Federico Ciamei, classe 1974, è romano di nascita ma milanese di adozione. Esprime la sua creatività sia attraverso commissionati sia attraverso progetti personali. I suoi lavori hanno in comune l’attenzione alla sperimentazione e alla commistione di linguaggi. Federico è infatti anche designer.
I suoi progetti sono stati esposti al Festival Internazionale di FotoGrafia di Roma, allo Street Style, al Big Bang TV, al Villaggio Olimpico di Roma e al Photocapalbio. Ha all’attivo quattro libri: Villaggio Olimpico 1960, 80s SWM seeks LTR, A-Z Milano, Travel Without Moving.
Le sue foto sono state pubblicate su riviste nazionali e internazionali come Le Monde, L’Espresso, Geo, Vanity Fair, Traveller.
Noi di Discorsi Fotografici l’abbiamo raggiunto in occasione del lancio dell’ultimo cameraphone lanciato da Huawei.
Federico è stato coinvolto per realizzare alcuni scatti in cima al Duomo.
La prima domanda che ti rivolgo è un rito per Discorsi Fotografici Magazine. Come e quando è nata la tua storia personale con la fotografia?
Bella domanda. Come molti fotografi ho iniziato con una macchina fotografica di famiglia. In seguito, alle scuole medie, ho avuto un professore, un insegnante di educazione tecnica, che organizzò un laboratorio per realizzare un fotoromanzo. Bisognava inventare una storia, a piccoli gruppi. Mi è rimasta una foto che ho tenuto nel cassetto per parecchi anni in cui compaio con una maschera di Frankenstein. Non ricordo altro, però quell’immagine mi ha fatto scoprire la fotografia. Per tanti anni mi sono dimenticato di questo incontro. Ho studiato filosofia, ho intrapreso strade differenti come come webmaster programmando pagine e curandone il design. Ho lavorato per molti anni come grafico multimediale. Parallelamente mi sono reso conto che non mi interessava un rapporto così stretto con il web, ma volevo ritornare alla fotografia.
Chissà che fine ha fatto quella vecchia macchina a pellicola di mio padre.
Sei autore di un progetto che ti è valso la menzione speciale al premio Marco Bastianelli nel 2017 dal titolo “Travel without Moving”. La filosofia di base è che oggi non serva inseguire l’esotismo per raccontare storie. Come è nata questa idea?
Questo progetto è nato al Museo di Storia Naturale di Milano. Da appassionato di diorami mi sono accorto che nelle didascalie era precisato con estrema cura il punto in cui era ricostruito. Ho iniziato a cercare, si trattava di Monte Verde Claus Forest, una riserva naturale, un posto in cui non sono mai stato e dove vorrei andare un giorno. Cercando questo luogo ho trovato una pagina in un archivio on line di un diario. Era una copia del milleottocento di Harper, una delle prime riviste di viaggio. Raccontava di una pentola d’oro sperduta in una foresta, un po’ alla Jules Verne. Da qui ho iniziato a indagare. Noi abbiamo a disposizione tantissime informazioni, sono così numerose che nessun individuo le può padroneggiare tutte. Ho immaginato un’esplorazione di secondo livello per scoprire di nuovo le cose scoperte in passato. Mi hai fatto venire in mente una battuta di Troisi che alla domanda se avesse letto un certo libro rispose che loro che scrivono sono tanti, io uno sono.

Tornando alla ricerca di storie di prossimità in “Milano A Z. Postcards from the City” hai raccontato questa città attraverso una selezione di 21 cartoline e 21 fotografie per individuare una sorta di arché di Milano attraverso luoghi e simboli. Cosa hai scoperto?
Sono di Roma, sono arrivato a Milano circa dieci anni fa. Ho avuto voglia di fare qualcosa legato a questa città. È stato un gioco di scoperta. Per me questa è l’essenza della fotografia. Ho lavorato insieme a Sara Guerrini, allo studio 150UP e a Ilaria Russo che ha inventato delle filastrocche per ognuna delle cartoline. Abbiamo immaginato di scomporre Milano in 21 parole chiave, A come aperitivo ad esempio oppure G come grigio. Ancora oggi rimpiangiamo di non aver messo E come evento.

Rimaniamo a Milano. La tua partecipazione all’evento organizzato da Huawei per il lancio in Italia dell’ultimo arrivato nella famiglia Mate, HUAWEI Mate 50 Pro, un cameraphone dotato di hardware all’avanguardia e innovative funzionalità software. So che sei salito sopra ai tetti milanesi. Cosa ti ha sorpreso?
Ogni strumento che sia una macchina fotografica o altro possiede punti di forza. Uno smartphone è certamente percepito più pratico per la sua onnipresenza ma alcune sue funzioni sono considerate dai fotografi con difficoltà. Ad esempio l’apertura virtuale, cioè la possibilità di cambiare l’apertura e il punto di messa a fuoco dopo aver realizzato la fotografia, sono opzioni non possibili con una macchina tradizionale e appaiono per questo non “fotografiche”. In realtà possono diventare una modalità di espressione e narrazione differente. Tutte queste potenzialità sono da esplorare. Se ripercorriamo la storia della fotografia è strettamente legata alle innovazioni tecnologiche che si sono tradotte in possibilità creative inesplorate.

Il tuo ultimo progetto, ancora in fieri, ha come titolo “3000 Years Old”. È una ricerca sulla nostra identità in cui ti muovi tra tradizione e cultura. Da cosa nasce questa idea e come la stai sviluppando?
È un progetto che sto sviluppando nel tempo. È suddiviso in 5 capitoli. Capriccio, (People Named) Italo, Replica, Mamma and Pattuglia Acrobatica Nazionale. L’idea di base è esplorare l’identità italiana nel presente. La tradizione e la cultura italiana sono molto radicate nel passato, dunque è molto difficile identificare quella di oggi. Frugo nei cliché e nella memoria collettiva. Ora sto lavorando al quarto capitolo, quello dedicato alla madre e a mia madre, anche attraverso l’Intelligenza Artificiale. Purtroppo la pandemia da Covid 19 ha rallentato una parte del lavoro, in particolare Italo, una serie di ritratti di persone che portano questo nome.

Fai parte di un collettivo di fotografi, “Nove Photography”, che ha base a Roma.
È un’esperienza che appartiene al passato. Organizzavamo mostre, incontri, letture avendo in gestione uno spazio vicino all’Auditorium di Roma. È stato un percorso arricchente che mi piacerebbe ripetere anche qui a Milano.
Ultima domanda. Chi saresti se non fossi un fotografo?
Ho iniziato il mio percorso universitario studiando filosofia ma mi sono laureato in disegno industriale. Sicuramente lavorerei in questo mondo. Mi interessa e spesso mi capita di fotografare su commissione ritratti di designer ad esempio. Si, farei questo.
Valeria Valli