L’America di Simenon in automobile

A poche settimane dalla fine del secondo conflitto mondiale, in odore di collaborazionismo con l’ex regime nazista a causa di un fratello scomodo e della produzione cinematografica di alcuni suoi romanzi da parte della macchina propagandistica di Göring, il prolifico scrittore George Simenon decide di cambiare aria e partire per una “missione governativa” nel mondo dell’editoria americana.

Sbarcato a New York con la famiglia e sbrigate le cavillose procedure dell’Ufficio Immigrazione, dopo le quali si godrà nel paese più grande e più ricco della Terra di una libertà che nessuno verrà più ad intralciare, Simenon resterà ben dieci anni tra coloro che per primi si ribellarono alla sudditanza di uno stato dell’ancien régime e ne descriverà le abitudini e le contraddizioni, si fonderà con lo spirito americano diventando, tra le altre cose, un ranchero in Arizona, un proprietario di ettari di foresta in Connecticut e mille altri personaggi vivendo con la solita pienezza, ottimismo e la capacità di continua meraviglia infantile qualsiasi evento e occasione per penetrare ancora più a fondo una società tutto sommato aliena, molto diversa da quella francese ed europea dalla quale proveniva.

Nel libro “L’America in automobile”, edito da Adelphi e facente parte di una serie di raccolte di appunti di viaggio o articoli pubblicati dallo scrittore, seguiremo il percorso da nord a sud lungo la East Coast, da Saint-Jean Calais nel Maine sino ai dintorni di Sarasota nella parte più selvaggia della Florida, di un viaggio intrapreso con due automobili, una guidata dall’autore, l’altra da sua moglie (alla quale questo paese, dove ogni cibo sa di dentifricio, proprio non va giù). Nel corso del viaggio si incontra di tutto, da traslochi operati facendo muovere intere case su rimorchi gommati a minacciosi cicloni tropicali e meraviglie sconosciute della tecnologia come l’aria purificata e condizionata.

Ma per quanto lo stile sia asciutto, quasi una cronaca, è come sempre lo sguardo attento e cosmopolita di Simenon a raccogliere l’essenza delle ambientazioni anche se osservate per solo poche ore; nel corso del viaggio si ritrova una America che fino a qualche decennio fa ha conservato le caratteristiche raccolte dall’autore che dichiara apertamente una certa superiorità morale del popolo americano in quanto aperto e collaborativo, dedito alle scienze non per primato nazionale ma affinché tutto il popolo goda dei vantaggi della ricerca, dove il contribuente non è il nemico a cui lo Stato estorce il massimo e a cui restituisce il minimo in termini di risorse e servizi [dove] non è il cittadino che deve essere utile allo Stato, ma lo Stato che deve essere utile al cittadino.

Un’America fatta di gente che non ha l’abitudine di frequentare piazze, punti di ritrovo e Café, che si riunisce in privato in mille club ma che allo stesso tempo è sempre allegra, disponibile, attenta a non mettere in imbarazzo nessuno neanche in ambienti lavorativi dove, parafrasando l’autore, dal capo più importante all’impiegato appena arrivato, tutti si vestono uguali così da non far pesare le gerarchie.

Nel 1946 ci sono però ancora le segregazioni razziali e tanti altri germi in incubazione del periodo che rivoluzionerà la società americana e mondiale, lo sguardo dello scrittore su questi argomenti alla luce di oggi può apparire anche ingenuo e ancora legato alla presunta supremazia di cultura, razza o società che aveva da poco sconquassato il pianeta (si nota una certa meraviglia anche nel constatare che le persone di colore possano aver fatto carriera in alcuni campi o possedere case costose). Ma per l’autore, in un paese così ricco, anche la miseria americana è di gran lunga meno misera di quella che si trovava a Montmartre o nei quartieri più poveri di Parigi, e in tutto il racconto di viaggio non ci si libera di questa gradevole patina di entusiasmo che confermerà la sua decisione di restare ancora per molti anni.

Completano il libro alcuni ulteriori appunti e articoli del periodo americano, dove si conoscono bambini che svolgono attività da vigli urbani nelle scuole e, prendendo spunto da ricordi di infanzia di fruttivendoli ambulanti italiani, l’esaltazione della conservazione della propria cultura che ogni popolo emigrato negli Stati Uniti mescola con perfetto bilanciamento con la sincera dichiarazione di “sentirsi un americano”. Fondamentale per la comprensione del periodo statunitense dell’autore il capitolo “Il viaggiatore incantato” di Ena Marchi a conclusione dell’opera.

Come per altri libri di questa collana dedicati ai viaggi di Simenon, nel volume sono presenti alcune fotografie che purtroppo non ritraggono i luoghi e gli eventi del viaggio in quanto, quasi all’inizio dello stesso, all’autore viene rubata la sua Leica e non potrà accompagnare quanto scritto con le proprie immagini (viene da chiedersi come mai non ne avesse acquistata subito un’altra, ma dato il mestiere probabilmente le parole furono considerate più importanti delle immagini dall’autore). Sono invece presenti diverse fotografie dell’album di famiglia, tutte scattate durante i dieci anni e le mille vite vissute da George Simenon nel continente americano, con la sua inconfondibile pipa ma anche col cappello da cowboy, sempre protagonista della scena (al massimo affiancato dal figlio o da personaggi minori) e, almeno in apparenza, sempre soddisfatto del luogo e del tempo in cui si trovava.