La camera chiara di Roland Barthes – un viaggio alla ricerca del senso fotografico

Non è impresa facile quella di redarre un articolo su La camera chiara di Roland Bathes, testo che, nonostante la sua breve essenza, condensa in sé un universo di pensieri e riflessioni circa l’ampissimo mondo della fotografia. Considerato un testo irrinunciabile e immancabile nella libreria di ogni fotografo, La camera chiara è un libro di difficile classificazione: a metà tra un saggio e una raccolta, il suo scopo non è certo quello di fornire informazioni e tecnicismi sulla fotografia. Anzi, lungi dall’autore insegnare o spiegare la materia – che, se vogliamo dirla tutta, non è nemmeno quella principale dello scrittore, non essendo Barthes un fotografo. Al contrario, obiettivo di Roland è proprio quello di scardinare, mettere in discussione e smantellare ogni conoscenza pregressa sul tema. Eliminare ogni classificazione, ogni etichetta e ogni riduzione compiuta per andare ad analizzare da zero il fenomeno fotografico.

Un’operazione, quella di Barthes, decisamente fuori dal comune per l’epoca – ricordiamo che il libro fu pubblicato nel 1979, periodo in cui l’autore si trovava nel pieno dello Strutturalismo linguistico – e per la sua persona – per tutta la sua intera vita Roland fu impegnato nella ricerca e nella classificazione dei fenomeni che lo circondavano. In altre parole, leggendo La camera chiara ci troviamo di fronte ad un’opera decisamente fuori da comune: un manuale di fotografia che non vuole insegnare fotografia; che non è stato scritto da un fotografo, ma che tuttavia ad oggi è riconosciuto come uno dei testi di riferimento più importanti per gli amatori del settore.

La risposta che si cela dietro a questa domanda è da ricercare nel senso che l’autore attribuisce all’arte fotografica, articolato in 48 brevi capitoli suddivisi in due differenti sezioni di cui si compone lo scritto.

Nello specifico, nella prima sezione del libro Roland Barthes si dedica alla definizione di quelle che sono le pratiche – o emozioni – legate all’atto fotografico: fare, subire, guardare. La prima azione, quella del fare, è compiuta dal fotografo, che viene anche chiamato Operator; la seconda, quella del subire, è eseguita univocamente dallo Spectator, e ha luogo ogni qualvolta si consulti un giornale, una rivista, un album o, più semplicemente, una fotografia. Infine, l’ultima azione è compiuta dallo Spectrum, e consiste nel lasciarsi guardare, e viene quindi subita, più che eseguita, da tutti quegli elementi soggetti dei fotografi.

Già in questa prima sezione, che procede come il resto del testo per riflessioni e considerazioni sui ruoli delle tre pratiche fotografiche, l’autore vuole essere franco con i lettori ribadendo che il suo punto di vista non è quello di un professionista della materia, e che dunque si limiterà ad analizzare la realtà in qualità di Spectator o di Spectrum. Ed è proprio in qualità di “osservante” e “osservato” che avanza una prima importante considerazione, quella che la fotografia influisce: “Io sento che la Fotografia crea o mortifica a suo piacimento il mio corpo”. Proprio in quest’ottica si instaura un dualismo secondo il quale l’autore, pur essendo conscio di essere fotografato, vorrebbe tuttavia apparire se stesso: “Io vorrei insomma che la mia immagine, mobile, sballottata secondo le situazioni, le epoche, fra migliaia di foto mutevoli, coincidesse sempre col mio “io”; ma è il contrario che bisogna dire: sono “io” che non coincido con la mia immagine; infatti, è l’immagine che è pesante, immobile, tenace, e sono “io” che sono leggero, diviso, disperso.

Vorrebbe. Spera. Barthes desidera con tutto se stesso che la fotografia possa registrare l’autenticità e l’immortalità di un’esistenza fittizia e mortale, eppure sa che non può essere così. Ha la sensazione che quando viene fotografato, infatti, non ci sia nulla di veramente vero, specie quando si parla di foto ritratto: “La foto ritratto è un campo chiuso di forze. Quattro immagini vi si incontrano, vi si affrontano, vi si deformano. Davanti all’obiettivo, io sono contemporaneamente: quello che io credo di essere, quello che vorrei si creda io sia, quello che il fotografo crede io sia, e quello di cui gli si serve per far mostra della sua arte. In altre parole, azione bizzarra: io non smetto di imitarmi, ed è per questo che ogniqualvolta mi faccio (mi lascio) fotografare, io sono immancabilmente sfiorato da una sensazione d’inautenticità, talora d’impostura.”

E qui emerge un aspetto particolare delle riflessioni di Barthes. Quando, al contrario, un fotografo riesce nell’impresa di immortalare la realtà, produce il cosiddetto shock fotografico nell’osservatore, una sorta di inaspettato che va a scardinare la realtà che lo Spectrum conosce. Quello che l’Operator fa altro non è che catturare la realtà, ma una realtà che il fotografato non conosce. Riesce a cogliere, banalmente, l’inaspettato.

Altre riflessioni si intrecciano a queste appena accennate nella prima parte del libro, parte che potremmo definire latente o, meglio ancora, “negativa”, per adottare un termine fotografico, la parte ossia che ha come obiettivo quello di individuare un’essenza universale della fotografia, per lasciare spazio, circa alla metà del libro, alla seconda sezione, una parte “positiva”, in cui Barthes analizza intensamente l’unica fotografia che esiste solo per lui e che, per questo motivo, non viene mai mostrata ma solo raccontata tramite l’esperienza che ne fa, e intitolata: la Foto del Giardino d’Inverno.

È stato proprio l’inaspettato ritrovamento di questa foto, in cui vede ritratta la madre morta solo poche settimane prima in versione bambina, a spingere Barthes nell’impresa de La Camera Chiara.

E allora che cos’è la fotografia? Barthes a lungo si interroga circa il sentimento che lo porta a preferire una foto piuttosto che un’altra. Si chiede che cosa sia, arrivando alla conclusione che il termine corretto per definirla sia avventura: una fotografia mi avviene. A tal proposito, egli afferma: “In questo deprimente deserto, tutt’a un tratto la tale foto mi avviene; essa mi anima e io la animo. Ecco dunque come devo chiamare l’attrattiva che la fa esistere: una animazione.” 

Chiara Cagnan