salmastra che accarezzava le coste di Alameda e la luce dell’oceano che illuminava le installazioni fotografiche a cielo aperto, ha preso forma qualcosa di più di un evento. Un’esperienza condivisa, un’energia collettiva, un invito a guardare oltre l’oggi. In questa piccola isola della Bay Area, arte, scienza e comunità si sono intrecciate per dare forma a una risposta culturale alla crisi climatica: una risposta creativa, concreta, partecipata.





Promossa da West End Arts District, Radium Presents e Rhythmix Cultural Works con il sostegno della Città di Alameda, Rising Tides è un ciclo di eventi gratuiti che unisce arte visiva, performance e incontri pubblici e sabato 10 maggio, con il debutto del Focus Fest, questa iniziativa ha trovato la sua prima, vivida espressione in una giornata che ha saputo unire bellezza, consapevolezza e azione.
Il festival fotografico diffuso ha rappresentato il cuore pulsante dell’anteprima pubblica di In Plain Site, il festival fotografico in corso fino al 1° giugno eha trasformato l’Alameda Point in una galleria a cielo aperto. Le immagini di sette fotografi internazionali — tra cui Mandy Barker, Simone Tramonte, Kiliii Yüyan e Cristina Mittermeier — si sono alternate a quelle di talenti locali, componendo un racconto visivo potente e diretto sui temi più urgenti del nostro tempo: l’inquinamento plastico, la transizione energetica, la migrazione climatica, la biodiversità.





Le fotografie non si limitavano a denunciare, ma aprivano spazi di riflessione e immaginazione, suggerendo possibilità, soluzioni, futuri alternativi. Intorno a questo percorso si è sviluppata una vera e propria esperienza partecipativa.
Il pubblico ha potuto prendere parte a laboratori artistici aperti a tutte le età, tra stampa a rilievo e collage, dando forma concreta a pensieri e visioni legate alla sostenibilità. Famiglie, bambini, studenti, curiosi: tutti coinvolti, tutti protagonisti.





A dare ancora più senso e profondità all’iniziativa è stata la nostra chiacchierata con Tara Pilbrow, coreografa, artista e direttrice del West End Arts District, figura chiave nella nascita e nello sviluppo del progetto. Con entusiasmo e chiarezza, Tara ci ha raccontato la visione che ha guidato ogni passo: creare spazi pubblici dove l’arte non si limita a essere osservata, ma coinvolge, educa, trasforma. Una visione che riconosce nel corpo, nel gesto e nel movimento strumenti fondamentali per costruire una comunità viva e consapevole.
Ecco cosa ci ha detto.
Tara, ci racconti brevemente chi sei e di cosa ti occupi?
Mi chiamo Tara Pilbrow e sono l’Executive Director di una piccola organizzazione artistica non-profit ad Alameda, in California. Ho trascorso gran parte della mia vita lavorando come danzatrice e coreografa — e ogni tanto continuo ancora oggi a lavorare come artista della danza — ma la missione dell’associazione si concentra nel portare ogni forma d’arte all’interno del nostro quartiere. Così mi ritrovo a produrre eventi musicali, murales, spettacoli teatrali e, per la prima volta, anche un festival fotografico.
Hai vissuto e lavorato in città come Parigi, Londra e Buenos Aires. Cosa ti ha spinta a scegliere Alameda, e in che modo questa città ha influenzato la tua visione artistica?
Mi sono trasferita nella Bay Area di San Francisco per il lavoro di mio marito, quindi non è stata una scelta legata alla carriera! Abbiamo scelto di vivere ad Alameda un po’ d’impulso, dovendo decidere rapidamente dove sistemarci nella zona. E direi che abbiamo avuto una gran fortuna: Alameda non è solo un posto meraviglioso dove vivere, ma qui sono riuscita davvero a trovare la mia dimensione all’interno della comunità artistica. C’è un enorme potenziale di crescita per il sistema culturale locale, e il nostro lavoro ha un impatto tangibile. È la prima volta che metto radici in una piccola comunità (come dicevi tu, ho vissuto sempre in grandi metropoli), ed è una comunità accogliente, attenta e solidale.
Come artista e ora anche direttrice, come riesci a coniugare visione creativa e gestione organizzativa? Ci sono stati momenti in cui le due dimensioni sono andate in conflitto?
Domanda difficile… La mia passione è l’arte, faccio quello che faccio perché amo profondamente il processo creativo. Il conflitto nasce quando devo costringermi a restare concentrata anche sugli aspetti gestionali, oltre che su quelli artistici. Tenere in piedi un’organizzazione piccola come la nostra è una sfida sempre più complessa, soprattutto nel contesto politico attuale. Come molti altri artisti, devo impormi di dedicarmi anche alla produzione, alla raccolta fondi, al marketing… tutte attività essenziali, ma che possono distogliere energie dal lato creativo.
Con Rising Tides, arte e attivismo ambientale si incontrano. Come è nata l’idea di usare la fotografia e la performance per parlare di cambiamento climatico?
L’iniziativa Rising Tides è nata in risposta a un’opportunità di finanziamento proposta dal team per lo sviluppo economico della Città di Alameda. Bloomberg Philanthropies aveva lanciato una delle sue “Public Art Challenges”, invitando le città di tutti gli Stati Uniti a presentare progetti per opere d’arte pubblica temporanee da realizzare in due anni, con un finanziamento di un milione di dollari. Il tema doveva riguardare una questione sociale urgente per la comunità. Alameda, che è l’isola più densamente popolata della California, conosce bene i rischi legati ai cambiamenti climatici, soprattutto per quanto riguarda l’innalzamento del livello del mare. La città è da anni un punto di riferimento nella regione per le politiche di adattamento e mitigazione climatica, e abbiamo deciso che volevamo creare un progetto artistico che potesse coinvolgere la cittadinanza e rafforzare l’impegno verso queste tematiche.
Anche se non siamo arrivati tra i finalisti per il finanziamento completo, Bloomberg ha apprezzato molto la nostra proposta e ci ha assegnato un contributo di 100.000 dollari per una versione ridotta del progetto. Con il sostegno aggiuntivo della Città di Alameda, l’iniziativa è partita ufficialmente nell’agosto 2024. Al momento della pianificazione degli eventi principali, avevamo già instaurato un rapporto con Photoville, un’importante organizzazione fotografica con sede a New York. Uno dei suoi fondatori si era trasferito a Oakland ed era entusiasta di portare un po’ della “magia Photoville” anche sulla costa occidentale. L’idea di integrare un festival fotografico all’interno del nostro progetto sul clima ci è sembrata subito perfetta.
Il Focus Fest ha trasformato un’intera giornata in un’esperienza partecipativa tra arte, cibo sostenibile e scienza. Qual è stato, secondo te, il momento più significativo dell’evento?
Il momento più importante, per me, è stato l’intervento del climatologo Rob Jackson, Guggenheim Fellow e presidente del Global Carbon Project. Il Focus Fest è stato il primo tentativo di unire attività artistiche a una serie di interventi dal vivo con relatori di rilievo, e ho trovato estremamente stimolante curare quello che abbiamo chiamato il nostro ‘angolo oratori’ e avere la possibilità di ascoltare interventi di grande spessore e visione.
Uno degli aspetti più potenti di In Plain Site è la varietà di sguardi coinvolti — artisti internazionali e locali, linguaggi differenti. Come avete selezionato i fotografi e cosa vi ha guidati nella curatela?
Abbiamo cercato innanzitutto di includere una gamma il più possibile ampia, non solo a livello di stili artistici, ma anche nei modi di affrontare il tema del cambiamento climatico. Ogni artista ha lavorato su questo argomento da un’angolazione diversa. Era importante per noi che la mostra non fosse solo un messaggio cupo e allarmante. Volevamo che il pubblico uscisse sentendosi ispirato, motivato, con il desiderio di agire. Nell’ultima parte dell’esposizione abbiamo incluso fotografie provenienti da sei aziende green e blue tech con sede ad Alameda. Mostrare il loro lavoro è stato un modo per far capire che qui, proprio nella nostra isola, ci sono già persone che ogni giorno costruiscono un futuro più sostenibile.
Hai fondato il progetto Animate Alameda per portare la danza negli spazi pubblici. Cosa succede, secondo te, quando si porta l’arte fuori dai luoghi “istituzionali”? Che ruolo ha oggi il corpo, e il movimento, nella tua visione di una comunità attiva e resiliente?
Da un punto di vista personale, amo lavorare con la danza site-specific proprio perché mi affascina il processo creativo che nasce dal dialogo con un luogo. Le caratteristiche fisiche di un ambiente, ma anche la sua storia e il contesto culturale e sociale, stimolano la mia creatività in un modo completamente diverso rispetto al teatro tradizionale.
Al di là della gioia personale di creare in spazi non convenzionali, sono molto legata all’idea di portare l’arte in luoghi pubblici, di condividerla con un pubblico più ampio di quello che frequenterebbe una sala teatrale, e di abitare lo spazio urbano con esperienze artistiche collettive.
La danza, in particolare, invita sia chi la pratica sia chi la osserva a essere totalmente presenti nel momento. Questa consapevolezza del corpo, dello spazio e della relazione con ciò che ci circonda può essere allo stesso tempo un ancoraggio e una liberazione nella frenesia della vita quotidiana.
Guardando al futuro: come immagini l’evoluzione del West End Arts District nei prossimi anni, soprattutto in relazione alla crisi climatica e al coinvolgimento della comunità?
Il progetto Rising Tides era nato come iniziativa della durata di un anno, ma ci siamo presto resi conto di voler continuare a lavorare proprio sull’intersezione tra arte e clima anche in futuro.
La verità è che, come molte piccole organizzazioni artistiche, stiamo attraversando un periodo difficile sul piano economico. I finanziamenti per l’arte sono sempre più scarsi, e il futuro è incerto. Ma finché riusciremo ad andare avanti, il nostro obiettivo resta quello di creare progetti originali che coinvolgano attivamente le persone nella costruzione di un futuro sostenibile.
Che consiglio darebbe a un giovane artista che vuole impegnarsi sul tema del clima ma non sa da dove cominciare?
All’inizio di quest’anno, la consulente artistica Marcelle Hinand mi ha fatto un regalo: una copia del suo libro preferito del momento, What If We Get It Right di Ayana Johnson. È sicuramente un’ottima lettura per chi vuole iniziare a orientarsi.
Inoltre, direi che vale sempre la pena cercare connessioni con le persone della propria comunità che stanno già lavorando sul campo: scienziati, agricoltori urbani, attivisti, amministratori.
Cercare di creare un’opera che “influenzi la crisi climatica” può sembrare un obiettivo enorme, e per me è più naturale provare a realizzare qualcosa che metta in luce il lavoro straordinario delle persone che ho intorno. È un punto di partenza meno schiacciante, ma non meno significativo.
E più in generale: qual è la cosa più importante che hai imparato in questi anni e che avresti voluto sapere all’inizio del tuo percorso?
Direi alla me stessa più giovane di non preoccuparsi troppo di inseguire la perfezione. Si impara facendo, anche sbagliando. Il processo, spesso, è importante quanto il risultato finale.
Questo primo appuntamento ha dimostrato quanto l’arte possa essere molto più di una forma di espressione: può diventare messaggio, memoria e motore di trasformazione. E questa è solo l’inizio. Il prossimo capitolo sarà Rising Seas, una trilogia di performance ispirate alle culture insulari che portano in scena musica, danza e storie da Puerto Rico, Bali e Hawaii— territori che, come Alameda, si confrontano ogni giorno con le sfide di un pianeta in mutamento.






Gratuiti e aperti a tutti, questi appuntamenti mostrano che quando l’arte è radicata nel territorio e connessa alla realtà, può generare un impatto autentico. Non si tratta solo di ammirare fotografie o lasciarsi trasportare dalla musica, ma di uscire da questi momenti con domande nuove, una consapevolezza più profonda e, forse, la volontà di mettersi in gioco.
Perché in un’epoca in cui il cambiamento climatico appare spesso distante o inevitabile, Alameda dimostra che un’altra risposta è possibile: collettiva, creativa e concreta. Anche su un’isola, si può cambiare la marea.
Alameda, ancora una volta, dimostra che l’arte può essere molto più di bellezza: può diventare messaggio, memoria e motore di trasformazione.
Mariantonia Cambareri
Per maggiori dettagli e aggiornamenti:
risingtidesalameda.org
westendartsdistrict.org