Il reportage come esigenza: intervista a Silvia Dona

Silvia Dona nasce in Uganda a Kampala, da padre italiano e madre greca, durante la dittatura di Idi Amin Dada. In seguito si trasferisce in Kenya dove passa l’infanzia e l’adolescenza. A 18 anni termina le scuole a Nairobi e si trasferisce in Italia per proseguire gli studi. Una volta laureata lascia nuovamente l’Italia e vive in Tanzania, Nigeria, Sud Africa, Spagna, Germania e ora Thailandia.

©Silvia_Dona – FEEDING THE VULNERABLE
©Silvia_Dona – FEEDING THE VULNERABLE

Qual è la tua personale storia della fotografia?

Non ricordo il momento esatto in cui mi sono innamorata della fotografia. Ricordo però che mio padre scattava molte diapositive quando ero bambina, aveva una valigetta di pelle nera che portava sempre con se durante i safari, dove custodiva la sua amatissima Asahi Pentax. Ricordo anche alcuni suoi racconti sulla camera oscura all’interno della prigione di Kampala, in Uganda, alla fine degli anni 60, dove un misterioso signore inglese gli faceva da maestro nell’arte della stampa.
Alcuni anni dopo, da adolescente, sognavo di fare la fotografa di guerra. Poi, come spesso capita, la vita mi ha portato a fare scelte differenti. Ho una laurea in Traduzione e un Dottorato in Etnolinguistica. Proprio durante le mie ricerche sul campo, in Africa, che ho iniziato a fotografare più assiduamente. Ho iniziato documentando la cultura della popolazione Turkana in Kenya, e successivamente la vita sociale degli Hadzabe in Tanzania.
Di recente, durante il Covid, ho sentito la necessità di rimettermi in gioco e dedicarmici pienamente. Forse in quei primi mesi sconvolgenti, durante la pandemia, ero alla ricerca di una chiave di lettura diversa del mondo e sono riuscita a trovarla proprio nella fotografia. La cosa che più mi ha spinto però, per la quale ho sentito una vera e propria esigenza, è stata quella di iniziare a dedicare una parte della mia vita a documentare le realtà più deboli e nascoste. Da qui anche la mia collaborazione con una ONG locale qui a Bangkok dove attualmente vivo.

©Silvia_Dona – FEEDING THE VULNERABLE
©Silvia_Dona – FEEDING THE VULNERABLE

Molti fotografi hanno iniziato ad appassionarsi al reportage proprio grazie a collaborazioni con organizzazioni non governative. Cosa significa lavorare per una ONG in termini fotografici ed umani?

Lavorare per una ONG ti porta spesso in luoghi difficilmente raggiungibili, inaccessibili alla maggior parte delle persone. Le ONG lavorano a stretto contatto con le comunità che stanno aiutando, offrendo in questo modo la possibilità al fotografo di interagire e capire in modo più profondo la situazione, i luoghi e le persone coinvolte. Si instaurano rapporti e legami basati sulla fiducia e la comprensione. Mi capita spesso di ritornare nei posti dove sono già stata, con il passare del tempo le persone si sono abituate alla mia presenza e sono chiaramente più naturali davanti all’obiettivo. Dal punto di vista personale, sono alla ricerca di umanità. Sento il desiderio di raccontare la vita delle persone e la loro dignità. Entrare in empatia, cercare la verità. Dare voce attraverso le mie immagini, a chi di voce non ne ha.

©Silvia_Dona – FEEDING THE VULNERABLE
©Silvia_Dona – FEEDING THE VULNERABLE

Qual è la cosa più difficile nel documentare situazioni od eventi che hanno a che fare con il dolore dell’uomo? Come gestire in questi casi il coinvolgimento emotivo, l’etica e l’empatia?

Questa è una domanda complicata. Per quanto si cerchi di mantenere una certa distanza emotiva, credo che per raccontare una storia vera si debba assolutamente entrare in empatia con il soggetto. Poter sentire e trasmettere i sentimenti delle persone che ci circondano. Questa è, a mio avviso, una caratteristica fondamentale per raccontare le vicende umane. Empatia significa anche immedesimarsi nella vita del soggetto. Questo porta inevitabilmente ad un coinvolgimento emotivo, che dipende sia dai fatti che racconto, sia da quello che con il passare degli anni sento essere strettamente legato alla mia evoluzione personale. Credo che con l’età si cerchi di vedere le persone, il mondo, le situazioni, in un contesto più’ vasto, più universale. Probabilmente questo mi ha insegnato a soffrire meno che in passato.
Quanto all’etica, questo dipende sicuramente da persona a persona. La stessa situazione può essere fotografata in modo cinico o compassionevole. Immagino dipenda dalla motivazione del fotografo e dalla sua sensibilità. Da come fotografa al perché sta fotografando – o per conto di chi -.

©Silvia_Dona – FEEDING THE VULNERABLE

In un reportage il fotografo si può sempre definire etico e trasparente?

Questo è un discorso molto lungo. La fotografia non è necessariamente oggettiva, perché la realtà – o verità – si presta ad infinite interpretazioni. Credo che la fotografia, per quanto onesta, sia comunque sempre partigiana.
Allo stesso tempo però nella fotografia esiste un fattore di “verità” inconfutabile, nel senso che il fotografo si è dovuto recare in un luogo a scattare una foto. Questo a differenza di un giornalista che potrebbe scrivere un articolo senza muoversi dal salotto di casa. Chiaramente il fotografo può manipolare e distorcere quello che vede, ma se lo fa probabilmente non sa che cosa sia l’etica professionale.

©Silvia_Dona – FEEDING THE VULNERABLE

Alcune delle più note immagini di guerra del passato, abbiamo scoperto essere una montatura. Eppure sono diventate iconiche. Quanto margine ha il fotografo di produrre una foto artistica nel reportage, che risulti comunque credibile agli occhi dell’osservatore?

Questa è un altra domanda molto importante e anche molto controversa. Personalmente mi sento profondamente motivata a dar voce e immagine a chi di voce non ne ha. Sottolineando la dignità delle persone che ritraggo e non usando mai le persone fotografate come mezzo ma come fine. Inoltre, anche se rifiuto l’estetismo fine a se stesso, “credo nella bellezza’’. Molti fotografi la evitano per paura che venga equiparata a poca sincerità o manipolazione. Io invece la cerco anche nei posti e nelle situazioni peggiori. Ovviamente vi sono dei limiti e sono assolutamente contraria alle montature sia sul campo che in post produzione. L’immagine di reportage può essere “rafforzata” ma deve rimanere comunque quella, non si possono tagliare cancellare o incollare pixel!

©Silvia_Dona – FEEDING THE VULNERABLE

Cosa ti ha insegnato questa esperienza come donna e come fotografa?

Che vale la pena e il sacrificio continuare a cercare l’umanità la dove viene soffocata e dimenticata. Che l’esigenza che provo a raccontare per immagini le persone e gli eventi, vuol dire anche scoprire e approfondire una parte di me stessa. Per poi comunicarlo agli altri. Non solo per denuncia ma anche, a volte, semplicemente per passione e curiosità.
Può una fotografia cambiare il mondo? Sinceramente è una domanda che non mi pongo più. Chissà. Forse sì, forse no. Ho imparato che per me è comunque importante continuare a farle le foto, anche se poi arriveranno a pochi.

©Silvia_Dona – FEEDING THE VULNERABLE

Mirko Bonfanti

https://www.instagram.com/silviadona.ph/