“In fondo la fotografia è anche un’arte plastica. […] Alla base di ogni arte plastica c’è la scultura, alla base della fotografia anche.” Così scriveva Jean Claude Lemagny in un suo scritto del 2000: l’apparente divisione tra i due medium, la fotografia e la scultura, può essere colmata prendendo atto della naturale fisicità implicita in ogni visione. Da un lato esiste il corpo di chi vede, dall’altro la materia concreta su cui si deposita lo sguardo, così da gettare “un ponte tra il solido e l’impalpabile”. Con la fotografia si tocca e si modella, l’occhio e la luce fanno ciò che il dito fa sull’argilla.
Nella sua recente pubblicazione “Tra scultura e fotografia” (Postmedia Books), Aurelio Andrighetto ravvisa alcuni esempi in cui le due arti si sono trovate affiancate, intrecciate quasi nel processo inventivo di tre autori prelevati dalla storia a cavallo tra XIX e XX secolo. Ogni espressione figurativa possiede un DNA comune, e Andrighetto ci suggerisce i luoghi in cui cercarne i filamenti genetici.
La linea e la macchia sono gli elementi posti alla base del disegno da Giorgio Vasari, pratica considerata radice di tutti gli altri segni; come linea e come macchia è il modo che la luce ha di presentarsi a noi, di lasciare traccia sulle cose. Se pensiamo al nostro modo di vedere la scultura, ci rendiamo conto che si basa in larga parte sulla sua riproduzione fotografica, ovvero su una concezione monocromatica e chiaroscurale delle forme. La scultura, con l’avvento della fotografia, è diventata un’esperienza di rilettura, se vogliamo: ci immedesimiamo in chi l’ha vista prima di noi, con la luce scelta da un altro; la scultura diventa qualcos’altro dall’esperienza diretta di averla di fronte, diventa un fenomeno mediato.
ll chiaroscuro non rappresenta altro che le pieghe dell’abito che la luce fa indossare alle cose che tocca; e la scultura, vivendo di volta in volta nell’illuminazione con cui viene rappresentata in immagine, cambia veste: questo modo di vedere segna un altro preciso punto di congiunzione tra tutte le arti figurative. E’ ciò che permette la separazione dei piani nei basso o altorilievi, permettendo la loro stessa definizione. Sono l’ombra e la luce a decidere la forma della materia, i suoi vuoti, la sua effettiva estensione visibile: è questa l’intuizione di Adolfo Wildt (1868-1931), il primo artista preso in esame da Aurelio Andrighetto. Quando, di fronte alle sculture reali prima soltanto viste in fotografia, si accorge della differenza sostanziale tra le due esperienze, l’artista affermerà che “solamente la fotografia […] dà quel senso così evidente di chiaroscuro […] è lì il segreto della mia arte… rapito alle fotografie.” I parlatori, opera in gesso del 1907, è l’esempio evidente di quanto la teoria dei toni abbia trovato rifugio nella concezione plastica di Wildt: la parte di braccio che manca non sembra più una vera e propria mutilazione, ma qualcosa di solo momentaneamente adombrato; l’assenza di materia sembra dovuta soltanto a una luce sfavorevole. L’ombra è una macchia che cancella, la luce delinea le fisionomie; il Vasari aveva ragione.
“L’opera di Wildt è un esempio clamoroso di come uno sguardo, educato dalla documentazione fotografica del patrimonio artistico, si sia trasferito dalla fotografia alla scultura […].” Il trasferimento è il concetto che Andrighetto rileva e con cui ci fa concepire questo naturale svicolare di un’arte in un altro medium, di un segno iniziato in un mondo per confluire in un altro, risolvendosi nel debito continuo di supporti diversi.

Wildt non è il solo esempio prelevato da Aurelio Andrighetto per riflettere sull’intrinseca contaminazione tra visione fotografica e scultorea. D’altronde, la fotografia stessa esaurisce il proprio processo sulla fisicità della carta, passando da quella del vetro o della celluloide emulsionata: la luce che vi si imprigiona non fa altro che incidere uno strato di materia, rivelandone, in forma di linee e macchie d’ombra, lo spettro latente.
Medardo Rosso (1858-1928) aveva capito che l’immagine di qualcosa catturato dal visibile (così sostanzialmente può essere intesa la fotografia) è già di suo materia manipolabile, e dunque graffiabile, tagliabile, trasfigurabile. Rosso punta lo sguardo sul proprio atelier, sulle proprie opere, non con intenzione imperativa – quella che vedremo nel terzo autore chiamato in causa da Andrighetto, Constantin Brancusi – ma con la consapevolezza di poter giocare ancora con altra materia, o con la stessa, ora trasformata in carta e luce da strappare, chimica da provocare. Lontana come non mai dalla sua funzione di specchio e documento fedele, la fotografia per Medardo Rosso assume il ruolo di estensione delle possibilità di visione della scultura stessa, intravista ora in una stampa bloccata nella fase di fissaggio, e dunque sbiadita; o nel dettaglio ingrandito e sbiancato dai procedimenti chimici, che pare diventare la volontà stessa della scultura di confondersi, di interrompere la continuativa evidenza delle proprie forme originarie. “Rosso concepisce le sue opere come supporti al flettersi improvviso della luce” scrive Andrighetto; la fotografia, potremmo forse aggiungere, come rifugio ultimo del suo istinto ingenito verso l’anarchia.
Per Constantin Brâncuși (1876-1957) il discorso è diverso: “Sulla scorta di una testimonianza di Man Ray, Krauss attribuisce alle fotografie scattate da Brancusi la funzione di guidare la lettura delle sue opere “meglio di quanto avesse potuto (o potrebbe fare) qualsiasi fotografo.” Ogni fotografia di uno stesso soggetto racconta in realtà soggetti diversi; ne aveva già scritto Gisele Freund, ne è ben consapevole l’artista rumeno. Le sue immagini obbligano a una specifica visione allo spettatore, quella con cui Brâncuși concepisce le proprie opere: la fotografia si ritrova a possedere così la funzione imperativa che Rosso del tutto escludeva, e diventa il tracciato unico imposto allo sguardo del fruitore. Da luogo del pensiero la fotografia si trasforma nel singolo modo di intendere il suo oggetto.

Se per Adolfo Wildt la fotografia funziona come motore di una visione che troverà traduzione nella pratica scultorea, e se per Medardo Rosso la fotografia è la nascita di un’opera “altra”, quasi indipendente dall’opera che racchiude e trasforma, per Brancusi la fotografia serve come indicazione definitiva per guardare al proprio operato.
La fotografia, ci indica Aurelio Andrighetto, sta alla base della scultura in quanto suo precedente teorico, e dunque visivo: attraverso il percorso delineato vediamo la fotografia farsi ragione dei vuoti della materia; farsi azzardo delle forme di una fisionomia sbiadita e graffiata; farsi infine indicazione imperativa sulla visione stessa. Attraverso gli artisti chiamati a testimoniare, si assiste alla concezione della scultura guidata dalle possibilità del mezzo fotografico, sia che ne sia motore visivo, abbaglio finale, vincolo interpretativo.
Nessun medium possiede una specificità chiusa in sé, in questo Andrighetto è chiaro e rende necessaria l’esclusione dei confini tra ciò che muove la visione e la rivela in arte: è nello slittamento costante che l’artista può e riesce a rendere alla sua fluidità naturale il passaggio che gli consente di mettere in discussione il visibile e i modi di interpretarlo.
Carola Allemandi
Aurelio Andrighetto ha esposto le sue opere e presentato le sue teorie sullo sguardo in occasione di eventi e mostre collettive e personali presso fondazioni, centri di ricerca e gallerie (tra le quali BACO a Bergamo, Galleria Continua a San Gimignano, E/static e Franco Soffiantino a Torino, Galleria Milano e Mudima a Milano, Neon a Bologna), musei (GAMeC a Bergamo, GASC a Milano, Great North Museum: Hancock a Newcastle upon Tyne, HDLU a Zagabria, MAMbo a Bologna, MAN a Nuoro, Mart a Trento e Rovereto, MLAC a Roma).
Cofondatore di Warburghiana ha contribuito alla realizzazione dei suoi format sperimentali. Curatore di mostre e progetti sullo scambio tra codici e linguaggi nelle culture e sub-culture del contemporaneo, ha pubblicato il volume Fotografie ritrovate (con Mauro Zanchi, Postmedia Books, 2024), interventi d’artista, brevi saggi, narrazioni e articoli in riviste tra le quali: ATP Diary, Doppiozero, Il Verri, Ipso Facto, Nuova Prosa, Riga, Segnature. Attualmente insegna presso la Libera Accademia di Belle Arti di Brescia (LABA). È redattore di Doppiozero per il settore artistico.