KENRO IZU – LUOGHI DELL’ANIMA. Un viaggio spirituale e introspettivo nei luoghi sacri del mondo

“La creazione di qualcosa di nuovo non è il mio interesse. Mi piace osservare molto da vicino, molto profondamente e documentare con precisione la mia visione. Cerco di usare il mio istinto, come se fossi un animale predatore. Cerco di non pensare. Resetto il pensiero e ascolto se vibra il cuore” (K. Izu).

A volte la fotografia di architettura e paesaggio – come abbiamo già avuto modo di osservare attraverso alcuni autori – non si ferma alla pura rappresentazione di ciò che è visibile all’occhio umano, ma è rivolta alla ricerca della “bellezza dell’impermanenza”, permettendo allo spettatore di immergersi in un mondo altro, fatto di interiorità e spiritualità.

Questo è quanto accade visitando la mostra Kenru Izu. Luoghi dell’anima, ospitata fino al 31 agosto nella Rocca visconteo-veneta di Lonato del Garda (ex fortificazione militare che domina il lago) che propone un viaggio virtuale nei luoghi sacri del mondo attraverso alcune immagini riguardanti il tema centrale del lavoro del noto fotografo giapponese, ovvero la ricerca di spiritualità attraverso il paesaggio e l’architettura sacra.

Fotografo “raffinato, elegante, colto”, di profonda sensibilità e con uno stile meditativo e ricercato sia in fase di ripresa che di stampa, Kenru Izu (Osaka, 1949) ha oltre 50 anni di carriera a livello internazionale alle spalle – condensata nel recente volume “Kenro Izu: The Spirit Within, A Fifty Years Journey” (2023) – che lo ha visto esporre in mostre personali e collettive presso importanti Istituzioni e Musei di tutto il mondo – da Tokyo a Boston, da San Diego a New York, da Taiwan a Bangkok – con opere presenti in collezioni pubbliche e private di Stati Uniti, Europa e Giappone, oltre ad aver ottenuto numerosi premi e borse di studio e pubblicato 20 libri fotografici.

Kenro Izu

Considerato uno dei più esperti stampatori esistenti della tecnica del platino/palladio, negli anni Izu ha affiancato un fecondo lavoro commerciale ad un percorso artistico costellato di numerosi progetti personali.

Cresciuto ad Hiroshima e specializzatosi in fotografia presso la facoltà d’Arte della prestigiosa Nihon University di Tokyo, all’inizio degli anni Settanta – all’età di 21 anni – egli si trasferisce a New York (città all’epoca “molto accogliente e generosa” dove resterà 50 anni prima di tornare in Giappone) alla ricerca del proprio stile fotografico, prima lavorando come assistente e poi, dal 1974, aprendo il proprio studio specializzato in pubblicità e still life.

L’interesse per la storia e l’antichità e la scoperta del lavoro di alcuni fotografi viaggiatori tra cui Francis Frith (che a metà Ottocento immortalò antichi monumenti in Egitto e Medio Oriente utilizzando nel deserto la tecnica di stampa del “collodio umido” su lastre 40×50), lo spingono a compiere – nel 1979 – il suo primo viaggio in Egitto, con una Leica 35 mm e una 4×5, alla ricerca di una sua personale fotografia come “forma d’arte” volta ad esprimere i propri sentimenti e pensieri, e, contemporaneamente, alla ricerca “della propria vita”.

Qui, di fronte alla piramide a gradoni di Sakkara, egli “avverte l’aura mistica e la travolgente energia emanate da quell’architettura sacra, tanto antica quanto imponente e autorevole” (F. Maggia), restando impressionato dalla spiritualità del luogo e dal senso di caducità e bellezza dato dalle antiche rovine – segno dell’azione dell’uomo – che “hanno visto regni e imperi nascere e cadere, andare e venire”.  Ed è proprio l’immagine scattata davanti a questa piramide – fatta al crepuscolo con macchina fotografica 4×5 in un’unica esposizione e scelta tra migliaia di scatti – che diventerà, tre anni dopo, il suo lavoro di debutto, permettendogli di essere notato dal curatore del Metropolitan Museum e dal gallerista della Photofind di New York, che lo inviterà ad esporre nella propria galleria la sua prima mostra personale.

Dall’esperienza egiziana prende avvio il progetto Sacred Places, che, a fianco di nudi, ritratti, nature morte e progetti fotografici diversi, diventerà il lavoro di una vita. Attraverso una continua ricerca e sperimentazione di tecniche analogiche e macchine fotografiche sempre più grandi (da 4×5 a 5×7, da 8×10 fino a 14×20), per trent’anni Izu intraprenderà impegnativi viaggi – pur senza un piano prestabilito – verso mete sempre più lontane ed impervie, anche a piedi o a cavallo, portando con sé pesanti attrezzature e un numero limitato di negativi, verso i più suggestivi luoghi sacri e di culto di tutto il mondo, dalla Scozia al Messico, dalla Cambogia all’India e all’Indonesia, dalla Siria al Tibet, dal Perù all’Isola di Pasqua, per catturare immagini in bianco e nero – lo stile che il fotografo predilige – di siti con un profondo significato mistico, con “l’illusione di vincere il potere distruttivo del tempo” (K. Izu).

Attraverso una tecnica fotografica estremamente raffinata, sviluppata nel tempo, che recupera la tradizione e lo stile ottocenteschi, Izu ha creato negli anni “pochissime pose, ma di un’eccellenza senza pari”, attraverso l’uso di un grosso e pesante banco ottico creato ad hoc nel laboratorio Deardorff per negativi di grande formato 14×20 pollici (pari a 35×50 mm, le stesse dimensioni della stampa finale), che per il trasporto necessita un aiuto o più viaggi. Il grande formato gli permette di ottenere immagini scavate e ricche di dettagli e, al tempo stesso, capaci di evocare la spiritualità dei luoghi ritratti, anche grazie all’uso della stampa a contatto al platino palladio, in cui il negativo – delle stesse dimensioni della stampa finale – viene usato direttamente a contatto, senza dover ingrandire il negativo originale, e, attraverso un processo monocromatico che utilizza sali di platino e palladio, permette “la restituzione più precisa e pura dello sguardo originario”, garantendo una gamma quasi illimitata di tonalità di grigi che esaltano i contrasti, le sfumature e le profondità, facendo emergere tutti i dettagli dell’immagine in armoniose gradazioni.

Kailash, Tibet © Kenro Izu, 2000

“La sua fotografia si risolve in una sublimazione della realtà, che proietta lo spettatore in una sorta di tempo interiore e oltrepassa le epoche storiche”, attraverso una composizione rigorosa delle immagini. Queste ultime, infatti, “non sono semplici rappresentazioni architettoniche, ma colgono l’aura che circonda i luoghi. Le sue fotografie trasmettono una sensazione di pace, esaltando il rapporto tra l’uomo e lo spazio. I templi, le rovine e i paesaggi appaiono sospesi nel tempo, avvolti da un silenzio quasi palpabile, in un dialogo intimo tra luce e ombra che evoca bellezza e caducità, vita e morte” (S. Onger, G. Nocivelli), tema questo ricorrente nel suo lavoro.

L’approccio di Izu non è pertanto la semplice e mera rappresentazione di un’architettura sacra e del suo contesto, ma “implica un processo di approfondimento e di apprendimento che di volta in volta differisce a seconda del luogo e della cultura che il fotografo […] intende esplorare” (F. Maggia), attraverso lo studio della storia, della religione, delle tradizioni, della ritualità e delle credenze locali. Così, grazie a un tempo lento che solo la fotografia può concedere, il fotografo cerca di entrare in simbiosi con i luoghi per restituire la “sintesi” di questa “relazione unica e speciale” in forma di lastra impressa: un’esperienza vissuta, frutto di meditazione e contemplazione, che gli fa avvertire l’energia del sito, spesso spingendolo a ritornare per avere risposte ai tanti interrogativi che il sito pone, talvolta interrogandosi sulla propria esistenza, “come se il sacro spirito [lo] guidasse attraverso i luoghi per cogliere più a fondo l’essenza della spiritualità” (K. Izu).

Ed è proprio la ricerca della spiritualità il tema della mostra di Lonato del Garda a cura di Filippo Maggia, realizzata grazie al finanziamento del Bando Strategia Fotografia 2024 della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura, rientrante nel programma espositivo dedicato all’arte fotografica che la Fondazione Ugo Da Como (di cui la rocca fa parte) ha avviato dal 2023.

Qui, nella Sala del Capitano, è proposta una selezione di 55 immagini realizzate dal fotografo tra il 1985 e il 2019 – presenti anche nel catalogo della mostra edito da Silvana Editoriale – tratte dalle raccolte “Sacred Places”, “Eternal Light”, “Bhutan Sacred Within”, “India Prayer Echoes”, “Angkor”, “Laos Charity” e “Fuzhou – Forgotten Land”, in un affascinante e coinvolgente percorso che riassume la sua vasta produzione e la sua continua ricerca dei “luoghi dell’anima” e di cosa si cela dietro al sacro mistero del culto e della preghiera.

Un allestimento essenziale riempie le pareti perimetrali della sala, proponendo una serie di fotografie accostate le une alle altre che, insieme a un’interessante video-intervista al fotografo, ne raccontano il viaggio spirituale e introspettivo, permettendo allo spettatore di immergersi in culture differenti ed entrare in sintonia con esse. Anche al fine di mostrarne l’evoluzione nel tempo, le immagini non sono proposte in sequenza cronologica ma sono raggruppate per luoghi.

A partire dalla città di Varanasi sulla riva occidentale del Gange, dove, per la prima volta, durante la cerimonia di cremazione di un cadavere, il fotografo inizia a vedere la morte in modo diverso, parte un percorso dedicato all’India, in tutte le sue sfaccettature religiose. A fotografie raffiguranti montagne sacre (monte Bhagirathi) si affiancano quelle di templi buddisti scavati nella roccia (Hampi), addossati alle pendici delle montagne (Lamayuru) o arricchiti da sculture e decorazioni (Khajuraho o Ekambareswarar ad Kanchipuram), mentre immagini più recenti vedono protagoniste persone in preghiera, oscurando quasi le architetture sullo sfondo.

Alcune immagini in mostra sull’India

Tra i luoghi immortalati non vi sono solo templi o luoghi sacri, ma anche numerosi siti archeologici, tra cui le antiche città di Petra in Giordania e di Palmira in Siria; le maestose piramidi di Giza in Egitto; i misteriosi ed imponenti Moai dell’Isola di Pasqua; la cittadella di Machu Picchu in Perù e di El Tajin in Messico; i silenziosi dolmen di Stonhege.

Moai, Easter Island, Chile © Kenro Izu, 1989

Spiccano in particolare le immagini di Angkor Wat in Cambogia, sito archeologico risalente al XII secolo composto da numerosi templi, che fu sopraffatto dalla natura lussureggiante dopo l’abbandono e riscoperto nel XIX secolo: qui alcune fotografie sono state scattate durante il periodo della guerra civile – tra gli anni ’70 e ’80 del Novecento – sotto il regime militare degli khmer rossi. Nonostante la paura e la presenza di ladri di pezzi intagliati da rivendere al mercato nero, la situazione garantì al fotografo la tranquillità e la solitudine adatte per immortalare questi siti, da cui emerge soprattutto la forza della natura, esemplificata dalle radici degli alberi che ancora oggi tengono insieme le strutture, da cui sono ormai inscindibili.

Angkor, Cambodia © Kenro Izu, 1993

Ritroviamo lo stesso tema nella testa di Buddha – avvolta da un albero – nel tempio Wat Mahathat ad Ayutthaya in Thailandia, ma anche nel Golden Rock di Burma in Myanmar, che sembra sfidare la forza di gravità sulla cima del monte Kyaiktiyo, miracolosamente tenuto in equilibrio su uno sperone di roccia, così come nelle grotte di Pak Ou, sul fiume Mekong in Laos, o sulla montagna sacra di Kailash in Tibet, che, grazie ad un gioco di luci ed ombre creato dal fotografo, sembra splendere alla fine di una valle himalayana.

E’ invece frutto di un’iniziale delusione – dopo un viaggio interminabile, quasi un pellegrinaggio, in cui Izu si è portato dietro una pesantissima attrezzatura – l’immagine di una modesta bandierina di preghiera su una montagna del Nepal, un piccolo segno dell’uomo nello spazio sterminato e incontaminato che, nella sua semplicità, ne simboleggia la spiritualità, fermando il tempo in un attimo che così diventa eterno, soprattutto se rapportato a quello limitato dell’umanità rispetto a quello della natura.

Bandiera di preghiera, Mustang, 1998

“Viaggio da molti anni, ma non ho mai visto un luogo così in pace come il Buthan, un posto che sapesse far nascere in me un senso di tranquillità. […] Mi ha commosso l’altruismo della sua gente: contadini e monaci, ufficiali d’alto rango e persino il re. […] E così, dopo diversi decenni in cui ho fotografato “luoghi sacri”, ho iniziato a vedere la sacralità nel cuore delle persone. […] Ho capito che un cuore amorevole, un cuore aperto agli altri è sacro quanto un sito religioso” (K. Izu).

“Colgo la bellezza in un fiore, poiché la sua vita dura appena pochi giorni e posso vederne i cambiamenti quotidiani. Persino i monumenti di pietra nei luoghi sacri iniziano a tramutarsi in sabbia dopo qualche migliaio di anni […]. La vita degli umani è alquanto breve e, sapendo che l’esistenza ha un limite, colgo lo splendore della gente entro questo lasso di tempo. Come se il tempo lucidasse una pietra tramutandola in gioiello.  E’ quello che vedo nelle persone” (K. Izu).

Una lunga esperienza in Buthan – un piccolo stato tra le montagne himalayane dove la ricchezza non si basa sui soldi ma sulla felicità (“Buthan secret within”) – durante la quale Izu ritrae monaci, musicisti, maschere, gente comune e paesaggi, rappresenta un punto di svolta della sua carriera: egli infatti, partendo da una posizione che in fotografia escludeva completamente la figura umana, inizia a “concentrarsi a cogliere la profondità delle persone”, considerandole il completamento dei luoghi sacri, o meglio l’elemento che li rende così spirituali. Vedere gli uomini che esprimono desideri, si inginocchiano o si inchinano, infatti, rappresenta per lui “la massima espressione di umiltà da parte degli esseri umani”, che si rendono conto di essere vulnerabili, rivelando che c’è qualcosa al di sopra.

Da questo momento in poi Izu sposta il suo interesse dalle architetture alle persone che frequentano i luoghi sacri – sia che essi siano inservienti, custodi o credenti – alla ricerca del “sacro all’interno del cuore”, inteso come la massima espressione di bellezza, qualcosa che rimane dentro noi stessi. Dal 2008, quindi, torna in India a visitare luoghi già fotografati ma – questa volta – “puntando l’obiettivo sulla gente”.  

Amritsar, India © Kenro Izu, 2009

Una figura così interessata alla ricerca del valore e della felicità degli esseri umani non può non essersi impegnata anche a livello sociale: dopo un viaggio in Cambogia, durante il quale incontra numerosi bambini malati, malnutriti o mutilati – eredità del conflitto americano in Vietnam – nel 1996 Izu fonda infatti l’Organizzazione Friends Without a Border (FWAB), con cui da trent’anni raccoglie fondi – devolvendo molti dei profitti derivanti dalla sua attività artistica – per l’assistenza medica e ospedaliera per i bambini del sud-est asiatico in Laos e Cambogia, con il motto “trattate ogni paziente come fosse vostro figlio”.

Viaggi più recenti lo portano ad immortalare paesaggi, villaggi e dimore abbandonati e in rovina a Fuzhouin Cina, “una terra meravigliosa ma dimenticata” a causa di una diga di recente costruzione e il conseguente innalzamento del livello dell’acqua: sono tracce di vita passata e segni dell’esistenza umana che, simbolo di impermanenza, costituiscono i “monumenti” di oggi nei quali, sopra un altare dedicato agli antenati, un poster di Mao Tse-Tung o vecchie fotografie di Lenin o Marx sembrano rappresentare l’altra faccia della spiritualità.

Alcune immagini in mostra sulla Cina

Patrizia Dellavedova

Foto di copertina: Varanasi, India © Kenro Izu, 2015. Ove non diversamente specificato le foto sono dell’autore.