“A Kind of Language”: gli storyboard come opere d’arte

L’Osservatorio della Fondazione Prada a Milano, fino 8 settembre 2025, ospita A Kind of Language: Storyboards and Other Renderings for Cinema. Curata da Melissa Harris, la mostra esplora il dietro le quinte della creazione cinematografica attraverso oltre 800 materiali visivi, dagli anni Venti al 2024. L’esposizione, allestita dallo studio berlinese Sub, trasforma storyboard, schizzi, moodboard e sceneggiature annotate in protagonisti assoluti, rivelando come questi strumenti, spesso considerati meri ausili tecnici, possano essere opere d’arte autonome.

Lo storyboard è una sequenza di disegni che visualizza le inquadrature di un film prima delle riprese. Nato negli anni Trenta con l’animazione (Disney, Fleischer Studios), è diventato un linguaggio universale per registi, animatori e direttori della fotografia. Serve a pianificare angolazioni, movimenti di macchina e interazioni tra personaggi, ma anche a comunicare l’essenza emotiva di una scena. Come spiega Harris, è un “ponte” tra idea e realizzazione, tra regista e crew. Eppure, molti di questi schizzi racchiudono una bellezza intrinseca, come dimostrano i delicati acquerelli di Satyajit Ray per Pather Panchali (1955) o i dinamici storyboard animati di Wes Anderson per The Grand Budapest Hotel (2014).

La forza della mostra sta nel trattare questi materiali come capolavori. I disegni di Hayao Miyazaki per Il ragazzo e l’airone (2023) sono miniature di mondi onirici, mentre gli schizzi di Federico Fellini per Amarcord (1973) catturano l’essenza grottesca dei suoi personaggi con tratti febbrili. Non tutti, però, sono ugualmente raffinati. Gli storyboard di Terry Gilliam per Paura e delirio a Las Vegas (1998) sono caotici, quasi infantili, eppure trasmettono l’energia anarchica del film. Qui emerge un paradosso: la bravura nel disegnare non garantisce un buon film, così come un film eccezionale può nascere da schizzi approssimativi.

Esemplare è il confronto tra i precisionisti bozzetti di Saul Bass per Psycho (1960) – dove ogni linea definisce il terrore – e gli appunti scarabocchiati di Pier Paolo Pasolini per Mamma Roma (1962), che pure hanno generato una delle opere più intense del Neorealismo. La mostra celebra questa dualità, ma non la approfondisce: mancano esempi di film falliti nonostante storyboard magnifici, un’occasione persa per riflettere sul rapporto tra preparazione e risultato.

Questa tensione tra funzione e arte si dispiega attraverso la vasta selezione di materiali esposti, che coprono quasi un secolo di storia del cinema e rivelano approcci creativi incredibilmente diversi. Ecco uno sguardo ad alcuni storyboard:

  • Piccolo Buddha (1993, Bernardo Bertolucci): Racconta l’identificazione di un ragazzo americano come reincarnazione di un lama buddista. Storyboardista: Non specificato.
  • Grand Budapest Hotel (2014, Wes Anderson): Avventure di un concierge e del suo amico. Storyboardista: Jay Clarke, Edward Bursch. Scene: Uccisione di Kovacs, Fuga dalla prigione, Hotel show-down.
  • Toro scatenato (1980, Martin Scorsese): Vita e carriera del pugile Jake LaMotta. Storyboardista: Martin Scorsese. Scene: Main Title, rissa combattimento Sugar Ray n.1, combattimento Dauthille.
  • Braccio di ferro (c. 1940, Fleischer Studios): Avventure del marinaio mangia-spinaci. Storyboardista: Team Fleischer Studios. Scene varie (lazo, barile, spinaci, ecc.).
  • Il cielo sopra Berlino (1987, Wim Wenders): Angeli osservano Berlino, uno sceglie l’umanità. Storyboardista: Wim Wenders. Scene: Impostazione scena Nick Cave; Disegno poster Alekan; Ricerca titolo/location.
  • Il grande dittatore (1940, Charlie Chaplin): Satira politica sul nazismo. Storyboardista: J. Russell Spencer.

Questa vasta collezione, di cui vi mostriamo solo pochi storyboard per non rovinarvi questa bellissima esperienza, dimostra la straordinaria varietà del materiale raccolto da Melissa Harris, spaziando dai classici Disney (BiancaneveFantasia) ai progetti incompiuti (Dune di Jodorowsky) e includendo non solo storyboard ma anche sceneggiature annotate (Sofia Coppola per Le vergini suicide) e videoinstallazioni (Jia Zhang-Ke, Caught by the Tides, 2024), ampliando la prospettiva sul processo creativo.

Tuttavia, nonostante la ricchezza dei materiali, il percorso espositivo risulta a tratti confuso. Gli storyboard sono disposti principalmente in ordine cronologico e per film, ma senza una logica narrativa o tematica immediatamente percepibile. Perché Rebecca di Hitchcock (1940) è accanto a Train to Busan (2016)? Manca un filo conduttore chiaro che guidi il visitatore attraverso le diverse epoche, stili e tecniche. Inoltre, la quasi totale assenza di confronti diretti tra storyboard, sceneggiature e fotogrammi finali dei film ne riduce l’impatto didattico ma anche artistico. Sarebbe stato illuminante poter vedere, magari tramite tablet o QR code, come quel disegno si è tradotto sullo schermo, e soprattutto leggere accanto l’estratto di sceneggiatura corrispondente.

Lo studio Sub ha ideato un allestimento audace, ispirato agli atelier degli artisti. I tavoli espositivi, simili a scrivanie da disegno inclinate, invitano a un’osservazione ravvicinata, mentre elementi sospesi creano un effetto “a imbuto” che dialoga con la cupola della Galleria. L’intenzione di evocare una pellicola cinematografica o il ritmo del montaggio è suggestiva, ma la metafora spaziale non è sempre chiara e molti visitatori appaiono disorientati sulla direzione da seguire.

La scelta di separare fisicamente storyboard e testi (sceneggiature, appunti) richiede uno sforzo mnemonico notevole. Integrare i materiali in modo più organico, magari con pannelli interattivi o display affiancati, avrebbe giovato. Sorprende anche la scarsa presenza della tecnologia: un’app con audio-guide contestuali o elementi di realtà aumentata avrebbe potuto trasformare l’esperienza, rendendola davvero immersiva. Questa mancanza di cura per l’interattività o la semplice funzionalità si manifesta anche in dettagli specifici: ad esempio, in corrispondenza dei materiali per Incontri ravvicinati del terzo tipo di Spielberg, è presente un piccolo giocattolo che avrebbe dovuto riprodurre la celebre sequenza sonora usata per comunicare con gli alieni, ma che durante la visita risultava non funzionante, a quanto pare per banali batterie esaurite. Un piccolo inciampo che però simboleggia una certa distanza tra l’idea e la sua perfetta realizzazione pratica.

Il limite più evidente della mostra è la debole interazione tra parola e immagine. Gli storyboard de Il cielo sopra Berlino(1987) di Wim Wenders, ad esempio, sono esposti senza i dialoghi o le note del regista che ne rivelerebbero il contesto emotivo. Anche quando la sceneggiatura è presente, come il quaderno di Tan Chui Mui per Barbarian Invasion (2021), è spesso relegata in posizioni secondarie.

Una soluzione? Creare “doppie pagine” espositive: a sinistra lo storyboard, a destra la corrispondente pagina di sceneggiatura con le annotazioni. Immaginare gli schizzi di Chaplin per Il grande dittatore (1940) accanto alle sue battute satiriche renderebbe l’impatto potentissimo.

Conclusioni

A Kind of Language è una mostra affascinante, che restituisce dignità artistica a materiali spesso relegati all’ambito tecnico e dimenticati. Fondazione Prada conferma la sua vocazione alla sperimentazione, sfidando con coraggio i confini tra arte visiva e cinema. Va riconosciuto che per la curatrice Melissa Harris non dev’essere stato semplice reperire tanti storyboard: un tempo, terminato il set, venivano considerati strumenti usa‑e‑getta, privi di valore conservativo. Eppure, nonostante questa sfida, il livello dei pezzi in mostra è davvero notevole.

Se proprio volessimo sognare un passo in più, ci piacerebbe vedere un più stretto dialogo tra il “prima” e il “dopo” nel processo creativo: immaginare, ad esempio, affiancati bozzetti e pagine di sceneggiatura o fotogrammi finali per cogliere appieno quanta arte ci sia nel passaggio dall’idea al film. Un piccolo approfondimento che non inficia la bellezza dell’allestimento, ma lo renderebbe davvero irresistibile.