“Lo spazio costruito è il tema centrale del suo lavoro. Fotografa la città, i viadotti e le arterie viarie delle periferie, le cascine suburbane, i rifugi montani, le industrie, le opere dei grandi architetti e i fabbricati anonimi che caratterizzano lo spazio antropico” (M. Fratelli).
“Ritengo che, riflettendo sulle vicende dell’urbanistica contemporanea, che si specchia in un territorio altamente elaborato e complesso se non anche devastato, la visione fotografica del mondo, quasi distaccata nella delicata immobilità delle forme ma anche così affascinante, possa costituire un momento fondante per l’appropriazione di quei luoghi apparentemente vuoti di significati, per rivelare un legame profondo anche fisicamente avvertibile fra l’uomo osservatore e il suo territorio” (A. Lagomaggiore, 1995).
Fino a domenica 8 giugno è possibile visitare, presso Villa Ghirlanda Silva a Cinisello Balsamo (MI), la retrospettiva del fotografo Alberto Lagomaggiore “Fotografie di architettura 1994-2024”, a cura di Maria Fratelli e Giorgio Olivero, che ripercorre la carriera fotografica dell’autore, allievo di Gabriele Basilico e “alfiere di uno sguardo approfondito sull’evoluzione nel tempo dell’architettura”.
Classe 1964, di formazione architetto, genovese di nascita e milanese d’adozione, Alberto Lagomaggiore è un fotografo specializzato in fotografia di architettura, archeologia industriale, paesaggio urbano e still-life, oltre che docente di Linguaggio fotografico e Tecniche e tecnologie delle comunicazioni multimediali. In oltre trent’anni di professione ha spaziato da indagini personali – attraverso campagne fotografiche sul territorio – a incarichi di enti pubblici e privati per illustrare pubblicazioni di architettura e beni culturali, fino a reportages per riviste specializzate di settore, accompagnati da una costante attività espositiva e di ricerca fotografica.
Con uno sguardo privo di retorica e un linguaggio preciso e analitico, capace di affiancare il rigore documentario alla visione autoriale, dal 1990 a oggi il fotografo ha affrontato numerosi temi, con una preferenza per l’analisi territoriale, utilizzando la fotografia quale strumento critico e di indagine, per costruire – “con la lentezza del banco ottico” e con l’uso di fotocamere con negativi di grande formato – un racconto visivo del tessuto urbano, delle sue architetture e di come esse mutano nel tempo, “non attraverso l’enfasi della monumentalità, ma nei dettagli trascurati, nei vuoti, nelle soglie, nei margini”.

Alla ricerca costante di un equilibrio visivo, ogni suo scatto “trasporta lo spazio tridimensionale dell’immagine, verificando che la composizione di linee e piani, di luci e ombre abbia una sua stringente compiutezza formale. La sua attenta comprensione dell’oggetto architettonico entra così in relazione dialettica con il formalismo dello scatto fotografico […], che seleziona dall’ambiente un frammento di paesaggio sottratto anche al cambiamento inarrestabile dello scorrere del tempo” (M. Fratelli), quasi a voler trattenere, con le immagini, ciò che è destinato a scomparire.
In questo senso la mostra di Cinisello Balsamo, pur riassumendo l’evoluzione nel tempo del lavoro del fotografo, non si propone come semplice retrospettiva, ma come “esercizio di responsabilità visiva: un modo di osservare che analizza, archivia e interroga la materia del reale senza arrestarsi alla sua superficie”.
Essa è ospitata all’interno della prestigiosa sede di Villa Ghirlanda Silva, che, insieme al suo parco – prima dell’avvio del cantiere di restauro per il MuFoCo (Museo di Fotografia Contemporanea) – fu anch’essa oggetto di una campagna fotografica di Lagomaggiore (una cui selezione è custodita in apposito fondo all’interno del museo) caratterizzata da “uno sguardo interpretativo legato alla storia del manufatto e alle rappresentazioni iconografiche con le quali la villa è stata illustrata”.


All’interno delle sale seicentesche del primo piano, attraverso un allestimento semplice ed essenziale, è esposta una selezione di 100 fotografie – per lo più in bianco e nero, realizzate con fotocamera analogica e negativi di grande formato 10×12 – relative ai principali incarichi professionali di Lagomaggiore, con un percorso cronologico che, partendo dalle prime campagne degli anni Novanta, arriva fino ai reportage più recenti, consentendo di cogliere l’evoluzione del linguaggio del fotografo, “dalla nitidezza del bianco e nero fino a forme più rarefatte e sperimentali, senza mai smarrire l’aderenza alla complessità del reale”.
Il racconto visivo si apre con le prime immagini per i volumi dedicati alla Toscana e alla Valpolcevera: un’approfondita indagine fotografica – facente parte della sua tesi di laurea – dedicata alla valle post-industriale del fiume Polcevera a Genova, dove emerge fin da subito il suo interesse per i paesaggi marginali e per l’architettura produttiva.

Seguono gli scatti per il censimento di architettura industriale – commissionato dalla Camera di Commercio di Milano – dedicato all’analisi critica e alla schedatura sistematica dell’edilizia industriale milanese, convogliati nei volumi a cura di Antonello Negri “Il sogno del moderno. Architettura e produzione a Milano tra le due guerre” (1994) e “La fortuna del moderno. Architettura della produzione e dei servizi in area milanese negli anni Venti e Trenta” (1997): qui l’autore, per la prima volta, raffigura singoli edifici avulsi dal contesto urbano, riproponendo un linguaggio simile alle fotografie d’epoca.

Rientrano nello stesso filone di indagine le fotografie dedicate alla documentazione dell’area marittima di Genova – su incarico dell’Autorità Portuale – con cui egli descrive il paesaggio cittadino fronte mare nelle sue svariate declinazioni, partendo dal Porto Antico – appena riqualificato da Renzo Piano – fino al VTE di Genova Voltri, consegnandoci un’importante testimonianza di un’area della città ancora oggi inaccessibile, in parte confluita nel volume “Il porto visto dai fotografi 1969-1995”.

Lo stesso valore documentario caratterizza le immagini dei Sanatori di Sondalo (2018), esposte nella mostra “La camera magica” per il Museo dei Sanatori, che raffigurano una monumentale opera edilizia degli anni Trenta in Valtellina destinata alla cura della tubercolosi, potente esempio di architettura funzionale, così come quelle delle campagne fotografiche sui Cementifici in Italia e sulle Architetture della Funzione (2018) legate alla produzione del cemento, del calcestruzzo e alla lavorazione e movimentazione degli inerti, che testimoniano l’evoluzione e la progressiva industrializzazione di un settore strategico dell’economia nazionale, “ingrediente fondamentale della rivoluzione edilizia italiana a partire dalla metà dell’Ottocento”.


Di tutt’altro genere sono invece le suggestive fotografie – inedite – del cantiere di restauro della neoclassica Villa Belgiojoso Bonaparte (Villa Reale) di Milano (2004), oggi sede della Galleria d’Arte Moderna (GAM), che, attraverso uno sguardo intimo in “luoghi così ricchi di storia e bellezza, nella costante ricerca di far aderire i […] sentimenti alle inquadrature di spazi, arredi, statue e dipinti” (A. Lagomaggiore), testimoniano la trasformazione dell’allestimento museale attraverso un progetto innovativo che ha permesso la coabitazione delle opere con i lavori edilizi.

Non si possono poi dimenticare i lavori del fotografo realizzati per riviste e cataloghi di aziende di design come Cappellini, Driade e Castaldi Lighting, caratterizzati da un linguaggio sperimentale che va “oltre i limiti della rappresentazione funzionale” dell’oggetto, smaterializzandolo e trasfigurandolo in immagini quasi astratte, o i reportages – commissionati dal CSVA (Centro Alti Studi sulle Arti Visive) nel 2016 – sugli spazi di lavoro e studi di noti architetti milanesi del Novecento, volti a documentare i luoghi dove sono stati progettati edifici e oggetti iconici, tra cui quello sullo Studio De Pas Urbino e Lomazzi, esposto all’Urban Center di Milano nel 2018 nella mostra “Fotografare gli archivi”.

Dagli scatti dedicati a Parigi (2012), invece, parte un percorso fotografico sulle città in cui “l’architettura e lo spazio urbano vengono contestualizzati nella vita della metropoli”: tra questi i progetti dedicati al capoluogo lombardo come Milano “immaginata” (2015) – su incarico del CSVA – ove la fotografia interpreta alcune aree di Milano in cui noti architetti avevano immaginato innovativi progetti mai realizzati, o Cantieri di Milano (2012), frutto di un’indagine personale che documenta con acuta sensibilità il cambiamento urbano in un momento in cui nuove costruzioni, soprattutto nella cintura periferica, “compongono un potente mutamento dell’urbanistica e vengono ritratte, ancora incompiute, come crisalidi da cui sorgerà una città nuova”.


Dedicato a Milano è anche il censimento Cascine di Milano (2013), nel quale il fotografo indaga in maniera più riflessiva questi edifici minori – simbolo del legame tra tessuto urbano e campagna circostante – con “l’intento di raccogliere un insieme di riferimenti visivi di strutture architettoniche per lo più sconosciute sparse nel territorio, cerniere tra il mondo della città e quello della campagna” (A. Lagomaggiore), frutto di quello stesso interesse verso quei “frammenti urbani che sfuggono alle narrazioni ufficiali ma che costituiscono la vera ossatura delle trasformazioni contemporanee” e che, insieme alla costante riflessione sullo spazio urbano e le sue modifiche nel tempo, compongono i lavori più recenti MILANO OVER e Cuneo Zone di Confine (2020).
Nel primo caso viene rappresentata una Milano svuotata e deserta durante il lockdown dovuto al Covid 19, attraverso un reportage di 32 immagini in bianco e nero volto a documentare luoghi iconici della città – dalle periferie al centro – “trasformati in quinte sceniche metafisiche”, attraverso un’accurata progettazione topografica riportata nell’omonimo volume e nella mostra Milano Tempo Sospeso alla Casa della Memoria.

Il secondo progetto, anch’esso caratterizzato da un rigoroso bianco e nero, è invece frutto di un lungo lavoro di studio ed esplorazione della città di Cuneo, soprattutto di quelle aree di connessione e di confine che ne rappresentano i margini reali o percepiti. Esso si concentra su un territorio di frontiera sospeso tra natura e costruito, caratterizzato da elementi edilizi diversi per epoca e tipologia, promiscuità funzionale e caos, documentando quei luoghi di transito e di raccordo che, pur se “sconfitti e vilipesi, costituiscono la radice stessa della città e che sono ancora oggi ben percepibili e rilevabili dall’immaginario collettivo” (G. Olivero), ai quali “lo scatto del fotografo restituisce una precisa identità, da leggere come spazio connettivo e in potenziale divenire a servizio e in contrasto con la città storica pianificate e ormai consolidata” (L. Mosconi).

Ma da cosa deriva questo interesse per la fotografia d’architettura e per le trasformazioni urbane?
(Approfittiamo della presenza del fotografo alla mostra per chiederglielo direttamente).
Io mi sono laureato in architettura a Genova proprio con una tesi su Urbanistica e Fotografia, dopo aver frequentato 5 anni di ingegneria per accontentare mio padre (noto strutturista genovese), ma, venendo dal liceo classico, non amavo la matematica, per cui scappavo dalle lezioni per ascoltare quelle di filosofia, finché sono approdato ad architettura. Mentre frequentavo – negli anni ’90 – avevo però già iniziato a fotografare interessandomi al tema urbano e conoscendo Gabriele Basilico, che ne è stato il maestro; ho anche fondato presso la Biblioteca della Facoltà il “Gruppo 4×5”, organizzando seminari e mostre fotografiche per indagare i rapporti tra immaginario, realtà e rappresentazione dello spazio. Più tardi sono venuto in contatto con la Pacini Editore, nota casa editrice toscana, con cui ho iniziato a collaborare per illustrare con le mie immagini alcuni volumi di architettura. Trasferitomi a Milano sono stato poi chiamato per progetti di censimento fotografico come “Il sogno del moderno”, una schedatura di beni culturali della provincia di Milano condotta dall’Università Statale, che mi ha permesso di conoscere importanti nomi nel mondo della cultura e dell’editoria milanese con cui ho poi lavorato negli anni successivi, anche in maniera continuativa come con Silvana Editoriale. Da qui è partita una carriera su molti fronti. Quella schedatura, in realtà, fu svolta da giovani studiosi che poi – in molti casi – hanno proseguito la loro carriera professionale di storici dell’arte, tra cui Maria Fratelli, oggi direttrice della Fabbrica del Vapore, che ha curato questa mostra.
Prima hai citato Gabriele Basilico: hai mai collaborato con lui?
In realtà non ho mai lavorato con Basilico ma gli ho fatto da assistente quando teneva corsi e workshop con gli studenti. Era una persona affabile e meravigliosa: era molto bello stare con lui.
Come nascono i tuoi progetti fotografici?
A parte quelli su commissione, negli altri casi ho sempre accuratamente preparato un progetto di analisi urbana tramite la fotografia, a partire dal primo lavoro per la mia tesi sull’evoluzione urbanistica-sociale della Val Polcevera. La fotografia come strumento di analisi e indagine dell’impianto urbano e della sua trasformazione nel tempo nasce innanzi tutto da una serie di precise ricognizioni nello spazio urbanizzato tramite anche uno studio dei riferimenti topografici attuali e storici, come è avvenuto per il lavoro “Cuneo zone di confine”.
Come è nata invece la collaborazione con il mondo del design?
Nel 2002, tramite un amico architetto, sono stato presentato al dirigente del reparto progettazione della “Castaldi Illuminazione” di Milano, che, non avendo mai pensato ad una fotografia interpretativa, si è innamorato delle mie immagini: mi ha chiesto di rappresentare una lampada da terra da esterni (ZAC), ancora prototipo, che io ho ripreso in maniera trasversale con il tavolo da still life sullo sfondo, fornendo all’azienda un inedito punto di vista del prodotto. Da allora ho curato le immagini per i cataloghi, il sito e la pubblicità aziendale, nelle quali ho ripensato le lampade di design – in un immaginario condiviso con l’azienda – trasformandole in altro (un’ala, un riccio di mare ecc.).

Nel frattempo anche le riviste AREA e D’Architettura, con cui avevo iniziato a collaborare dal 1995 per illustrare alcuni edifici, mi hanno commissionato una serie di fotografie di oggetti di design nelle sedi di famose aziende italiane, con cui ho realizzato alcuni reportages volti a raccontare visivamente il prodotto nel luogo di produzione, attraverso un linguaggio visivo interpretativo delle specificità progettuali concepite dal designer.
Come mai nella stampa delle tue fotografie in alcuni casi è lasciato a vista il bordo del negativo?
E’ una mia fissazione, perché voglio far capire che l’inquadratura originale – con negativo 10×12 – non è stata toccata ed è stata impressa così nella carta, con pochissimi ritocchi dal punto di vista della post produzione.
Tra i tuoi progetti fotografici ce n’è qualcuno che preferisci rispetto ad altri?
In realtà mi piacciono tutti allo stesso modo – mi riconosco in ciascuno in momenti diversi della mia vita – anche perché dietro ogni fotografia c’è il rapporto con una persona, un curatore o un architetto. Sono però particolarmente affezionato al lavoro su Cuneo, che forse è stato un po’ sottovalutato: è un luogo che studio dal 1997 ed è stata la mia prima vera e propria analisi urbanistica su una città attraverso la fotografia. Ci sono affezionato anche perché rappresenta l’evoluzione del mio linguaggio fotografico, che mi ha permesso di fare uno step in più rispetto a quanto prodotto in precedenza. Devo anche dire che, dopo aver terminato di allestire la mostra – per la quale c’è voluto più di anno di preparazione -, mi è venuta un po’ di malinconia per i molti lavori fatti in trent’anni di vita professionale.
Quali sono i tuoi prossimi progetti?
Vorrei iniziare un lavoro sui parchi e giardini delle ville nobiliari italiane, anche per spostare l’attenzione dall’architettura alla natura, sempre però affrontandola dal punto di vista dell’organizzazione architettonica dello spazio attraverso la mano dell’uomo. Ho poi in progetto un’altra pubblicazione, prevista per il 2028, che andrà a completare le altre mie tre (da me interamente progettate e finanziate) – Cuneo Zone di confine, Milano Over covid 19 e Il profilo dello spazio Genova 1994-2023. Nelle mie intenzioni si tratterà di un volume e di una mostra sulle architetture minori, spesso spontanee, strettamente legate alla propria funzione abitativa, agropastorale e industriale: dalle cascine abbandonate alle case cantoniere, dai cementifici di archeologia industriale alle strutture delle teleferiche di trasporto materiali, fino alle dighe e a tutto quanto è stato edificato con una funzione ma non riconosciuto degno di essere annoverato tra le architetture, perché privo di richiami aulici.
Ringraziandoti del tempo a me dedicato, ti rinnovo i complimenti per il lavoro di una vita e ti auguro il meglio per i tuoi progetti futuri!
Patrizia Dellavedova
Foto di copertina: Cristalleria Fratelli Livellara, Milano, Il Sogno del Moderno © Alberto Lagomaggiore, 1994. Ove non diversamente specificato le foto sono dell’autore.