Veejay Villafranca è un fotografo documentarista e fotogiornalista filippino con oltre vent’anni di esperienza nel raccontare storie nelle Filippine e nel più ampio contesto asiatico. La sua carriera ha avuto inizio come fotografo di cronaca per una rivista nazionale a Manila, dove ha trascorso più di quattro anni a documentare una vasta gamma di eventi, dalle dinamiche urbane alle questioni di rilievo nazionale. Questa esperienza gli ha fornito le basi per intraprendere un percorso nella fotografia documentaria sociale, spinto dalla volontà di approfondire le vite e le storie delle persone che incontrava. Il suo primo progetto significativo ha esplorato le vite degli ex membri delle gang in uno dei più grandi slum (baraccopoli) di Manila.

Parlare con Veejay significa percepire subito quanto la fotografia sia per lui più di una semplice professione: è un linguaggio, un modo per comprendere il mondo e raccontarlo con autenticità. Questa passione affonda le radici nella sua infanzia, influenzata dal padre e dal nonno, entrambi fotoreporter. Cresciuto tra le pagine di riviste iconiche come Life e National Geographic, oltre che ispirato dai maestri della fotografia filippina, ha maturato uno sguardo che combina sensibilità e rigore narrativo. Formatosi durante la “golden age” del fotogiornalismo, ha interiorizzato l’importanza di una narrazione potente e significativa, un tratto distintivo che emerge chiaramente nel suo lavoro.
Attraverso la sua fotografia, Veejay esplora temi di identità, emarginazione e resilienza, con particolare attenzione alla realtà filippina e asiatica. La sua predilezione per il bianco e nero gli consente di distillare l’essenza emotiva delle storie che racconta, mettendo in luce la profonda umanità dei suoi soggetti.
Oltre alla sua attività fotografica, è educatore e mentore presso l’Asian Center for Journalism nelle Filippine, dove incoraggia e guida una nuova generazione di fotografi. Il suo lavoro non solo dà voce alle comunità emarginate, ma sfida anche le narrazioni convenzionali del fotogiornalismo contemporaneo, connettendo prospettive locali e globali attraverso un racconto visivo autentico e consapevole.


Come è iniziato il tuo percorso nella fotografia?
Il mio percorso nella fotografia è iniziato molto presto, non come praticante, ma come osservatore, immerso fin dall’infanzia nel potere delle immagini e nell’importanza dell’informazione visiva. Mio nonno, ormai scomparso, era un giornalista che negli anni ’60 e ’70 raccontava storie da ogni angolo delle Filippine. Nel corso della sua carriera si occupò anche di eventi internazionali di grande portata, come la caduta del Muro di Berlino e le fasi finali della Guerra del Vietnam. Da bambino, ebbi accesso ai suoi ritagli di giornale, che documentavano questi momenti storici e che iniziarono a plasmare il mio sguardo sul mondo. Anche mio padre, che purtroppo non è più con noi, era un fotoreporter e lavorava per l’Agenzia Nazionale per l’Edilizia Abitativa. Sebbene il suo lavoro si concentrasse principalmente su tematiche legate agli alloggi e agli sfollamenti, fu lui a introdurmi alla fotografia, facendomi conoscere il lavoro di fotografi filippini e internazionali e alimentando la mia curiosità per il racconto per immagini.
Il mio percorso professionale, tuttavia, cominciò molto tempo dopo, quando iniziai gli studi in Belle Arti presso l’Università di Santo Tomas a Manila, iscrivendomi al corso di Advertising Arts. Nel 2001, durante la Seconda Rivoluzione di EDSA* — un movimento volto a destituire un presidente accusato di corruzione — mio padre mi incoraggiò a visitare i luoghi delle proteste. Le manifestazioni si svolgevano non lontano da casa nostra, così mi affidò una Nikon 35mm con due o tre rullini di pellicola e mi disse semplicemente di documentare ciò che ritenevo significativo. Quell’esperienza ha lasciato in me un segno profondo, non solo dal punto di vista fotografico, ma anche per la forza delle immagini e il loro potere di testimonianza.
Circa un anno dopo, durante il mio secondo anno di università, si presentò un’opportunità per un posto da fotografo presso una rivista nazionale, con l’incarico di seguire le notizie presidenziali. Non avevo alcuna esperienza in giornalismo o fotogiornalismo, ma decisi di provarci. Mio padre mi spronò a candidarmi e presentai un portfolio semplice, composto dagli scatti realizzati durante la Seconda Rivoluzione di EDSA. Con mia grande sorpresa, fui selezionato. Gli editori e il proprietario della pubblicazione scelsero di scommettere su un giovane senza esperienza né formazione giornalistica. Io, dal canto mio, ero motivato ad apprendere e determinato a svolgere l’incarico al meglio. Fu in quel momento che il mio viaggio nella fotografia iniziò davvero, segnando l’inizio di un percorso che mi avrebbe insegnato non solo la tecnica, ma anche il valore del giornalismo visivo e il potere evocativo delle immagini.
(* La Seconda Rivoluzione di EDSA, conosciuta anche come “People Power II,” è stata una serie di proteste pacifiche che si sono svolte nelle Filippine nel gennaio del 2001. Queste manifestazioni portarono alla destituzione del presidente Joseph Estrada, accusato di corruzione e di abuso di potere.)

Uno dei tuoi primi lavori, “Marked: The Gangs of Baseco”, che ti ha anche valso l’Ian Parry Grant nel 2008, è un ritratto intimo di un gruppo di membri di gang che vivono nella comunità informale attorno al porto di Manila. Potresti raccontarci come hai incontrato queste persone e cosa ti ha spinto a documentare le loro vite? E come è stato accolto il tuo progetto dalla comunità?
Nel 2006 ho iniziato a dedicarmi a lavori più personali, in particolare a progetti a lungo termine, immergendomi in tematiche che sentivo particolarmente vicine. Ero interessato alle comunità e ai rifugi, così decisi di concentrarmi su una delle aree più densamente popolate di Manila: Baseco, nella zona portuale di Tondo. Questo luogo rappresentava un microcosmo delle sfide affrontate dalla maggior parte delle comunità emarginate, con problemi legati agli spazi abitativi, alla salute, alla migrazione economica e alla mancanza di opportunità. Cercavo una storia che potesse illustrare le esperienze di queste persone, focalizzandomi in particolare sulla giovane generazione di migranti economici e sulle famiglie della classe lavoratrice.
Mentre fotografavo l’area, incontrai un gruppo di ragazzi tra gli 8 e i 14 anni intenti a ballare breakdance. Mi dissero di essere sostenitori di una gang locale, la Chinese Mafia Crew, e in seguito mi presentarono ai veri membri. Con il tempo, iniziai a interagire e collaborare con alcuni ex membri della gang, molti dei quali cercavano di uscire dal circolo vizioso di droga, criminalità e povertà. Questo progetto si sviluppò nell’arco di quasi tre anni, durante i quali costruii relazioni con la comunità, le loro famiglie e persino i loro figli.
Il lavoro culminò in un reportage fotografico che presentai per la borsa di studio “Ian Parry Scholarship”. La storia raccontava di come chi cresce con poche opportunità possa trovare una via d’uscita dal ciclo di povertà e della criminalità. Le mie immagini ritraevano la durezza dell’ambiente, le difficoltà della comunità e la vita degli ex membri della gang. Alcune aree mostravano segni di miglioramento grazie al supporto delle ONG, ma nelle zone più marginali molte persone continuavano a vivere in condizioni critiche. Ero particolarmente colpito dai bambini e giovani adulti e dal loro futuro: avrebbero seguito le orme dei più grandi o sarebbero riusciti a superare le difficoltà del loro contesto?
Il progetto ricevette riconoscimenti grazie alla Ian Parry Scholarship e fu successivamente esposto su diverse piattaforme. Ancora oggi rimango in contatto con alcuni degli ex membri della gang: molti sono riusciti a costruirsi una vita migliore, lavorando duramente per sostenere le proprie famiglie, mentre altri hanno avuto destini tragici, tra incarcerazione e morti premature. Questo progetto mi ha insegnato preziose lezioni sulla ricerca, la narrazione visiva e l’importanza di riconoscere e raccontare costantemente le continue difficoltà delle comunità emarginate di fronte alle avversità.

L’uso del bianco e nero per raccontare questa storia è stata una scelta estetica ed emotiva?
Direi che il mio approccio alla fotografia è sia una scelta estetica che emotiva. Per quanto ammiri i fotografi che si dedicano alla fotografia tradizionale — quelli a cui sono stato esposto e che ho ammirato sin dall’inizio — mi sono sempre sentito più attratto dalla narrazione visiva piuttosto che dal seguire rigidamente le pratiche tradizionali. All’epoca, dovevo trovare un equilibrio tra il guadagnarmi da vivere e completare il mio percorso universitario, un requisito imposto dal mio editore affinché potessi intraprendere una carriera nel fotogiornalismo.
Sono sempre stato affascinato dalla fotografia in bianco e nero. Per me, l’immagine monocromatica ha un potere unico nel focalizzare l’attenzione dello spettatore sul messaggio. Se ne avessi avuto la possibilità, avrei adottato un approccio più tradizionale —scattando su pellicola e sviluppando personalmente le mie stampe — ma appartengo a una generazione in transizione verso il digitale. All’inizio della mia carriera, utilizzavo principalmente la pellicola, portando i rullini nei laboratori per lo sviluppo. Solo dopo alcuni anni di lavoro sono passato completamente alla fotografia digitale.
Ancora oggi utilizzo sia la pellicola che il digitale, ma per la maggior parte dei miei progetti personali tendo sempre a prediligere il bianco e nero. Mi piace sperimentare con formati diversi, come il panoramico e il quadrato, e ho esplorato tecniche come le esposizioni multiple e l’uso di macchine fotografiche giocattolo. Per me, questo processo aggiunge un’altra dimensione al mio modo di vedere il mondo. Non so se abbia sempre senso per gli altri o se rientri perfettamente nei canoni del fotogiornalismo tradizionale, ma mi aiuta a rimanere creativamente stimolato e ispirato.

Hai studiato Advertising Arts nelle Filippine e successivamente ti sei formato come fotogiornalista sotto la guida di mentori occidentali. Oggi insegni linguaggio visivo e fotografia documentaria presso l’Asian Center for Journalism nelle Filippine. Credi che metodi di formazione diversi possano contribuire a sviluppare prospettive visive distinte?
Ho studiato Arti pubblicitarie nelle Filippine e successivamente mi sono formato nel fotogiornalismo, ma i miei primi mentori erano principalmente fotografi filippini, non occidentali. Questi mentori, alcuni dei quali figure di riferimento nel settore, mi hanno insegnato il rigore e l’etica del giornalismo, della fotografia documentaria e della narrazione visiva. Con il tempo, ho iniziato a esplorare approcci diversi alla fotografia documentaristica, ampliando così la mia prospettiva.
Partecipare a workshop internazionali e ottenere borse di studio mi ha permesso di lavorare con fotografi ed editori di tutto il mondo. Il mio primo contatto con il fotogiornalismo internazionale è avvenuto attraverso l’Angkor Photo Festival, dove ho imparato l’importanza dei progetti a lungo termine e della presentazione del lavoro su diverse piattaforme. In seguito, la Ian Parry Scholarship Grant mi ha messo in contatto con stimati photo editor, i cui preziosi consigli mi hanno aiutato a perfezionare la narrazione visiva e ad adattare il mio lavoro a pubblici diversi. Programmi come il Joopswart Masterclass del World Press Photo hanno ulteriormente affinato la mia visione personale, enfatizzando l’importanza della narrazione, della sequenza delle immagini e della loro presentazione su piattaforme diverse, come mostre, fotolibri e media digitali.
Come fotografo e docente, sottolineo sempre l’importanza delle discipline fondamentali del giornalismo e della fotografia. Sviluppare una prospettiva visiva distintiva richiede tempo e dedizione. Non si tratta solo di creare immagini esteticamente potenti, ma di mantenere l’integrità dei soggetti e delle storie raccontate. Il fotogiornalismo, nella sua essenza, rappresenta le voci e le problematiche degli altri, e questa responsabilità impone attenzione ai dettagli e rispetto per i soggetti.
Per sviluppare una voce visiva unica, incoraggio i fotografi a immergersi in pratiche diverse, a imparare dagli altri, a leggere ampiamente (anche oltre la fotografia) e a dedicarsi costantemente all’autoformazione. Una prospettiva distintiva si sviluppa attraverso un impegno continuo, l’esposizione a diverse influenze e un’attenta costruzione della narrazione.

Vorrei approfondire il tema di come il linguaggio visivo e il background culturale possano influenzare il modo in cui le storie vengono costruite e interpretate visivamente nel fotogiornalismo. Credi che oggi, nel fotogiornalismo contemporaneo, esista una differenza tra lo stile fotografico “occidentale” e quello “asiatico”? Se sì, quali sono, secondo te, le principali differenze e in che modo queste influenzano la comprensione e la risposta emotiva degli spettatori alle immagini fotogiornalistiche?
In risposta alla domanda precedente, credo che questo tema — l’analisi della prospettiva occidentale nella fotografia — meriterebbe un intero podcast o un’intervista dedicata. La questione non riguarda solo i fotografi, ma anche le piattaforme mediatiche e le pubblicazioni che, storicamente, hanno dettato il modo in cui le storie vengono raccontate. Si tratta di strutture di potere e di come visualizziamo e rappresentiamo le narrazioni.
Negli ultimi 10-15 anni, c’è stata una spinta significativa per mettere in discussione l’approccio occidentalizzato alla narrazione. Questo cambiamento è stato favorito da un maggiore accesso alla formazione, alle risorse e alle opportunità globali per i fotografi del Sud del mondo e di altre regioni sottorappresentate. Oggi, professionisti provenienti da regioni come il Sud Asia, il Sud-Est asiatico e il Pacifico sono sempre più in grado di creare e pubblicare le proprie storie visive, spesso rispettando gli standard delle pubblicazioni internazionali. Questo progresso riduce la necessità di affidarsi esclusivamente a fotografi occidentali per raccontare queste realtà.
I social media e piattaforme collaborative come The Everyday Projects hanno svolto un ruolo cruciale nell’amplificare le voci dei fotografi locali. Queste iniziative non solo offrono ai fotografi di aree remote la possibilità di raccontare le proprie storie, ma sfidano anche la tendenza storica dei fotografi occidentali a concentrarsi su narrazioni negative o incentrate sui conflitti. Al contrario, oggi si sta affermando sempre più la necessità di rappresentare un panorama più ampio e diversificato di immagini che riflettano le esperienze vissute dalle comunità locali.
È importante sottolineare che, sebbene gli strumenti tecnici e i metodi della fotografia siano in gran parte universali, il linguaggio visivo e l’identità di un fotografo emergono realmente quando gli viene data la possibilità di raccontare le proprie storie. Ad esempio, in passato, le storie sul Medio Oriente erano per lo più documentate da fotografi occidentali, mentre i professionisti locali venivano relegati a ruoli secondari, come assistenti o fixer. Negli ultimi anni, invece, i fotografi del Medio Oriente hanno assunto un ruolo di primo piano, spesso rischiando la vita per raccontare le proprie realtà con autenticità e profondità.
In definitiva, questa spinta verso la valorizzazione delle voci locali e l’empowerment dei fotografi del posto è fondamentale. Permette una narrazione visiva più rappresentativa delle comunità locali e delle loro prospettive. Quando sono i fotografi locali i principali autori delle proprie storie, le narrazioni diventano più ricche, diversificate e autentiche.


Hai anche esplorato la spiritualità nel tuo lavoro come fotografo. Nel tuo progetto “Barrio Sagrado”, esplori la spiritualità indigena e il cattolicesimo nelle Filippine. Recentemente ho letto un articolo in cui veniva posta una domanda a fotografi impegnati nelle tematiche della fotografia e della cultura: come possono le fotografie realizzate all’interno di un contesto culturale essere comprese nel migliore dei modi da spettatori di un’altra cultura? Vorrei porti la stessa domanda.
Grazie per aver posto questa domanda, è strettamente legata alla mia pratica come fotografo documentarista e al mio metodo per creare Barrio Sagrado. La sfida sta nel capire come le fotografie realizzate all’interno di un contesto culturale possano risuonare con pubblici diversi. Come fotografi, anche quando lavoriamo su progetti personali, è importante ricordare che il nostro lavoro comunica messaggi a spettatori locali e internazionali.
Quando ho iniziato Barrio Sagrado, era inizialmente un’esplorazione reattiva di varie pratiche spirituali e culturali nelle Filippine, in particolare quelle legate al dolore fisico. Col tempo, ho affinato l’obiettivo del progetto, collegandolo a temi più ampi come la salute pubblica. La domanda centrale che guida il progetto è: come le persone affrontano il dolore fisico? Questa domanda è diventata personale quando a mio padre è stata diagnosticata una malattia oncologica, e ho iniziato a esplorare come le persone e i loro cari affrontano il dolore.
Pur essendo la base del progetto profondamente personale e radicata nelle pratiche spirituali, l’ho anche collegato a temi universali come la salute, il dolore e le questioni sociologiche riguardanti i metodi tradizionali e moderni di cura. Questo approccio permette al lavoro di coinvolgere un pubblico più ampio senza svilirne l’essenza.
In definitiva, il mio obiettivo è stimolare discussioni più ampie sul dolore, la salute e le percezioni culturali della cura, mantenendo l’integrità della mia documentazione personale.

Ci puoi parlare di più del tuo lavoro recente come co-regista di un documentario indipendente nel sud delle Filippine? Qual è stata la lezione più preziosa che hai imparato da questa esperienza?
Sono estremamente grato per questa opportunità, poiché mi ha insegnato lezioni preziose nel corso dell’ultimo anno. La più apprezzabile è stata l’importanza di una ricerca approfondita e della verifica delle informazioni nel lavoro documentaristico e nel reporting. Riflettendo sul mio approccio precedente come “giornalista paracadutista*”, dove mi concentravo su storie emozionanti o intense, ho imparato la necessità di un coinvolgimento più profondo e sfumato con i soggetti e le comunità.
Attraverso le conversazioni con le persone nel sud delle Filippine, ho compreso l’importanza di rappresentare prospettive diverse — che si tratti della vita quotidiana dei cittadini comuni, dei funzionari governativi impegnati a servire la comunità, o delle comunità indigene emarginate. Le rappresentazioni mediatiche di regioni come Mindanao hanno spesso perpetuato stereotipi negativi, dipingendole come pericolose o legate al terrorismo. Questa esperienza mi ha dato l’opportunità di sfidare queste narrazioni e di fare luce su queste comunità attraverso il documentario che sto co-producendo.
Ora vedo il valore nel mettere in risalto le storie più silenziose e non raccontate, che vanno oltre le notizie sensazionalistiche o gli eventi di grande impatto. Questi momenti offrono una rappresentazione più veritiera di ciò che accade sul terreno e possono favorire una maggiore comprensione. È fondamentale includere voci diverse nella narrazione, essere pazienti e continuare a cercare prospettive spesso trascurate. In questo modo, spero di presentare una visione più equilibrata — non solo delle Filippine meridionali, ma anche di altre regioni sottorappresentate in tutto il mondo.
* Il “giornalista paracadutista” (in inglese parachute journalist) è un termine usato per descrivere quei giornalisti che vengono inviati in una determinata area, spesso in situazioni di crisi o conflitto, senza una conoscenza approfondita del contesto locale.


Ci sono fotografi particolari che hanno ispirato o influenzato il tuo lavoro?
Sono stato ispirato da una vasta gamma di fotografi, a cominciare dai fotografi filippini, che ho avuto modo di conoscere fin da giovane. L’abitudine di mio padre di collezionare ritagli di giornale con foto suggestive, insieme alle nostre visite nelle librerie di libri usati per riviste fotografiche, ha suscitato il mio interesse fin da piccolo. Pubblicazioni come National Geographic, Time e Life hanno avuto un ruolo significativo nel plasmare la mia comprensione visiva.
Tra i fotografi filippini, il lavoro di Derek Soriano sulla salute mentale e sull’eruzione del Pinatubo nel 1991 è stato particolarmente influente, così come la copertura di notizie di Romeo Gacad, che ha incluso il suo lavoro nominato al Pulitzer e immagini iconiche come quella del combattente talebano. L’abilità di Sonny Yabao nel fondere letteratura, giornalismo e fotografia documentaria mi ha anche lasciato un’impressione profonda.
Dalla fotografia occidentale, ho tratto ispirazione da classici come W. Eugene Smith e i fotografi della Magnum, che sono diventati i miei “libri di testo quotidiani” all’inizio della mia carriera. Per Barrio Sagrado, ho trovato guida in fotografe, in particolare Graciela Iturbide, Cristina Garcia-Rodero, Diane Arbus, tra le altre.
Recentemente, sono stato ispirato anche da altri fotografi asiatici e piattaforme come Invisible Photographer Asia, Zhuang Wubin Writing Foto, Reading Photographs, Diversify che mettono in mostra i talenti emergenti della regione. Queste influenze diverse hanno plasmato la mia prospettiva e il mio approccio alla fotografia.
Silvia Dona’