Negli ultimi anni la fotografia si è sempre più misurata con temi impellenti che riguardano la natura in ogni sua declinazione, dalla semplice celebrazione alla salvaguardia, dalla sensibilizzazione dei problemi ecologici alla rivelazione dell’incontaminato.
Alla base di ogni buona pratica di rispetto verso la natura ci sta sempre la conoscenza. Non è un caso se il panorama fotografico italiano è ricco di fotografi che dirigono il proprio sguardo sensibile verso il territorio, interrogandosi su valori perduti che la modernità si è portata via: le proprie radici, il rapporto con la terra, l’abbandono, l’identità. Una di questi è Lucia Polito, giovane fotografa freelance abruzzese.
Lucia si è laureata al Dams di Bologna nel 2017 ed attualmente frequenta un Master di Fotografia presso l’Università del West of England a Bristol. La sua pratica fotografica è il frutto della sua esperienza personale e della sua percezione del mondo. È particolarmente interessata alle narrazioni del mondo naturale per promuovere una riflessione su questioni ambientali ed esistenziali.
Abbiamo raggiunto Lucia per approfondire il suo lavoro dal titolo “Majella”, progetto che affronta in modo particolari i temi della separazione dalle proprie radici, dello smarrimento, della relazione con il mondo naturale e della urgente ricollocazione dell’uomo all’interno della natura stessa.
E lo fa con immagini dense di simbolismo, sottolineate dalla scelta stilistica del bianconero che, unita ad una narrazione personale ed a interventi manuali sulle fotografie, evocano immaginari misteriosi ed ancestrali.

Partiamo da una tua dichiarazione che recita così: “lasciare la propria terra per arricchirla da lontano“. Qual è il rapporto con le tue radici e con la natura, e che ruolo hanno all’interno della tua pratica artistica?
Sono cresciuta fra le strade strette di una contrada abruzzese, dove, fra le colture, la vita si manifesta: il vento suona gli steli d’erba, le foglie scricchiolano sotto i passi di qualche animale e quando viene sera la volta celeste si puntina di stelle. Quegli scenari idilliaci, quei luoghi pacifici, dai tempi più vivibili e dalle sembianze più naturali, si sono impressi nel mio immaginario per contrapposizione al vivere in quei luoghi densamente urbanizzati, in cui sono mi sono stabilita per continuare i miei studi. Infatti, se da un lato questi concentrati urbani sembrano offrire maggiori possibilità di sostentamento e formazione per l’individuo, dall’altro invece, quest’ultimo, si trova costretto ai ritmi di produttività e consumo di cui l’ambiente artificiale totalmente antropizzato necessita per funzionare. Per questo, allora, tornare in quei luoghi è divenuto un momento di riunificazione, che mi ha permesso di riscoprire un senso di completezza e di piacere mai provato nel mondo dominato dall’uomo. Il paesaggio, prevalentemente naturale, caratteristico della mia terra ed i suoi cicli naturali iniziarono ad apparirmi molto più vivibili rispetto a quelli delle vaste aree urbane, come se fossero capaci di generare del benessere che l’ambiente artificiale non è in grado di evocare, in cui anche la vita umana apparisse più sostenibile. Non penso di dire niente di nuovo quando parlo dell’importanza che ha per l’uomo lasciare dello spazio “vuoto” incolto e libero alla natura, permettendole di manifestarsi. Capire realmente questi aspetti ha rafforzato il mio pre-esistente rapporto con il mondo naturale, di fondamentale importanza per il mio benessere fisico-emotivo. Ho sentito necessaria una connessione con altri elementi che compongono e permettono l’esistenza, in modo tale da comprendere che cosa straordinaria sia la vita, in tutte le sue forme, e cosa voglia dire farne parte rispettandola. In questo senso la mia pratica fotografica rispecchia la necessità di solidificare questo rapporto. Quando si focalizza sulla semiotica dei simboli naturali, cerca di comprenderne la fenomenologia così che possa fissarne le sue forme. In questo modo, l’immagine si fa portavoce dei significati che la natura evoca, cercando di rivelarli all’osservatore.


Majella, il tuo progetto fotografico, parla di fratture, interruzioni, perdite e del primitivo potere rigenerativo della natura. Montagna come simbolo ma non solo. Ce ne puoi parlare?
La Majella costituisce il secondo fra i picchi più alti d’Abruzzo, ma a renderla così importante, non solo per me, è il racconto popolare che spiega la sua formazione e che gli attribuisce delle sembianze materne. Questa narrazione è parte costitutiva di un sapere collettivo che simboleggia la connessione profonda che esisteva fra le persone e la montagna. Con l’avvento della modernità, che porta l’uomo ad emanciparsi in modo definitivo dalla natura, la montagna rischia di perdere il suo connotato materno. In Majella questo senso di rottura si manifesta attraverso le crepe fra le rocce, la luce che penetra l’oscurità del sottobosco e i tronchi spezzati. Questi scenari rievocano il mito secondo il quale su quei monti, la pleiade Maja, perde suo figlio Ermes dopo aver invano tentato di salvarlo e simboleggiano le lacrime del suo pianto che scendendo a valle scavano solchi ed insenature. Nel progetto, sia la storia che le fratture esprimono l’abbandono del mondo naturale da parte dell’uomo e la successiva rottura di un equilibrio vitale. La montagna, come tuttala natura, è capace di ricongiungere i pezzi e di generare vita malgrado la sua inesorabile corrosione, trovando un nuovo assetto dopo ogni frattura. L’uomo, rifiutando i suoi connotati naturali, rinuncia a questo potere. In questo senso, allora, le scissioni diventano metafora della capacita naturale di sostenere la vita e celebrare l’esistenza di altre entità vitali che per l’uomo sono difficili da considerare. Si potrebbe dire che Majella auspichi all’uomo di riscoprire questa formula per ricalibrare il suo ruolo egemone in modo che la vita sulla terra possa perpetuare.

Alcune fotografie riportano degli strappi reali. Perché questa pratica e queste immagini come dialogano con il resto del progetto?
Gli strappi visibili sono stati ispirati dall’immagine in copertina, raffigurante una tavola di pietra con una crepa ben evidente. Questa immagine mi ha spinto a riflettere sulle azioni che l’uomo svolge quotidianamente come, ad esempio, il plasmare la materia, oltre che sull’impatto che esso crea. Mi è parso che siano poche le azioni umane, come quelle che la natura compie, che abbiano conservato, oggi, una volontà generatrice, capace di sostenere la vita in tante forme. Basti pensare a come la morte, che per gli uomini significa negazione della vita, in natura spesso costituisca l’opposto, e quindi sopravvivenza. L’arte sembra essere una di quelle attività umane che si avvicina di più a questo concetto naturale di creazione; e così, strappata l’immagine, sembra negare la sua esistenza, in un primo momento perde le caratteristiche di un’opera visiva, in quanto ciò che è raffigurato non si può più leggere, ma quando la si ricompone essa riacquista valore comunicativo ed in un certo senso ritorna ad esistere. La cicatrice resa visibile porta alla conoscenza dell’evento passato, conferendo all’immagine un nuovo significato. In questo modo, l’atto dello strappare imita l’azione della montagna e gli squarci che si formano diventano analogie dei solchi che la caratterizzano, facendo riecheggiare l’immanente e continuo cambiamento dell’esistenza. In conclusione vorrei aggiungere che lo strappo suggerisce anche un trauma, parte della mia esperienza personale di allontanamento dallo “stato di natura”, dal quale prendo spunto per spiegare la divisione avvenuta fra l’umanità e il mondo naturale. Le immagini sulle quali sono state applicate le fratture sono paesaggi in lontananza, quasi onirici; si potrebbe dire che vorrebbero costituirsi come delle figure archetipe della mia esperienza.


Il tuo progetto è un’analisi del rapporto fra uomo e natura ma nelle immagini non c’è presenza umana se non qualche (evidente) segno. Quali sono le motivazioni di questa scelta?
L’intenzione di questa scelta nasce dalla necessità di evocare un senso di primitiva appartenenza e d’immedesimazione nel paesaggio naturale, caratterizzati dall’assenza di simboli, nei quali l’uomo è solito riconoscersi. Una decisione che è stata presa dopo aver riflettuto sul potere dell’immagine nel determinare la percezione del sé e aver considerato il contesto “mega-mediatico” in cui l’uomo è abituato a rivedersi, a volte riprendersi, e delle altre entrambe nello stesso momento. Infatuato dalla sua stessa figura e storia, l’uomo è consumato dal narcisismo di cui soffre, è abituato a basarsi sulle uniche categorie del “mondo” umano e quello naturale gli appare a volte indecifrabile. La maggior parte delle volte non siamo muniti di conoscenza per comprenderlo, saltano i punti di riferimento e così anche i costrutti culturali. Nonostante ciò, l’assenza della figura umana viene giustificata dalla convinzione che l’uomo non è altro che la natura stessa. Per questo motivo, esso, rivedendosi nelle figure della natura, può riscoprire una conoscenza di sé nel mondo di cui aveva perduto le tracce. Come detto in precedenza: queste visioni vorrebbero riportare alla luce degli archetipi primitivi contenuti nella memoria del mondo e dell’uomo, rappresentazioni del subconscio che si intersecano alle differenti entità che compongono l’esistenza, nel tentativo di ampliare la percezione dell’uomo liberandolo della sua limitatezza.

Quali sono i tuoi sentimenti quando torni sulla Majella? Il tuo rapporto con la montagna è cambiato dopo questo tuo progetto fotografico?
Purtroppo, la Majella mi manca ancora, non sono riuscita a vederla di recente se non di sfuggita, dal momento che non ho passato tanto tempo in Abruzzo. Ho sempre avuto un approccio contemplativo e, per quanto possa sembrare contraddittorio in un contesto in cui si parla di fotografia, ho sempre cercato di ascoltarla per vedere cosa avesse da dirmi. Sono sicura che ci sono ancora molte cose da approfondire in questo rapporto. Mi auguro di poterla vedere sempre gremita e ricca di vita, anche se non nascondo la preoccupazione riguardo alle svolte climatiche che stanno avvenendo. Non solo, sono preoccupata anche dalle possibili politiche invasive nei confronti del territorio e del rischio che l’immagine della Maiella venga sfruttata per meri scopi pubblicitari. Le politiche di conservazione sono importanti ma dobbiamo ammettere la contraddittorietà di questa scelta, riflettendo sul ruolo di protettori che ci siamo illecitamente attribuiti nei confronti della natura. Mi spaventa che essa possa venire trasformata sempre più in uno spettacolo di consumo e funzionale solo al nostro benessere, dal momento che spesso, andare in montagna significa concedersi una vacanza dal nocivo mondo “civile”, abitudine che non ci rende capaci di comprendere il reale valore di certi luoghi.


Quali sono le tue aspettative su “Majella” e quali i tuoi progetti futuri?
Majella è stato pensato come un libro, alla base di questa scelta c’è tanta curiosità e voglia di fare un’esperienza collaborativa e nuova, come quella di vivere il processo di produzione di un libro, manufatto artistico che mi affascina molto. Grazie a questo, da un lato, mi sto concentrando sulla possibilità di avviare una collaborazione per una pubblicazione, dall’altro lato, vorrei rendere il progetto quanto più accessibile al livello territoriale, così che le persone che vivono in Abruzzo possano fruirne con facilità. Al momento sto prendendo contatti con diverse realtà locali, oltre che progetti di ricerca, tra i quali posso citare “Montagne in Movimento” (un gruppo di ricerca-azione che si occupa di antropologia pubblica in comunità di montagna su tutto il territorio italiano). In questo senso vorrei offrire Majella come un mezzo per affrontare le tematiche contenute in esso, mi piacerebbe che questi concetti si evolvessero nelle menti delle persone e si collettivizzassero, sotto alcuni aspetti. Nei miei progetti futuri ci sarà sempre la volontà di formazione e di approfondimento della mia pratica creativa, connessi, in particolar modo, alle tematiche che ho cercato di trattare con Majella e non solo. Vivo il sogno di poter contribuire ad aprire gli orizzonti della produzione e della fruibilità dell’arte e del fare riconoscere l’importanza che ha nell’arricchire la vita di ognuno.

Potete trovare Majella e gli altri lavori fotografici di Lucia polito a questo link www.luciapolito.com
Mirko Bonfanti