C’è un paradosso che attraversa il mondo dello spettacolo: da un lato, il teatro e il cinema sono da sempre luoghi di trasformazione, dove i corpi diventano simboli, le voci si fanno universali, le storie trascendono i limiti del reale. Dall’altro, però, quei corpi che non corrispondono a un ideale estetico o funzionale faticano a entrare in scena, se non come eccezioni, curiosità o “messaggi sociali”.
“Gli attori si valutano sulla capacità di recitare ed emozionare“: è un principio sacrosanto, eppure incompleto. Perché se è vero che il talento è imprescindibile, è altrettanto vero che il talento ha bisogno di opportunità per emergere. Pensiamo ad Ali Stroker, prima attrice in sedia a rotelle a vincere un Tony Award nel 2019 per Oklahoma!: la sua vittoria non è stata un regalo, ma il risultato di una lotta contro un sistema che, per decenni, ha escluso artisti come lei dalle audizioni. Negli Stati Uniti, solo il 2,7% dei personaggi televisivi è interpretato da attori con disabilità, nonostante il 26% della popolazione abbia una disabilità. In Italia, quanti teatri hanno rampe o servizi accessibili? Quanti registi considerano attori disabili per ruoli non stereotipati? Passando dal tema della meritocrazia, è importante considerare anche i limiti fisici e culturali che spesso vengono imposti agli attori disabili.
“Un attore in carrozzina non potrà mai scalare il balcone di Giulietta” si obietta. Ma il teatro non è cronaca: è invenzione. Quello stesso balcone può diventare una rampa, una proiezione, un gesto sospeso. La disabilità non è un ostacolo alla creatività, ma un invito a reinventare il linguaggio scenico. Prendiamo la Axis Dance Company, dove ballerini con e senza disabilità ridefiniscono cos’è la danza. Non è “arte per disabili”, è arte che trasforma i limiti in potenza.
Il vero problema non è la carrozzina, ma l’immaginario culturale che vede la diversità come un problema da risolvere, non come una risorsa da esplorare. Oltre ai limiti fisici e culturali, un altro aspetto cruciale è il rischio del tokenismo, che spesso si nasconde dietro una facciata di inclusione superficiale.
Negli ultimi anni, l’industria dello spettacolo ha scoperto la diversità. Ma c’è diversità e diversità: scegliere un attore disabile solo per riempire una quota è ipocrisia, non progresso. È ciò che accade quando la disabilità diventa l’unico motivo di un casting, riducendo l’arte a una questione di rappresentanza.
L’inclusione autentica, invece, chiede di più: che un attore disabile possa interpretare Amleto senza che la sua disabilità sia il tema, che un’attrice non vedente reciti Medea senza che la cecità sia menzionata. Come nel progetto Cripping the Stage del National Theatre di Londra, dove artisti disabili hanno portato in scena classici senza adattarli, dimostrando che l’universalità non ha un solo volto.
Un caso emblematico arriva dalla televisione: RJ Mitte in Breaking Bad. L’attore, che ha una paralisi cerebrale, interpreta Walter Junior, figlio del protagonista. La sua disabilità è parte del personaggio, ma non ne è il fulcro: Walter Junior è un adolescente complesso, diviso tra le insicurezze tipiche della sua età e il rapporto conflittuale con il padre. La serie non nasconde la disabilità, ma non la usa come strumento di pietismo o come “tema sociale”. È semplicemente un tratto del personaggio, integrato in una narrazione più ampia. Questo approccio mostra come la disabilità possa esistere sullo schermo senza essere ridotta a stereotipo o a lezione di moralità. Mentre il tokenismo può sembrare un passo avanti, la vera inclusione richiede un approccio più autentico, che riconosca anche il diritto alla mediocrità.
“Conosco attori disabili scarsi”, si dice. E perché no? La mediocrità è umana, e il mondo è pieno di attori abili che recitano male. Ma c’è una differenza: gli abili mediocri possono permettersi di sbagliare, di crescere in piccoli teatri, di vivere di spot. I disabili mediocri, invece, vengono spesso giudicati due volte: per la loro arte e per il loro corpo.
Il problema non è la mediocrità, ma l’accesso alla mediocrità: il diritto di essere imperfetti, di fallire, di migliorare. Un lusso che a molti viene negato. Per superare questi ostacoli, è necessario adottare misure concrete che possano riscrivere il copione dell’inclusione nel mondo dello spettacolo.
Per riscrivere allora il copione, è fondamentale seguire tre passaggi principali. Innanzitutto, bisogna garantire una formazione accessibile, che comprenda scuole di recitazione che offrano borse di studio per artisti disabili, docenti preparati a gestire la diversità e spazi fisici senza barriere. In secondo luogo, è necessario intraprendere casting coraggiosi, promuovendo audizioni alla cieca, assegnando ruoli che non siano legati all’identità degli attori e favorendo collaborazioni con compagnie inclusive. Infine, i teatri devono trasformarsi in veri e propri laboratori politici, dove non si tratta solo di aggiungere rampe, ma di riprogettare radicalmente gli spazi e le narrative. In questo modo, la diversità non sarà più un “tema” da trattare, ma un punto di vista che arricchisce ogni performance.
Il successo di Breaking Bad nel normalizzare la disabilità senza retorica non è un caso isolato. Film come The Theory of Everything (dove Eddie Redmayne interpreta Stephen Hawking; e non incominciate per favore a polemizzare sul fatto che Radmayne non sia disabile) o Sound of Metal (con Riz Ahmed nei panni di un batterista che perde l’udito) mostrano come la disabilità possa essere narrata con profondità, evitando il pietismo. L’apprezzamento per interpretazioni come quella di Eddie Redmayne, attore senza disabilità, non deve oscurare la necessità di dare spazio e visibilità agli attori con disabilità, le cui esperienze vissute possono arricchire ulteriormente queste narrazioni, anche se il talento performativo non sempre coincide con l’esperienza diretta della disabilità. Ma non in tutti casi avviene un arricchimento. E in fase di casting un attore abile potrebbe dimostrare comunque di essere molto più bravo a rappresentare la disabilità. Il problema poi è che questi, troppi film sono schiacciati dal dover rappresentare la disabilità come tema portante, come specimen speciale e non condizione normale. Poi che l’arte racconti storie anche diverse, strane e particolari è altra questione.
Tuttavia, resta cruciale coinvolgere attori disabili anche in ruoli che non parlano esplicitamente di disabilità. L’esempio virtuoso arriva dalla serie Speechless, dove l’attore Micah Fowler, affetto da paralisi cerebrale, interpreta un personaggio la cui disabilità è parte dell’identità, ma non l’unico tratto definitorio.
Come scriveva il drammaturgo Augusto Boal, “il teatro è un’arma per la libertà“. Ma perché sia davvero tale, deve smettere di essere un club esclusivo. Non si tratta di abbassare gli standard artistici, ma di allargare lo sguardo per riconoscere il talento dove prima vedevamo solo limiti.
Il giorno in cui un attore in carrozzina potrà essere un Romeo mediocre quanto il collega abile, senza che la sua presenza susciti scalpore, avremo vinto. Perché significherà che l’inclusione non è più una notizia, ma normalità. Poi la Critica non si farà problemi a stroncare uno spettacolo perché Romeo recita maluccio.